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Home » Politica » “#ilgiornodopo ho sporto denuncia, abbracciato mia madre, pianto col mio compagno. E mi sono iscritta ad autodifesa”

“#ilgiornodopo ho sporto denuncia, abbracciato mia madre, pianto col mio compagno. E mi sono iscritta ad autodifesa”

Letizia Magnani, giornalista racconta l'aggressione subita a Siena di notte da uno sconosciuto. "Mi gettò a terra, lui su di me. Fu disturbato dai passanti, fuggì gridandomi cose terribili". #ilgiornodopo in questura l'agente mi chiese come fossi vestita". Se volete condividere la vostra storia, scrivete a [email protected]

Letizia Magnani
29 Aprile 2021
Share on FacebookShare on Twitter

Il giorno dopo ho chiamato mia madre e le ho raccontato che stavo bene, ma che la sera prima ero stata aggredita da uno sconosciuto per la strada. Le ho chiesto di venirmi a prendere. Poi ho organizzato le cose da fare a Siena e quelle da fare a casa, a Cervia. Lavoravo all’Università ed ero ad una cena di lavoro la sera prima, quando ho deciso di tornare a piedi a casa, dal centro. Vivevo subito fuori le mura, dopo la curva che porta alla stazione. Pioveva appena, ma avevo scartato l’ipotesi di un taxi, era da poco passata la mezzanotte ed era normale che tornassi a piedi. Lo facevo abitualmente. Abitavo ancora nel mio appartamento da studentessa, con le mie coinquiline. Ho chiesto a loro di accompagnarmi in questura il giorno dopo e di rendere il giubbotto di pelle al ragazzo che mi aveva soccorso per primo e che mi aveva coperto le spalle bagnate e livide col suo giubbotto.

Letizia Magnani, giornalista, racconta la propria vicenda #ilgiornodopo

“Ho cercato di rimettere in ordine la mia vita” 

Il giorno dopo volevo solo andare via da lì, tornare a casa, a Cervia, chiudermi in una stanza al buio, a piangere. Ma facevo già la giornalista, lavoravo sia a Siena che a Ravenna e avevo tante cose da mettere in fila prima di potermi fermare un istante. Lo avevo detto anche, subito dopo l’aggressione, alla psichiatra che ho chiesto di incontrare immediatamente in ospedale. La denuncia per aggressione vale solo se vai in ospedale a farti medicare. Ricordo il freddo della pioggia addosso. Aveva superato i vestiti ed ero bagnata, le luci dell’ambulanza, volti di persone che non conoscevo che si erano avvicinate per aiutarmi, sarò in debito con loro a vita, il viso della mia coinquilina Isa, giovane donna ferma, che mi diceva di stare calma, che ero al sicuro, mentre salivamo assieme in ambulanza. Siamo stati prima in questura e poi in ospedale, alle Scotte. C’era una luce irreale, quella azzurrognola e allo stesso tempo gialla degli ospedali. La dottoressa, l’infermiera, la psichiatra erano tutte donne. Mi hanno ascoltata.

 

“Ti do i soldi, ma lasciami stare”

No, non conoscevo il mio aggressore, no non lo avevo visto in viso, perché mi aveva aggredita da dietro, alle spalle, mettendomi una mano in bocca. Aveva urlato cose brutte. No, non puzzava di alcool. Almeno non mi era sembrato. Mi era parso giovane, abbastanza giovane. No, non mi ero mai sentita vittima, anzi, gli avevo offerto dei soldi. Ricordo che avevo prelevato poco prima al Bancomat. E anche se avevo le sue dita in bocca e fra le gambe io avevo provato a offrirgli dei soldi, poi avevo urlato con tutta la forza che avevo: “aiuto!”. Aiuto, ecco aiuto. Ma un uomo ha comunque più forza di una donna e mi aveva buttata a terra, ecco ora mi era sopra. C’erano le macchine parcheggiate e dalla strada chi avrebbe potuto vedermi sul marciapiede. Aiuto. Aiuto. E’ lì che ho sentito la pioggia entrarmi nei pantaloni, il freddo sulla carne. Poi è stato tutto veloce, dei ragazzi attirati dalle urla si sono avvicinati. Il mio aggressore ha lasciato la presa, mi ha urlato cose violente, terribili, è scappato. “I miei occhiali. Cercate i miei occhiali. Chiamate la polizia, l’ambulanza. Aiuto”.

 

“Ho chiamato io la polizia”

La polizia l’ho chiamata io. Il cellulare era caduto da una parte, gli occhiali dall’altra. “Aiuto, sono stata aggredita. Venite subito”. Il giorno dopo ho ripetuto le stesse cose dette poche ore prima e poi sono tornata a casa. Ho chiamato i giornali coi quali collaboravo, ho raccontato quanto era avvenuto e detto che avrei consegnato tutto lunedì. Uno era un settimanale e lunedì era il giorno di chiusura. La direttrice mi ha detto che aspettava le pagine. Non chiedevo più tempo, anzi, non chiedevo niente. Tentavo di organizzare tutto, perché quello che mi era successo non doveva cambiare le cose. Le cose no, ma cambia tutto. La paura, che non avevo mai provato in vita mia e che ora aveva il sapore delle dita di uno sconosciuto, cambia tutto.

