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Home » Politica » Il Paese che toglie la sedia alla Von Der Leyen odia le donne. Il nostro viaggio nella Turchia di Erdogan

Il Paese che toglie la sedia alla Von Der Leyen odia le donne. Il nostro viaggio nella Turchia di Erdogan

Dopo il "sofa gate" abbiamo riacceso i riflettori sulla condizione della donna in Turchia: 300 donne uccise dal marito o dal compagno nel 2020 e già 84 nei primi mesi del 2021. E in 10 anni i casi sono triplicati. Alla luce di tutto questo il presidente Erdogan ha firmato l'uscita dalla Convenzione internazionale sui diritti delle donne e degli omosessuali. L'attivista Zelal: "Repressione delle donne come quella dei curdi"

di Enrico Fovanna
15 Aprile 2021
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L’affronto diplomatico che ha scosso l’opinione pubblica internazionale, ormai noto come sofagate, è solo la punta dell’iceberg di un evidente problema che la Turchia, guidata dal presidente Recep Tayyip Erdogan, ha con le donne. Quando abbiamo letto l’umiliazione e lo sconcerto sul volto della presidente europea, Ursula Von Der Leyen, ci siamo chiesti a quale punto sia la questione femminile nel Paese.  A farci la fotografia della situazione ci pensano i numeri: 300 donne uccise dal marito o compagno nel 2020 e già 84 nei primi mesi del 2021. E in 10 anni i casi sono triplicati. Alle molte incarcerate per motivi politici, specie tra le cittadine curde, negli interrogatori non sono stati risparmiate torture e violenza. Anche per questo appare a dir poco agghiacciante la decisione del presidente  Erdogan di ritirare il Paese dal “protocollo di Istanbul” siglato nel 2011, conosciuto come Convenzione internazionale sui diritti delle donne e degli omosessuali.

 

Le manifestazioni e le donne che combattono

Turca di etnia curda, Zelal è un’imprenditrice che vive in Italia da oltre trent’anni, con i genitori in patria. Per lei il colpo è stato pesante. “Era l’unico strumento giuridico internazionale che proteggeva le donne contro qualsiasi forma di violenza – dice – In Turchia c’era una norma secondo quale se un uomo violenta una bambina, ma poi la sposa, viene assolto. Con la Convenzione, chi commetteva un atto del genere violava i diritti umani. Lo stesso valeva per le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, le violenze fisiche e psicologiche, lo stupro, lo stalking, le molestie e la tortura. Ora invece tutto ciò sfuggirà al controllo internazionale“. Zelal ricorda che per il governo di Erdogan il protocollo è decaduto “in quanto contrario alle norme dell’Islam, poiché incoraggerebbe il divorzio e l’omosessualità”. Ma è palese come la svolta teocratica finisca per legittimare ogni forma di violenza domestica. “Per fortuna in Turchia sono già scattate molte manifestazioni spontanee di piazza contro questa scelta. E anche se Erdogan ha già firmato il decreto, mi resta la speranza che si tratti di una provocazione, prima o poi annullata. Quel che mi fa male è vedere le donne del partito di Erdogan festeggiare in piazza. Da non credere”.

 

La resistenza delle intellettuali

Anche il foro degli avvocati di Ankara, nonostante i rischi di pesantissime ritorsioni, ha presentato ricorso contro la decisione in base al quale il ritiro unilaterale sarebbe contrario alla Costituzione e costituirebbe un’appropriazione indebita di funzioni da parte dello stesso presidente. E pensare che nel 2012, la Turchia era stato il primo Paese a ratificare il documento, aperto alla firma l’anno precedente. Ma sono molteplici, ovunque, le voci di protesta contro la svolta. Anche a Roma il Movimento delle donne libere curde (Tja) ha tenuto giovedì 25 marzo un sit-in di protesta davanti all’ambasciata della Turchia.

“È una svolta che mette in pericolo di vita tutte le donne del mio Paese – denuncia la scrittrice turca Esmahan Aykol, nota per i gialli pubblicati in Italia da Sellerio – e dimostra come il regime sia non solo misogino, ma anche omofobo. Oggi la Turchia non è un Paese per donne, né per le minoranze sessuali. Una grave battuta d’arresto nella lotta per la protezione dei diritti, proprio quando il femminicidio e la violenza contro le donne sono aumentati negli ultimi dieci anni”.

