
Civili vietnamiti durante uno scontro a fuoco (U.S. DOS, Office of the Historian)
Vietnam del Sud, 30 aprile 1975. Mentre gli elicotteri statunitensi decollavano dal tetto dell’ambasciata a stelle e strisce di Saigon, evacuando in fretta e furia il personale rimasto negli uffici, il mondo assisteva immobile ad uno dei momenti cardine del secondo dopoguerra. In quegli attimi, nel fragore delle pale che ruotavano il più velocemente possibile, i reporter di guerra immortalavano sui rullini delle proprie macchine fotografiche scatti che sarebbero passati alla storia.
Il crollo di Saigon non fu soltanto la fine di una guerra, ma la disfatta di un’intera visione del mondo e del modo di affrontare le controversie internazionali. Gli Stati Uniti, convinti – così come i loro omologhi moscoviti – di poter controllare con le armi l’espansione delle sfere di influenza ostili, dovettero fare i conti con una realtà ben diversa. Una realtà che, già negli anni ’50 e ‘60, gettava gli stessi semi che, pochi decenni dopo, sarebbero fioriti in est Europa a partire dagli anni ‘80, col ritiro dall’Afghanistan prima e col crollo dell’Unione Sovietica poi.

I sogni dei due schieramenti, che divennero presto incubi per le popolazioni civili coinvolte nei conflitti armati della seconda metà del Novecento, videro nel ritiro statunitense da Vietnam del Sud non solo un vessillo, ma un vero e proprio infittirsi di quella ragnatela di crepe che stava iniziando, sempre più, a far scricchiolare il muro che divideva il mondo in due ecosistemi contrapposti. Mentre i due blocchi combattevano a distanza, erano le popolazioni civili a soffrire sotto il fragore delle bombe e tra le fiamme provocate dal napalm. Una pratica, quest’ultima, che si intensificò proprio nel corso del conflitto in Vietnam, segnando nella mente e nel corpo intere generazioni.
Imperialismo, cinquant’anni dopo
Oggi, cinquant'anni dopo, l'imperialismo non è scomparso. Ha solo cambiato forma. Se, nel corso della Guerra Fredda, il dominio si imponeva – come recita ancora la dottrina statunitense – “boots on the ground”, oggi non è necessariamente così. Nonostante siano molteplici i conflitti armati di matrice imperialista attivi in tutto il mondo (basti pensare all’invasione russa dell’Ucraina), la dottrina di assoggettamento adottata dai “potenti della Terra” si è adattata ai tempi che corrono, smussando i propri angoli e facendosi sempre più subdola e insidiosa.

Col nuovo millennio, i carri armati hanno ceduto il passo alle rotte del commercio globale, i bombardamenti a tappeto ai server stracolmi di dati sottratti agli utenti, le basi militari oltreconfine agli algoritmi e alle infrastrutture digitali. Il modo di espandere le proprie radici al di là delle proprie frontiere è profondamente mutato, lasciando ai flussi di dati e di capitale il ruolo di banderuole che determinano la direzione nella quale tira il vento.
Beninteso, questa non vuole essere una critica tout court né alla globalizzazione né alla digitalizzazione che, da qualche decennio, contraddistingue le nostre vite, quanto più una descrizione del modo in cui l’imperialismo, nonché lo sfruttamento, abbiano cambiato forma, mutando la propria pelle senza perdere il proprio ruolo intrinseco: quello di mantenere e consolidare rapporti di forza diseguali.
E se, nel corso del ‘900, la maschera dietro la quale si celava questo dominio non proprio occulto era quella della missione civilizzatrice, poi crollata col processo di decolonizzazione, ad oggi sono i valori del progresso e della connessione globale che, per quanto positivi, vengono plasmati a favore degli interessi di pochi. A farne le spese, al solito, sono le vite degli “altri”, la quasi totalità della popolazione mondiale.