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Home » Politica » Esistenze sospese nel limbo tra politica e mondo reale: il fine vita (non) fa discutere l’Aula e il referendum sull’eutanasia avanza

Esistenze sospese nel limbo tra politica e mondo reale: il fine vita (non) fa discutere l’Aula e il referendum sull’eutanasia avanza

Il testo del disegno di legge sul suicidio assistito approda alla Camera per la discussione, ma i presenti sono poco più di venti. Il referendum sull'eutanasia promosso dall'associazione Luca Coscioni ha superato il primo step alla Corte di Cassazione e passa ora al vaglio della Consulta per il giudizio di legittimità

Marianna Grazi
15 Dicembre 2021
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Vite sospese. Come quella di Mario (nome di fantasia), il camionista 43enne marchigiano tetraplegico, che da 10 anni vive immobilizzato a letto dopo un incidente stradale, che dopo aver ottenuto – per la prima volta in Italia – il parere favorevole del comitato etico dell’Asur delle Marche sulla presenza dei 4 requisiti per l’accesso al suicidio assistito (è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili; è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda), è stato costretto a diffidare nuovamente l’Azienda Sanitaria inadempiente.

“Fate presto” ha scritto pochi giorni fa, in una lettera aperta che è il suo ultimo drammatico appello, “mi state condannando a soffrire ogni giorno di più ed essere torturato, prima di ottenere l’ok per l’aiuto al suicidio assistito, che a seguito delle verifiche sulle quattro condizioni, mi spetta di diritto come stabilito dalla Corte costituzionale”. Quello che manca è un ultimo passaggio, la verifica, ordinata dal Tribunale di Ancona sul farmaco letale che l’uomo assumerà con autosomministrazione. Un passaggio che lo tiene appeso, dolorosamente, ad una vita che Mario non può più sopportare. “Forse volete aspettare che mia madre mi trovi morto sul letto o che vada a morire all’estero. No, ora il tempo è veramente scaduto, e voi tutti avete la responsabilità di ogni attimo di sofferenza e dolore insopportabile dal 27 agosto 2020 ad oggi”, conclude il 43enne.

Una responsabilità come una spada di Damocle, per chi dovrà decidere sulla sorte del marchigiano e di tutti coloro che vivono sospesi in un tempo fatto di dolore e mancanza di speranza. Ma che sembra non impensierire affatto chi, quella responsabilità, la porta in dote dalle urne. Lunedì 13 dicembre, dopo tre anni di attesa, è iniziata alla Camera dei Deputati la discussione generale sul testo della legge che vorrebbe introdurre il suicidio assistito nel nostro Paese. Un provvedimento sollecitato dalla stessa Corte costituzionale, con una sentenza del –lontano– 2018, ma che tra le file della politica, evidentemente, non ha avuto presa. Tanto che, ad accoglierlo in Aula, c’erano poco più di 25 parlamentari. Una Camera semi-deserta che somiglia tanto, troppo, a quella che la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti si era trovata davanti il 22 novembre scorso, quando aveva presentato la mozione contro la violenza sulle donne. Perché, verrebbe da pensare, quando c’è da parlare di temi che riguardano i cittadini e le cittadine in prima persona, anzi proprio come persone, come esseri umani, che riguardano il loro corpo, il loro benessere come il loro dolore, la loro vita, l’essenza vitale, chi deve decidere non decide? Non solo, ma evita persino di parlare, di affrontare la questione.

 La scarsa partecipazione, purtroppo, è ormai una consuetudine per gli eletti, ma forse, in certe occasioni, quando appunto si discute di vita o di morte, letteralmente, bisognerebbe interrogarsi sui propri doveri e magari farsene carico. L’unico a commentare la situazione venutasi a creare alla Camera lunedì, però, è stato il deputato del gruppo Misto Giorgio Trizzino: “Se le telecamere inquadrassero la nostra Aula si vedrebbe quanto siano pochi ad assistere al nostro dibattito: il che dimostra quanto la politica sia distante da questo tema così importante“, ha dichiarato. Politica e vita reale, due rette parallele che raramente, per non si sa quale caso, si incontrano. Ma che anche in questo caso non l’hanno fatto. Per la legge sul suicidio assistito, dunque, il cammino continua ad essere in salita.