 

“L’ho detto a mia madre e al mio compagno”

Il giorno dopo sono tornata a casa e con mia madre ho parlato tanto. Volevo piangere, stare sola. Siamo rimaste abbracciate e abbiamo riso e pianto, poi cercato una palestra nella quale fare autodifesa. C’erano così tante cose da mettere in fila, ordinare, fare. Il riconoscimento delle foto, iscriversi in palestra, dire alle persone che attendevano cose, articoli, risposte da me che c’ero, ma che stavo male. Il giorno dopo stavo male. Avevo provato paura e ora stavo male. Il giorno dopo ho chiamato il mio compagno e gli ho raccontato quanto era successo. Con lui ho pianto, finalmente. Fra braccia che non potevano essere ostili.

 

“Scusi, com’era vestita?”

Il giorno dopo mi sono sentita chiedere come ero vestita dalla polizia e ho risposto che se il mio aggressore non era riuscito a violentarmi sul marciapiede bagnato era per via dei pantaloni a vita alta e di qualcuno che aveva sentito la mia voce. Aiuto! Il giorno dopo ho ascoltato tante donne, amiche. Ognuna mi ha raccontato un episodio di violenza vissuta. Adesso ero come loro e potevo capirle. Tranne le donne di casa sembrava che ognuna avesse un episodio da condividere, perché ora ero una di loro e potevo capire, la paura, il dolore.

 

“Noi non siamo come lui”

Il giorno dopo gli uomini, amici, colleghi, parenti, tutti mi hanno detto: io sono qui e sono diverso dall’aggressore. Io non sono così, io non ti farò mai del male. Come stai? Il giorno dopo ho scelto di dire come stavo, mi sono iscritta ad autodifesa e ho chiamato Linea Rosa: “se serve sono qui, posso aiutarvi. Io sono giornalista, quello che posso fare è ascoltare le donne, raccontare la violenza. Battermi per cambiare le cose”.

#ilgiornodopo da tanti anni sono dalla parte delle donne, contro la violenza.

 

Care lettrici, cari lettori, uscite dal silenzio

La campagna social #ilgiornodopo lanciata da Eva Dal Canto in risposta al video di Beppe Grillo (in cui difendeva il figlio indagato per violenza sessuale), sta stimolando molte persone a raccontare sui social esperienze e ricordi legati a episodi di stupri, molestie, violenze. Prima di Letizia Magnani hanno pubblicato su Luce! il ricordo della violenze subite da adolescenti anche le giornaliste Valentina Bertuccio D’Angelo  e  Letizia Cini .  (Qui il video dell’intervista di Letizia Cini su Lady Radio). Se volete condividere la vostra testimonianza, e partecipare alla campagna  #ilgiornodopo, scriveteci a  [email protected] 

 

 

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  • Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Il suo romanzo “La guerra di H”, un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti.

L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet
Il giorno dopo ho chiamato mia madre e le ho raccontato che stavo bene, ma che la sera prima ero stata aggredita da uno sconosciuto per la strada. Le ho chiesto di venirmi a prendere. Poi ho organizzato le cose da fare a Siena e quelle da fare a casa, a Cervia. Lavoravo all’Università ed ero ad una cena di lavoro la sera prima, quando ho deciso di tornare a piedi a casa, dal centro. Vivevo subito fuori le mura, dopo la curva che porta alla stazione. Pioveva appena, ma avevo scartato l’ipotesi di un taxi, era da poco passata la mezzanotte ed era normale che tornassi a piedi. Lo facevo abitualmente. Abitavo ancora nel mio appartamento da studentessa, con le mie coinquiline. Ho chiesto a loro di accompagnarmi in questura il giorno dopo e di rendere il giubbotto di pelle al ragazzo che mi aveva soccorso per primo e che mi aveva coperto le spalle bagnate e livide col suo giubbotto.
Letizia Magnani, giornalista, racconta la propria vicenda #ilgiornodopo

"Ho cercato di rimettere in ordine la mia vita" 

Il giorno dopo volevo solo andare via da lì, tornare a casa, a Cervia, chiudermi in una stanza al buio, a piangere. Ma facevo già la giornalista, lavoravo sia a Siena che a Ravenna e avevo tante cose da mettere in fila prima di potermi fermare un istante. Lo avevo detto anche, subito dopo l’aggressione, alla psichiatra che ho chiesto di incontrare immediatamente in ospedale. La denuncia per aggressione vale solo se vai in ospedale a farti medicare. Ricordo il freddo della pioggia addosso. Aveva superato i vestiti ed ero bagnata, le luci dell’ambulanza, volti di persone che non conoscevo che si erano avvicinate per aiutarmi, sarò in debito con loro a vita, il viso della mia coinquilina Isa, giovane donna ferma, che mi diceva di stare calma, che ero al sicuro, mentre salivamo assieme in ambulanza. Siamo stati prima in questura e poi in ospedale, alle Scotte. C’era una luce irreale, quella azzurrognola e allo stesso tempo gialla degli ospedali. La dottoressa, l’infermiera, la psichiatra erano tutte donne. Mi hanno ascoltata.  

