
Donald Trump ha appena firmano un ordine esecutivo nello Studio Ovale
Esiste un orologio, il Doomsday Clock, o “Orologio dell’apocalisse” che, dal 1947, scandisce i secondi che mancano – metaforicamente – alla mezzanotte della specie umana. In altre parole, alla sua estinzione. La peculiarità di questo strumento è il suo metodo di calcolo: un board di esperti ed esperte, inclusi numerosi premi Nobel, analizza le azioni e le dichiarazioni del genere umano che, in futuro, contribuiranno alla sua stessa scomparsa dal pianeta Terra.
Con l’avvento del ventunesimo secolo, uno dei principali momenti di cesura è occorso nel 2017. È proprio in quell’anno che, oltre a constatare un elevato spostamento delle lancette verso i dodici rintocchi di mezzanotte, il comitato decisionale ha concordato sul passare dai minuti ai secondi. Un tempo che aveva iniziato a contrarsi, a causa di Donald Trump, già otto anni fa.
Ancora oggi, nel 2025, corriamo il serio rischio che le lancette debbano essere nuovamente spostate verso l’apocalisse. E il comune denominatore di questo nuovo orientamento potrebbe essere ancora lui: il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America. I dazi imposti indiscriminatamente, anche a isole popolate unicamente da colonie di pinguini, sono sintomo di una bieca linea decisionale che discrimina su più piani le classi più deboli, oltre a costituire un vero e proprio attentato ad una globalizzazione già fiaccata da forti venti autocratici. E questo è vero indipendentemente da temporanee ritrattazioni o marce indietro.
Come i dazi accrescono le tensioni sociali
Mentre Wall Street festeggia, le fasce meno abbienti pagano ancora una volta il conto salato della speculazione. Tra accuse di insider trading – la pratica di acquistare strumenti finanziari grazie all’accesso a informazioni privilegiate – e continui cambi di rotta sulle tariffe commerciali, sono i più deboli a risentire di una conflittualità sociale in forte aumento.
A fare le spese dei prezzi che fluttuano mentre i salari rimangono costanti, o decrescono, non sono certo i grandi investitori. Sono le persone comuni, i lavoratori e le lavoratrici, costretti a scegliere tra necessità quotidiane e prezzi ormai imprevedibili.
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Anche se l’inflazione mostra segnali di moderazione in termini assoluti, infatti, le politiche commerciali aggressive rischiano di destabilizzare l’economia a stelle e strisce, aumentando nel breve termine le spese che famiglie e aziende dovranno sostenere, alimentando una tensione sociale sempre più palpabile. La call to action volta a nazionalizzare la produzione, ribadita da dazi pari al doppio del prezzo d’importazione nei confronti di stati come la Cina, rischia di rendere determinati beni semplicemente inaccessibili per gran parte della popolazione. Il tutto, ancora una volta, a vantaggio dei profili che ruotano attorno a quella che, sempre più, somiglia a un’autarchia oligarchica.

Un attacco deliberato al libero mercato
Mentre l’Europa estende l’area Schengen a Romania e Bulgaria, gli Stati Uniti d’America impediscono la libera circolazione delle merci in tutto il mondo. O, meglio, la rendono estremamente onerosa, senza – peraltro – spiegare chiaramente il perché di una scelta avversata dalla maggioranza di economisti ed economiste. Il libero commercio, negli ultimi anni, è stato l’antidoto ad una conflittualità endemica che, nel corso del ‘900, ha dilaniato il mondo intero.
Un sistema sicuramente perfettibile, caratterizzato da evidenti problematiche. Tra queste, il tentativo delle grandi compagnie di arricchire senza scrupoli il proprio portafoglio finanziario, delocalizzando buona parte della produzione nei paesi in via di sviluppo. Ma le decisioni statunitensi di imporre dazi, limitare il commercio internazionale, frenare l’interconnessione tra le popolazioni con muri e controlli arbitrari, rischiano di costituire un pericolo ben più grande. E per i nati post-crollo del Muro di Berlino, tutto ciò è semplicemente incomprensibile.