Mentre un’intera classe politica italiana si arrovella e si interroga su chi salirà al Colle, zitti zitti quatti quatti, i partiti – tutti insieme – fanno in modo di ‘depotenziare’ sia l’istituto del referendum che la grande novità della raccolta firme via Spid, la posta certificata, o digitale, nella fattispecie per la raccolta delle firme che devono presentare le liste alle elezioni politiche. Peraltro, già nella legge elettorale attuale, il Rosatellum, c’è una disposizione che prevede l’introduzione della firma digitale per la presentazione delle liste, delegando al governo la sua attuazione attraverso decreti che, però, i governi in questi anni non hanno mai emanato. Insomma, si trattava di un’altra norma di civiltà, come quella dello Spid sui referendum. Ma lo scorso 16 dicembre, e pure di notte, quando le malefatte vengono sempre meglio, la possibilità di raccogliere le firme via Spid, cioè via firma digitale, è stata cassata in Parlamento. Lo ‘scambio’ tra i partiti –tutti – è presto detto. Lega-FdI-FI,cui si accoda pure Iv, permettono ai Cinque Stelle di rifinanziare i ‘navigator’–lo strumento che permette alla legge sul Reddito di cittadinanza di funzionare, pur se male –con un voto in commissione Bilancio della Camera, dove si stava esaminando il Dl Recovery.
Il voto ‘in notturna’ della commissione Bilancio e l’accordo tra centrodestra-Iv-M5s
In ballo c’era, appunto, la proroga di quattro mesi dei 2.400 navigator con contratto in scadenza e tutti si aspettavano che Lega e Italia viva – che volevano persino indire un referendum abrogativo al Reddito di cittadinanza, presto sparito dai radar e sul quale mai sono state raccolte le firme – votassero contro. E invece, sorpresa: anche i nemici giurati della bandiera del grillismo hanno detto sì. Certo, 5S e Pd avrebbero voluto che l’emendamento al Dl Recovery fosse più generoso, tant’è che ha rischiato di saltare ed è stato salvato in corner solo dalla mediazione del ministro al Lavoro Andrea Orlando che, grazie a tanta pazienza e qualche ritocco, è infine riuscito a convincere persino chi i navigator voleva mandarli a casa seduta stante, a rifinanziarli. Potrebbe sembrare un banale cortocircuito. Il consueto voltafaccia di leader troppo facili a promettere ciò che non sono in grado di mantenere. E invece dietro l’ok di Lega e Iv c’è un accordo con i Cinquestelle. I quali, in cambio del via libera al loro cavallo di battaglia –come denuncia il radicale Riccardo Magi -avrebbero dato una mano ad affossare le firme digitali invise all’intero centrodestra. Racconta Magi, deputato eletto con ilPd, ma oggi in +Europa: “Intorno a mezzanotte erano rimasti due soli nodi da sciogliere: la proroga dei navigator e l’utilizzo di Spid per sottoscrivere le liste elettorali”. Ebbene, quando si è trattato di votare quest’ultimo emendamento (che aveva comunque il parere contrario del governo) Lega, Fdi e Fi hanno iniziato a fare muro. E Italia vivasi è accodata, forse anche per ricambiare chi, il centrodestra,ha sempre difeso Renzi sulla vicenda Open.Nel frattempo, però, Coraggio Italia e L’Alternativa c’è (gli ex M5s) si erano schierati a favore, rafforzando il fronte del sì Pd-5S-LeU. “Calcolando i presenti, le firme digitali sarebbero dovute passare con due volti di vantaggio”, prosegue Magi, “ma, all’improvviso, un paio di grillini sono spariti, inghiottiti nel nulla come se nell’aula ci fosse una botola”.