"Ti do i soldi, ma lasciami stare"

No, non conoscevo il mio aggressore, no non lo avevo visto in viso, perché mi aveva aggredita da dietro, alle spalle, mettendomi una mano in bocca. Aveva urlato cose brutte. No, non puzzava di alcool. Almeno non mi era sembrato. Mi era parso giovane, abbastanza giovane. No, non mi ero mai sentita vittima, anzi, gli avevo offerto dei soldi. Ricordo che avevo prelevato poco prima al Bancomat. E anche se avevo le sue dita in bocca e fra le gambe io avevo provato a offrirgli dei soldi, poi avevo urlato con tutta la forza che avevo: “aiuto!”. Aiuto, ecco aiuto. Ma un uomo ha comunque più forza di una donna e mi aveva buttata a terra, ecco ora mi era sopra. C’erano le macchine parcheggiate e dalla strada chi avrebbe potuto vedermi sul marciapiede. Aiuto. Aiuto. E’ lì che ho sentito la pioggia entrarmi nei pantaloni, il freddo sulla carne. Poi è stato tutto veloce, dei ragazzi attirati dalle urla si sono avvicinati. Il mio aggressore ha lasciato la presa, mi ha urlato cose violente, terribili, è scappato. “I miei occhiali. Cercate i miei occhiali. Chiamate la polizia, l’ambulanza. Aiuto”.  

"Ho chiamato io la polizia"

La polizia l’ho chiamata io. Il cellulare era caduto da una parte, gli occhiali dall’altra. “Aiuto, sono stata aggredita. Venite subito”. Il giorno dopo ho ripetuto le stesse cose dette poche ore prima e poi sono tornata a casa. Ho chiamato i giornali coi quali collaboravo, ho raccontato quanto era avvenuto e detto che avrei consegnato tutto lunedì. Uno era un settimanale e lunedì era il giorno di chiusura. La direttrice mi ha detto che aspettava le pagine. Non chiedevo più tempo, anzi, non chiedevo niente. Tentavo di organizzare tutto, perché quello che mi era successo non doveva cambiare le cose. Le cose no, ma cambia tutto. La paura, che non avevo mai provato in vita mia e che ora aveva il sapore delle dita di uno sconosciuto, cambia tutto.  

"L'ho detto a mia madre e al mio compagno"

Il giorno dopo sono tornata a casa e con mia madre ho parlato tanto. Volevo piangere, stare sola. Siamo rimaste abbracciate e abbiamo riso e pianto, poi cercato una palestra nella quale fare autodifesa. C’erano così tante cose da mettere in fila, ordinare, fare. Il riconoscimento delle foto, iscriversi in palestra, dire alle persone che attendevano cose, articoli, risposte da me che c’ero, ma che stavo male. Il giorno dopo stavo male. Avevo provato paura e ora stavo male. Il giorno dopo ho chiamato il mio compagno e gli ho raccontato quanto era successo. Con lui ho pianto, finalmente. Fra braccia che non potevano essere ostili.  

"Scusi, com'era vestita?"

Il giorno dopo mi sono sentita chiedere come ero vestita dalla polizia e ho risposto che se il mio aggressore non era riuscito a violentarmi sul marciapiede bagnato era per via dei pantaloni a vita alta e di qualcuno che aveva sentito la mia voce. Aiuto! Il giorno dopo ho ascoltato tante donne, amiche. Ognuna mi ha raccontato un episodio di violenza vissuta. Adesso ero come loro e potevo capirle. Tranne le donne di casa sembrava che ognuna avesse un episodio da condividere, perché ora ero una di loro e potevo capire, la paura, il dolore.  

"Noi non siamo come lui"

Il giorno dopo gli uomini, amici, colleghi, parenti, tutti mi hanno detto: io sono qui e sono diverso dall’aggressore. Io non sono così, io non ti farò mai del male. Come stai? Il giorno dopo ho scelto di dire come stavo, mi sono iscritta ad autodifesa e ho chiamato Linea Rosa: “se serve sono qui, posso aiutarvi. Io sono giornalista, quello che posso fare è ascoltare le donne, raccontare la violenza. Battermi per cambiare le cose”. #ilgiornodopo da tanti anni sono dalla parte delle donne, contro la violenza.  

Care lettrici, cari lettori, uscite dal silenzio

La campagna social #ilgiornodopo lanciata da Eva Dal Canto in risposta al video di Beppe Grillo (in cui difendeva il figlio indagato per violenza sessuale), sta stimolando molte persone a raccontare sui social esperienze e ricordi legati a episodi di stupri, molestie, violenze. Prima di Letizia Magnani hanno pubblicato su Luce! il ricordo della violenze subite da adolescenti anche le giornaliste Valentina Bertuccio D'Angelo  e  Letizia Cini .  (Qui il video dell'intervista di Letizia Cini su Lady Radio). Se volete condividere la vostra testimonianza, e partecipare alla campagna  #ilgiornodopo, scriveteci a  [email protected]     
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