 

Le reazioni politiche

Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia, ha firmato il decreto di uscita del suo paese dal protocollo di Istanbul. Per il governo turco sarebbe “contrario alle norme dell’Islam”

Sulla decisione, che presto potrebbe essere presa anche dalla Polonia, era intervenuto anche il premier Draghi, noto per la cautela nelle prese di posizione: “Ho esaminato con Erdogan l’importanza di evitare iniziative divisive e l’esigenza di rispettare i diritti umani. L’abbandono turco della Convenzione rappresenta un grave passo indietro. La protezione delle donne dalla violenza, ma in generale la difesa dei diritti umani – ha sottolineato Draghi – sono un valore fondamentale, identitario per l’Unione europea”.

La Turchia si allontana insomma sempre più dall’Occidente. In materia di minoranze e discriminazioni risulta oltretutto evidente il nesso tra il livello della condizione femminile e la repressione della minoranza curda, 20 milioni in un Paese da 82 milioni di abitanti. Negli ultimi 30 anni la Turchia ha chiuso cinque partiti politici filo-curdi. L’ultimo a metà di marzo: l’Hdp, che aveva stravinto nell’Est del Paese, terza forza in Parlamento per numero di rappresentanti, con 12 milioni di voti all’attivo. L’accusa è sempre la stessa: un presunto agire “contro l’integrità indivisibile dello Stato come nazione”.

 

La battaglia interna contro i curdi

Ed è ancora Zelal a ricordare come il ruolo fondamentale della donna nella società curda sia sempre stato malvisto dall’Islam di Stato. La società curda è matriarcale. Con gli uomini al fronte, è toccato spesso alle donne gestire non solo l’ambito della famiglia ma anche l’amministrazione delle città e della cosa pubblica. Il più vistoso esempio in materia è stato il Rojava, l’enclave curda in terra siriana, straordinario test di applicazione dei diritti delle donne in Medio Oriente. Un’area nella Siria del nord-est dove le donne, tra economia sociale, eguaglianza di genere, etnia, confessione e democrazia diretta, per anni avevano autogestito tutti i compiti pubblici in quartieri, villaggi e città.

Una realtà stroncata nel sangue proprio da Erdogan un anno fa, con una gigantesca operazione militare e il pretesto di cancellare un potenziale stato oltre la frontiera. I curdi del Rojava erano stati peraltro l’unica forza militare sul campo a sconfiggere le bande dell’Isis e a cacciarle dalla loro capitale Raqqa, dove 500mila abitanti vivevano da anni nel terrore. Ancora, avevano liberato i loro “cugini“ Yazidi del monte Sinjar, una minoranza religiosa curda ai confini tra Siria e Iraq, contro cui nel 2015 si era scatenata la furia degli integralisti islamici, che li avevano sottomessi, rapendo e stuprando le loro giovani, ridotte a schiave sessuali dei capi militari.

 

Stupri e rapimenti: le ragazze che cercano di tornare a vivere

Nei primi di febbraio del 2020, un gruppo di ragazze yazide ormai libere, di età compresa tra i 15 e i 22 anni, è partito alla volta del Regno Unito, esportando un coro che celebra e custodisce la cultura e la storia yazidi. Il gruppo era accomunato dagli orrori commessi contro il loro popolo dall’Isis: metà delle ragazze, infatti, era stata rapita e stuprata dai militanti durante l’assedio. La musica ha avuto un ruolo terapeutico per queste ragazze, aiutandole a tornare alla normalità e a riscoprire la propria identità. Il progetto corale è stato portato avanti dalla fondazione inglese Amar e dal violinista Micheal Bochmann, impegnati a preservare la musica di questa comunità per le generazioni future. Un esempio di lieto fine, che ancora una volta passa dai ragazzi.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
L'affronto diplomatico che ha scosso l'opinione pubblica internazionale, ormai noto come sofagate, è solo la punta dell'iceberg di un evidente problema che la Turchia, guidata dal presidente Recep Tayyip Erdogan, ha con le donne. Quando abbiamo letto l'umiliazione e lo sconcerto sul volto della presidente europea, Ursula Von Der Leyen, ci siamo chiesti a quale punto sia la questione femminile nel Paese.  A farci la fotografia della situazione ci pensano i numeri: 300 donne uccise dal marito o compagno nel 2020 e già 84 nei primi mesi del 2021. E in 10 anni i casi sono triplicati. Alle molte incarcerate per motivi politici, specie tra le cittadine curde, negli interrogatori non sono stati risparmiate torture e violenza. Anche per questo appare a dir poco agghiacciante la decisione del presidente  Erdogan di ritirare il Paese dal "protocollo di Istanbul" siglato nel 2011, conosciuto come Convenzione internazionale sui diritti delle donne e degli omosessuali.  