La denuncia di Magi contro lo scambio occulto
Risultato? Il M5S si è squagliato, Coraggio Italia spaccato (su due, uno dice no, l’altro sì), Iv si è astenuto.Finisce 19 a 19, un pareggio che vale la bocciatura. L’unico compatto rimane il Pd, ma invano. “Molto probabilmente le assenze non sono state casuali, ma frutto di un accordo politico”, denunciaMagi. In buona sostanza,il centrodestraavrebbe ceduto sui navigatore il M5S,che, per restituire il favore, si sarebbe defilato sulla raccolta delle firme digitali, uno dei suoi storici, ma rimossi, cavalli di battaglia.Un revival dell’asse giallo-verde, dunque, che ha rotto la maggioranza. In barba alla coerenza, dei leghisti come dei grillini. “L’altra notte si sono uniti perché non ci fosse un’altra piccola grande conquista di riforma della politica che avrebbe portato legalità e trasparenza in una delle fasi più importanti e più oscure della vita democratica che è la presentazione delle liste elettorali”,si rammarica Magiche conclude così: “Ha vinto la controriforma consociativista”. Lettura, ovviamente,confutata dai salviniani. E si capisce pure perché: le firme digitali aiutano i piccoli partitiche a sinistra proliferano, a destra invece no. Spiega infattiClaudio Borghi: sottoscrivere da casa le candidature con lo Spid “può alterare profondamente il corretto funzionamento della nostra democrazia, anche perché fra l’altro favorisce il proliferare delle cosiddette liste civetta”. Il digitale, che per tutti è il futuro, per i partiti, alle elezioni, può attendere.
La ‘rivoluzione’ Spid, una lunga battaglia
Insomma, la strada è ancora lunga, ma il notevole, indiscutibile, successo della stagione referendaria, scoppiata quest’estate, è stato dato dalla comodità e dalla facilità della possibilità –una vera innovazione –di ‘firmare da casa’, con un semplice clic, tramite lo strumento della posta digitale o Spid. L’emendamento ‘barbatrucco’ è stato infilato dal deputato di +Europa, ex radicale, Riccardo Magi, nel dl Semplificazioni che le Camere votarono a luglio 2021. Senza che gli altri partiti capissero bene che cosa stavano votando (una ‘rivoluzione’, appunto), e nonostante il parere contrario del governo, l’emendamento Magi è passato e molti comitati referendari (quello per l’eutanasia legale e soprattutto per la cannabis) ne hanno immediatamente goduto e approfittato, godendo dei suoi vantaggi e rendendo ‘comoda’, oltre che ‘facile’, la firma ai quesiti referendari (per la cannabis, 500 mila firme in sette giorni). Ovviamente, i pareri critici di molti giuristi e costituzionalisti si sono subito concentrati sulla “eccessiva” facilità della firma digitale che non permetterebbe di comprendere bene i quesiti (come se gli italiani che firmano fossero scemi) o di svilire lo stesso istituto referendario. Da Giovanni Flick a Gustavo Zagrebelsky, da Valerio Onida a Cesare Mirabelli a Michele Ainis in molti hanno ‘alzato il ditino’ in senso contrario ma, ormai, cosa fatta capo ha. La firma via Spid ai quesiti referendari c’è e funziona pure bene.
“Ma è il contrario: era troppo difficile prima”, spiega Marco Staderini, avvocato ed ex segretario dei Radicali che nel 2019 ha ottenuto la condanna dell’Italia da parte del Comitato dei diritti umani dell’Onu proprio per le “irragionevoli restrizioni” a cui la nostra legge subordinava la possibilità di promuovere referendum d’iniziativa popolare. “Un diritto costituzionale era stato reso impossibile da esercitare, perché i partiti, dei referendum, hanno sempre avuto paura” ha spiegato bene Staderini. Una innovazione che i Radicali chiedevano da tanti anni, fino a portare la questione in sede Ue. “Nel 2013, con i 12 quesitiche proponemmo come Radicali italiani (su temi che andavano dal divorzio breve all’abolizione del reato di clandestinità, ndr)–racconta Staderini al Fatto.it – ne depositammo sei, che però si fermarono a 200mila firme a causa degli ostacoli di legge alla campagna. Soprattutto la difficoltà di trovare autenticatori: servivano consiglieri comunali, alti funzionari pubblici o cancellieri giudiziari (che però vanno pagati). I grandi partiti o sindacati ne hanno a disposizione un esercito, mentre soggetti più piccoli fanno fatica. E bisogna raccogliere 500mila firme in tre mesi (così prescrive la legge, ndr). Il risultato è che negli ultimi dieci anni, dai referendum sull’acqua pubblica e nucleare del 2011, tutte le grandi consultazioni sono state richieste dai parlamentari o dai Consigli regionali, mai dai cittadini. Abbiamo concluso che bisognava fare qualcosa”. I Radicali qualcosa l’hanno fatta. I grandi partiti, in Parlamento, hanno deciso invece che la primavera dello Spid doveva finire.