
Una bambina si gode il tempo libero dopo la fine della scuola
C’è stato un tempo in cui l’estate durava tre mesi. Le famiglie, intorno ai primi giorni di giugno, decidevano il da farsi per le settimane a venire. Chi poteva permetterselo raggiungeva la casa al mare, tra l’Argentario e Forte dei Marmi, per trascorrere una lunga estate caldissima, fatta di sdraio e granite. Chi non poteva, trovava comunque il modo di rallentare, tra pomeriggi al parco, giochi nei cortili e una spensieratezza condivisa. Ma sullo sfondo, c’erano sempre loro: le donne. Madri, nonne, sorelle, zie. Custodi del tempo libero dei bambini e garanti di quella normalità che oggi ci sembra quasi archeologia.
Era un’Italia ancora profondamente patriarcale, che dell’emancipazione femminile aveva poca voglia di discutere e che, a dire il vero, fatica ancora oggi a comprenderne i contorni. Perché sì, siamo negli anni Venti del Duemila, ma il modello culturale dominante è ancora quello novecentesco: padre al lavoro, madre a casa. Una formula stanca, superata, eppure ancora sorprendentemente resistente.

Eppure, se ci guardiamo intorno, quante sono le famiglie in cui uno dei due genitori può davvero permettersi di stare a casa con i figli? Pochissime. Quel ruolo materno totale, cucito addosso alle donne per decenni, è saltato. Ma senza che a crollare siano stati anche gli schemi che lo accompagnavano. In Italia, oggi, lavora il 62,3% delle madri. Una percentuale ancora lontana da quella dei padri (91,5%), ma che segna una trasformazione profonda. Peccato che questa trasformazione sia tutta sulle spalle delle donne, che nella maggior parte dei casi non lavorano non per scelta, ma per mancanza di alternative praticabili nella conciliazione tra vita e lavoro.
Estate, dove stanno i figli?
E con l’arrivo dell’estate, l’elefante nella stanza prende il volto dei figli: dove sistemarli? Come gestirli? Chi se ne occupa? Per i più grandi è tutto un po’ più facile, ma per i più piccoli l’estate si trasforma in un rompicapo senza soluzioni. Quando il welfare familiare – leggasi nonni – viene meno, per età, salute o perché magari vivono altrove, l’unica risposta resta nel portafoglio. Babysitter, centri estivi, campus: soluzioni spesso costose, sempre inique.
Lo dimostra bene la storia, emblematica, di una madre trentasettenne di Lecco, addetta alle pulizie, costretta a chiedere un prestito per poter pagare il centro estivo alla figlia: 535 euro per quattro settimane. Una cifra non insormontabile per alcuni, ma del tutto proibitiva per altri. E nonostante un ISEE non elevato, la tariffa è rimasta quella. Nessuno sconto, nessuna flessibilità. La bambina salterà una settimana, dividendosi tra una zia e una vicina.
La genitorialità in Italia: sono fatti delle famiglie
È così che l’Italia affronta il tema dell’infanzia e della genitorialità: scaricando tutto sulle famiglie, anzi, sulle madri. Il punto è che nel nostro Paese tutto è più lento. Avere figli è una decisione rimandata, spesso forzatamente. Si fanno tardi, più tardi che altrove, ed è anche questo un pezzo del problema. Lo racconta con lucidità amara Figli, il film con Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, tratto dalla sceneggiatura di Mattia Torre, ispirata al suo monologo “I figli invecchiano”. Un ritratto esatto di un’Italia dove la nascita di un figlio somiglia più a un terremoto che a una festa, dove ogni equilibrio salta e la coppia implode sotto il peso delle assenze e delle responsabilità condivise solo a parole.
E poi ci sono le famiglie allargate che non esistono più, i nonni che – giustamente – reclamano la propria autonomia, che viaggiano, lavorano, vivono. Non c’è più la disponibilità incondizionata di un tempo. È uno scontro generazionale e sociale su cui o si riflette, o si muore. Perché la fatica non è un destino ineluttabile, è la conseguenza di un disegno sociale che non tiene conto del presente. E soprattutto, delle donne.
La denatalità in Italia è un dato strutturale. Eppure, il tema della cura resta fuori dalle agende politiche. Parlare di asili, centri estivi, lavoro agile e servizi integrati non fa mai davvero notizia. Troppe donne scelgono di non diventare madri per paura di essere costrette a rinunciare a sé stesse, alla propria indipendenza, ai propri progetti. E il paradosso è che c’è chi pensa che il problema sia la cultura woke. Ma non è la difesa dei diritti a minacciare la società: è la negazione dei diritti stessi, è la loro irrilevanza nel dibattito pubblico. Servono politiche concrete, istituzioni lungimiranti, ma soprattutto serve una presa di coscienza collettiva. Perché la questione non è solo economica: è culturale. È politica. È urgente. E riguarda tutte e tutti.