Le manifestazioni e le donne che combattono

Turca di etnia curda, Zelal è un'imprenditrice che vive in Italia da oltre trent'anni, con i genitori in patria. Per lei il colpo è stato pesante. "Era l'unico strumento giuridico internazionale che proteggeva le donne contro qualsiasi forma di violenza – dice – In Turchia c'era una norma secondo quale se un uomo violenta una bambina, ma poi la sposa, viene assolto. Con la Convenzione, chi commetteva un atto del genere violava i diritti umani. Lo stesso valeva per le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, le violenze fisiche e psicologiche, lo stupro, lo stalking, le molestie e la tortura. Ora invece tutto ciò sfuggirà al controllo internazionale". Zelal ricorda che per il governo di Erdogan il protocollo è decaduto "in quanto contrario alle norme dell'Islam, poiché incoraggerebbe il divorzio e l'omosessualità". Ma è palese come la svolta teocratica finisca per legittimare ogni forma di violenza domestica. "Per fortuna in Turchia sono già scattate molte manifestazioni spontanee di piazza contro questa scelta. E anche se Erdogan ha già firmato il decreto, mi resta la speranza che si tratti di una provocazione, prima o poi annullata. Quel che mi fa male è vedere le donne del partito di Erdogan festeggiare in piazza. Da non credere".  

La resistenza delle intellettuali

Anche il foro degli avvocati di Ankara, nonostante i rischi di pesantissime ritorsioni, ha presentato ricorso contro la decisione in base al quale il ritiro unilaterale sarebbe contrario alla Costituzione e costituirebbe un'appropriazione indebita di funzioni da parte dello stesso presidente. E pensare che nel 2012, la Turchia era stato il primo Paese a ratificare il documento, aperto alla firma l'anno precedente. Ma sono molteplici, ovunque, le voci di protesta contro la svolta. Anche a Roma il Movimento delle donne libere curde (Tja) ha tenuto giovedì 25 marzo un sit-in di protesta davanti all’ambasciata della Turchia. “È una svolta che mette in pericolo di vita tutte le donne del mio Paese - denuncia la scrittrice turca Esmahan Aykol, nota per i gialli pubblicati in Italia da Sellerio - e dimostra come il regime sia non solo misogino, ma anche omofobo. Oggi la Turchia non è un Paese per donne, né per le minoranze sessuali. Una grave battuta d'arresto nella lotta per la protezione dei diritti, proprio quando il femminicidio e la violenza contro le donne sono aumentati negli ultimi dieci anni".  

Le reazioni politiche

Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia, ha firmato il decreto di uscita del suo paese dal protocollo di Istanbul. Per il governo turco sarebbe "contrario alle norme dell'Islam"
Sulla decisione, che presto potrebbe essere presa anche dalla Polonia, era intervenuto anche il premier Draghi, noto per la cautela nelle prese di posizione: “Ho esaminato con Erdogan l’importanza di evitare iniziative divisive e l’esigenza di rispettare i diritti umani. L’abbandono turco della Convenzione rappresenta un grave passo indietro. La protezione delle donne dalla violenza, ma in generale la difesa dei diritti umani - ha sottolineato Draghi - sono un valore fondamentale, identitario per l’Unione europea”. La Turchia si allontana insomma sempre più dall'Occidente. In materia di minoranze e discriminazioni risulta oltretutto evidente il nesso tra il livello della condizione femminile e la repressione della minoranza curda, 20 milioni in un Paese da 82 milioni di abitanti. Negli ultimi 30 anni la Turchia ha chiuso cinque partiti politici filo-curdi. L’ultimo a metà di marzo: l’Hdp, che aveva stravinto nell'Est del Paese, terza forza in Parlamento per numero di rappresentanti, con 12 milioni di voti all'attivo. L'accusa è sempre la stessa: un presunto agire “contro l’integrità indivisibile dello Stato come nazione”.  

La battaglia interna contro i curdi

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Nei primi di febbraio del 2020, un gruppo di ragazze yazide ormai libere, di età compresa tra i 15 e i 22 anni, è partito alla volta del Regno Unito, esportando un coro che celebra e custodisce la cultura e la storia yazidi. Il gruppo era accomunato dagli orrori commessi contro il loro popolo dall’Isis: metà delle ragazze, infatti, era stata rapita e stuprata dai militanti durante l’assedio. La musica ha avuto un ruolo terapeutico per queste ragazze, aiutandole a tornare alla normalità e a riscoprire la propria identità. Il progetto corale è stato portato avanti dalla fondazione inglese Amar e dal violinista Micheal Bochmann, impegnati a preservare la musica di questa comunità per le generazioni future. Un esempio di lieto fine, che ancora una volta passa dai ragazzi.
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