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Home » Politica » “L’omobitransfobia non si ferma per decreto: servono scuole, università e centri culturali, non carceri e tribunali”

“L’omobitransfobia non si ferma per decreto: servono scuole, università e centri culturali, non carceri e tribunali”

L'associazione Extrema Ratio, formata da giuristi, ritiene il diritto penale non adatto a combattere ingiustizie e male sociale. Col rischio aggiuntivo di "vittimizzare" l'autore. Occorrono invece strumenmti educativi e culturali. Inoltre, si contesta che in caso di violazione sono applicabili le nome relative al bene colpito (vita, incolumità personale, onore, patrimonio) senza ricorso a norme che ne enfatizzino la portata

David Allegranti
17 Maggio 2021
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Nel Paese delle polarizzazioni, se hai dubbi, anche forti, sul ddl Zan, o anche se sei apertamente contrario senza però condividere nulla delle sortite del famigerato senatore Pillon, vieni automaticamente intruppato fra gli omofobi e i transofobi. La realtà però è ancora più complessa di così. Lo spiega un documento dell’associazione Extrema Ratio, secondo la quale alla base del disegno di legge c’è una convinzione (sbagliata), e cioè che si possa combattere “ogni ingiustizia e ogni male sociale con il diritto penale”.

Il ddl si presenta, in sostanza, come una estensione della Legge Mancino, grazie a due emendamenti, uno dell’articolo 604 bis del codice penale (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) e l’altro dell’articolo 604 ter dello stesso codice (Circostanza aggravante).
Scrive Extrema Ratio: “Il diritto penale è una risorsa scarsa; le risorse da attivare, per un serio cambio di prospettiva, sono di tipo educativo, formativo, culturale e sociale. La proposta, seppur ispirata da condivisibili ragioni di tutela della comunità LGBTQI+, è viziata dall’ormai radicata convinzione che si possa trovare il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale attraverso strumenti di tipo penale. La stessa architettura su cui la proposta penale del ddl in questione poggia, quella della legge Mancino, infatti, è caratterizzata da ragioni di natura puramente simbolica, si direbbe di marketing elettorale, che mal si conciliano con il ruolo residuale e di extrema ratio che dovrebbe caratterizzare il diritto penale nel nostro ordinamento”.
La critica di Extrema Ratio si muove dunque nel solco di una più ampia e generale critica nei confronti della legge Mancino, “incapace, come ha dimostrato l’esperienza, di raggiungere i fini che si è posta, oltreché gravata da un chiaro vizio in termini di tassatività, offensività e di materialità”.

 

“Amplia la portata di reati già esistenti”

Il professor Sergio Moccia, all’epoca dell’approvazione della Legge Mancino, sottolineava già nel 1993 i rischi e l’inutilità delle misure approvate nel suo “La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale”. Quelle misure, scriveva Moccia, “ampliano la portata di figure di reato già esistenti e che, comunque, non sono servite in alcun modo ad arginare il fenomeno. Infatti, la normativa emessa sull’onda delle emozioni derivanti da intollerabili episodi di discriminazione razziale, concretizzatisi in gravi fatti di reato, può ben a ragione essere considerata un’altra tipica espressione di quella legislazione simbolica, che riesce a combinare, in maniera esemplare quanto deprecabile, i difetti dell’insipienza sul piano tecnico, della discutibilità sul piano dei principi e dell’ineffettività sul piano dei risultati”.

Infatti, “quando gli episodi di incivile razzismo rappresentano fatti offensivi di beni giuridici, rispondono egregiamente allo scopo le affidabili fattispecie tradizionali di reato, poste a tutela dei singoli beni in questione, come la vita, l’incolumità personale, l’onore, il patrimonio e così via”.

Si può dire la stessa cosa del ddl Zan, di cui la Legge Mancino è appunto un’estensione.

 

“Rischio di vittimizzazione dell’autore”

“L’aspetto caratterizzante della normativa – scriveva ancora Moccia – è dato, a nostro avviso, dalla previsione di diverse fattispecie di opinione che vanno ad arricchire il patrimonio, già cospicuo, lasciatoci in eredità dal legislatore fascista: esse, lungi dal poter risolvere i problemi, se realmente le si volesse applicare, rischiano di rafforzare il fenomeno. E’, infatti, puramente illusorio, se non mistificatorio, pensare di poter combattere fenomeni di barbarie, culturale e non, con fattispecie di opinione. Anzi, la conseguenziale punizione a campione (…) finisce per vittimizzare l’autore e, quindi, per fungere da fattore di possibile aggregazione di consensi intorno al fenomeno che si intendeva combattere, raggiungendo, in tal modo, l’effetto opposto a quello sperato”.

 

Una manifestante contro l’omotransfobia ad Ancona

“Non sanzioni e manette, ma educazione e istruzione”

Dunque, commenta Extrema Ratio, “proprio perché consapevoli del lungo cammino che deve essere percorso nel nostro Paese per contrastare l’odioso fenomeno della discriminazione nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQI+ e, più in generale, per superare una cultura ancora purtroppo intrisa di pregiudizi e di avversione nei confronti della libertà sessuale, non crediamo che sia il diritto penale lo strumento adeguato a cui affidare il complesso e articolato compito di sensibilizzazione utile per ottenere una solida e condivisa svolta sul tema. Altre le risorse ed altri i luoghi in cui battagliare. Non le sanzioni e le manette, ma la cultura e l’istruzione”.