Nato dall’accorpamento di varie proposte presentate negli anni da diversi partiti politici, il testo base ricalca in gran parte la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 sul “caso DJ Fabo”, che aveva stabilito i casi di “non punibilità” per una forma di eutanasia definita assistenza al suicidio, cioè quando una persona di fatto permette a un’altra di suicidarsi. In quel caso, ad accompagnare nel percorso di fine vita Fabiano Antoniani era stato Marco Cappato, esponente dell’Associazione “Luca Coscioni”. Proprio l’associazione, in campo da molti anni per i diritti dei malati che chiedono l’eutanasia e promotrice di un referendum per legalizzare l’eutanasia attiva, ritiene questo testo insufficiente e ha proposto una serie di emendamenti. Insomma tra le opposizioni – il centrodestra, in particolare – che rischiano di affossare la proposta, ma prima ancora visto il mancato accordo nella stessa maggioranza, i tempi per l’approvazione sembrano essere molto lunghi. Figuriamoci poi se, al primo giorno di discussione, quasi nessuno si presenta in Aula. E sono molti quelli che pensano che si arriverà prima al referendum promosso  dalla “Luca Coscioni” stessa.

Perché per fortuna della vita reale si occupa il mondo fuori fuori dagli scranni del Parlamento. E sono stati un milione e 200mila (in soli tre mesi) i cittadini che hanno firmato per l’eutanasia legale. Sintomo di un’attenzione alla questione “fine vita” che è forte nella cittadinanza italiana, non solo tra coloro che hanno a che fare con casi di persone che vorrebbero ricorrervi, ma di chi ha a cuore il destino di cittadini e cittadine appesi al filo di un’esistenza che non possono staccare nonostante questa li stia torturando, da anni.

La proposta referendaria dell’Associazione, che ha visto unirsi alle fila molti altri gruppi e alcuni partiti, come +Europa, Possibile, Radicali italiani e Sinistra Italiana, prevede l’abrogazione di una parte dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l’assistenza al suicidio. L’obiettivo è quello di permettere l’eutanasia attiva (ovvero la pratica in cui è il medico a somministrare il farmaco che porterà alla morte del malato) oltre a una forma molto più ampia di suicidio assistito rispetto al testo base che (doveva essere) discusso da lunedì. La raccolta firme, anche grazie all’introduzione della modalità digitale tramite Spid, è stata un successo e il 9 dicembre la Corte di Cassazione ha annunciato la loro validità. Ora la palla passa alla Corte Costituzionale, cui spetterà il giudizio di ammissibilità del quesito, probabilmente il passaggio più delicato di tutta la questione. I promotori, comunque, hanno già fatto sapere che se anche il disegno di legge sul suicidio assistito fosse approvato dal Parlamento nell’attuale versione, “il referendum si terrebbe comunque, perché agisce su un diverso articolo del codice penale”.

Insomma se da una parte la questione del fine vita divide – nella politica – dall’altra unisce – il referendum e quindi la società –. Tanto che perfino dalle fila dei più radicali oppositori c’è chi si stacca per unirsi ad un sentire comune, empatico, solidale verso i malati. Un parroco, o chissà quanti come lui che però non hanno voluto renderlo noto, ha firmato per il referendum: Don Giulio Mignani, sacerdote ‘ribelle’ di Bonassola (La Spezia), ha spiegato perché è a favore di una legge che regolamenti l’eutanasia: “La mia posizione non nasce da una svalutazione della vita. Proprio al contrario: da un suo altissimo rispetto”, ha detto. Certo la sua è una scelta scomoda nei confronti dell’istituzione che rappresenta, quella Chiesa Cattolica radicalmente contraria a qualsiasi forma di interruzione della vita.

Ma don Mignani, che aveva già fatto discutere per essersi rifiutato di benedire le palme in vista della Pasqua scorsa per protestare contro la decisione che vietava ai sacerdoti di benedire le unioni omosessuali, non ha paura di prendere posizione. “Se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita biologica perché l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il suo bene lo deve rispettare. E questo rispetto gli deve essere dato da tutti: Stato e Chiesa compresi”. E aggiunge, riferendosi ad un concetto che  gli è caro, quello di “buona morte”, che “A mio avviso, il criterio ultimo deve essere sempre la persona”. Perché se nella vita umana “c’è un di più questo è proprio la libertà, la capacità di scelta. Per questo dovremmo riconoscer alla vita umana la forma maggiore di riverenza: ad essere rispettata non deve essere solo la vita biologica che si esprime nel corpo, ma anche la sua vita spirituale, che si esprime appunto nella libertà“, conclude il parroco di Bonassola.

Quella libertà persa, nel corpo, nella carne, ma non nel pensiero, da tante persone che oggi chiedono di tornare libere di essere. Essere umani, non ‘vegetali’, non corpi tenuti in vita artificialmente da delle macchine. Essere. E non vivere sospesi.