Non servono le aule di tribunale e le carceri, ma le scuole, le università, i centri culturali e di aggregazione: “Se è vero, infatti, che con il diritto penale si otterrebbe una rapida e apparentemente efficace risposta, è altrettanto vero che l’unico cambiamento che permane nel tempo è quello culturale”. Insomma “nessun reato cambierà una convinzione sociale ancora troppo diffusa – anche e soprattutto quando viziata da odiosi e arcaici pregiudizi – se essa è ancora radicata nel sentire dei consociati”.

Una infame convinzione che però non sarà sradicata dal diritto penale.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Nel Paese delle polarizzazioni, se hai dubbi, anche forti, sul ddl Zan, o anche se sei apertamente contrario senza però condividere nulla delle sortite del famigerato senatore Pillon, vieni automaticamente intruppato fra gli omofobi e i transofobi. La realtà però è ancora più complessa di così. Lo spiega un documento dell’associazione Extrema Ratio, secondo la quale alla base del disegno di legge c’è una convinzione (sbagliata), e cioè che si possa combattere “ogni ingiustizia e ogni male sociale con il diritto penale”. Il ddl si presenta, in sostanza, come una estensione della Legge Mancino, grazie a due emendamenti, uno dell’articolo 604 bis del codice penale (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) e l’altro dell’articolo 604 ter dello stesso codice (Circostanza aggravante). Scrive Extrema Ratio: “Il diritto penale è una risorsa scarsa; le risorse da attivare, per un serio cambio di prospettiva, sono di tipo educativo, formativo, culturale e sociale. La proposta, seppur ispirata da condivisibili ragioni di tutela della comunità LGBTQI+, è viziata dall’ormai radicata convinzione che si possa trovare il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale attraverso strumenti di tipo penale. La stessa architettura su cui la proposta penale del ddl in questione poggia, quella della legge Mancino, infatti, è caratterizzata da ragioni di natura puramente simbolica, si direbbe di marketing elettorale, che mal si conciliano con il ruolo residuale e di extrema ratio che dovrebbe caratterizzare il diritto penale nel nostro ordinamento”. La critica di Extrema Ratio si muove dunque nel solco di una più ampia e generale critica nei confronti della legge Mancino, “incapace, come ha dimostrato l’esperienza, di raggiungere i fini che si è posta, oltreché gravata da un chiaro vizio in termini di tassatività, offensività e di materialità”.  

"Amplia la portata di reati già esistenti"

Il professor Sergio Moccia, all’epoca dell’approvazione della Legge Mancino, sottolineava già nel 1993 i rischi e l’inutilità delle misure approvate nel suo “La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale”. Quelle misure, scriveva Moccia, “ampliano la portata di figure di reato già esistenti e che, comunque, non sono servite in alcun modo ad arginare il fenomeno. Infatti, la normativa emessa sull’onda delle emozioni derivanti da intollerabili episodi di discriminazione razziale, concretizzatisi in gravi fatti di reato, può ben a ragione essere considerata un’altra tipica espressione di quella legislazione simbolica, che riesce a combinare, in maniera esemplare quanto deprecabile, i difetti dell’insipienza sul piano tecnico, della discutibilità sul piano dei principi e dell’ineffettività sul piano dei risultati”. Infatti, “quando gli episodi di incivile razzismo rappresentano fatti offensivi di beni giuridici, rispondono egregiamente allo scopo le affidabili fattispecie tradizionali di reato, poste a tutela dei singoli beni in questione, come la vita, l’incolumità personale, l’onore, il patrimonio e così via”. Si può dire la stessa cosa del ddl Zan, di cui la Legge Mancino è appunto un’estensione.  

"Rischio di vittimizzazione dell'autore"

“L’aspetto caratterizzante della normativa - scriveva ancora Moccia - è dato, a nostro avviso, dalla previsione di diverse fattispecie di opinione che vanno ad arricchire il patrimonio, già cospicuo, lasciatoci in eredità dal legislatore fascista: esse, lungi dal poter risolvere i problemi, se realmente le si volesse applicare, rischiano di rafforzare il fenomeno. E’, infatti, puramente illusorio, se non mistificatorio, pensare di poter combattere fenomeni di barbarie, culturale e non, con fattispecie di opinione. Anzi, la conseguenziale punizione a campione (…) finisce per vittimizzare l’autore e, quindi, per fungere da fattore di possibile aggregazione di consensi intorno al fenomeno che si intendeva combattere, raggiungendo, in tal modo, l’effetto opposto a quello sperato”.  
Una manifestante contro l'omotransfobia ad Ancona

"Non sanzioni e manette, ma educazione e istruzione"

Dunque, commenta Extrema Ratio, “proprio perché consapevoli del lungo cammino che deve essere percorso nel nostro Paese per contrastare l’odioso fenomeno della discriminazione nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQI+ e, più in generale, per superare una cultura ancora purtroppo intrisa di pregiudizi e di avversione nei confronti della libertà sessuale, non crediamo che sia il diritto penale lo strumento adeguato a cui affidare il complesso e articolato compito di sensibilizzazione utile per ottenere una solida e condivisa svolta sul tema. Altre le risorse ed altri i luoghi in cui battagliare. Non le sanzioni e le manette, ma la cultura e l’istruzione”. Non servono le aule di tribunale e le carceri, ma le scuole, le università, i centri culturali e di aggregazione: “Se è vero, infatti, che con il diritto penale si otterrebbe una rapida e apparentemente efficace risposta, è altrettanto vero che l’unico cambiamento che permane nel tempo è quello culturale”. Insomma “nessun reato cambierà una convinzione sociale ancora troppo diffusa – anche e soprattutto quando viziata da odiosi e arcaici pregiudizi – se essa è ancora radicata nel sentire dei consociati”. Una infame convinzione che però non sarà sradicata dal diritto penale.
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