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  • Nino Gennaro cresce in un paese complesso, difficile, famigerato per essere stato il regno del boss Liggio, impegnandosi attivamente in politica; nel 1975 è infatti responsabile dell’organizzazione della prima Festa della Donna, figura tra gli animatori del circolo Placido Rizzotto, presto chiuso e, sempre più emarginato dalla collettività, si trova poi coinvolto direttamente nel caso di una sua amica, percossa dal padre perché lo frequentava e che sporse denuncia contro il genitore, fatto che ebbe grande risonanza sui media. Con lei si trasferì poi a Palermo e qui comincia la sua attività pubblica come scrittore; si tratta di una creatività onnivora, che si confronta in diretta con la cronaca, lasciando però spazio alla definizione di mitologie del corpo e del desiderio, in una dimensione che vuole comunque sempre essere civile, di testimonianza.

Nel 1980 a Palermo si avviano le attività del suo gruppo teatrale “Teatro Madre”, che sceglie una dimensione urbana, andando in scena nei luoghi più diversi e spesso con attori non professionisti (i testi si intitolano “Bocca viziosa”, “La faccia è erotica”, “Il tardo mafioso Impero”), all’inseguimento di un cortocircuito scena/vita. Già il logo della compagnia colpisce l’attenzione: un cuore trafitto da una svastica, che vuole alludere alla pesantezza dei legami familiari, delle tradizioni vissute come gabbia. Le sue attività si inscrivono, quindi, in uno dei periodi più complessi della storia della città siciliana, quando una sequenza di delitti efferati ne sconvolge la quotidianità e Gennaro non è mai venuto meno al suo impegno, fondando nel 1986 il Comitato Cittadino di Informazione e Partecipazione e legandosi al gruppo che gestiva il centro sociale San Saverio, dedicandosi quindi a numerosi progetti sociali fino alla morte per Aids nel 1995.

La sua drammaturgia si alimenta di una poetica del frammento, del remix, con brani che spesso vengono montati in modo diverso rispetto alla loro prima stesura.

Luca Scarlini ✍

#lucenews #lucelanazione #ninogennaro #queer
  • -6 a Sanremo 2023!

Questo Festival ha però un sapore dolceamaro per l
  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

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  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
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Una responsabilità come una spada di Damocle, per chi dovrà decidere sulla sorte del marchigiano e di tutti coloro che vivono sospesi in un tempo fatto di dolore e mancanza di speranza. Ma che sembra non impensierire affatto chi, quella responsabilità, la porta in dote dalle urne. Lunedì 13 dicembre, dopo tre anni di attesa, è iniziata alla Camera dei Deputati la discussione generale sul testo della legge che vorrebbe introdurre il suicidio assistito nel nostro Paese. Un provvedimento sollecitato dalla stessa Corte costituzionale, con una sentenza del –lontano– 2018, ma che tra le file della politica, evidentemente, non ha avuto presa. Tanto che, ad accoglierlo in Aula, c'erano poco più di 25 parlamentari. Una Camera semi-deserta che somiglia tanto, troppo, a quella che la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti si era trovata davanti il 22 novembre scorso, quando aveva presentato la mozione contro la violenza sulle donne. Perché, verrebbe da pensare, quando c'è da parlare di temi che riguardano i cittadini e le cittadine in prima persona, anzi proprio come persone, come esseri umani, che riguardano il loro corpo, il loro benessere come il loro dolore, la loro vita, l'essenza vitale, chi deve decidere non decide? Non solo, ma evita persino di parlare, di affrontare la questione.  La scarsa partecipazione, purtroppo, è ormai una consuetudine per gli eletti, ma forse, in certe occasioni, quando appunto si discute di vita o di morte, letteralmente, bisognerebbe interrogarsi sui propri doveri e magari farsene carico. L’unico a commentare la situazione venutasi a creare alla Camera lunedì, però, è stato il deputato del gruppo Misto Giorgio Trizzino: "Se le telecamere inquadrassero la nostra Aula si vedrebbe quanto siano pochi ad assistere al nostro dibattito: il che dimostra quanto la politica sia distante da questo tema così importante", ha dichiarato. Politica e vita reale, due rette parallele che raramente, per non si sa quale caso, si incontrano. Ma che anche in questo caso non l'hanno fatto. Per la legge sul suicidio assistito, dunque, il cammino continua ad essere in salita. Nato dall’accorpamento di varie proposte presentate negli anni da diversi partiti politici, il testo base ricalca in gran parte la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 sul "caso DJ Fabo", che aveva stabilito i casi di "non punibilità" per una forma di eutanasia definita assistenza al suicidio, cioè quando una persona di fatto permette a un’altra di suicidarsi. In quel caso, ad accompagnare nel percorso di fine vita Fabiano Antoniani era stato Marco Cappato, esponente dell'Associazione "Luca Coscioni". Proprio l'associazione, in campo da molti anni per i diritti dei malati che chiedono l’eutanasia e promotrice di un referendum per legalizzare l’eutanasia attiva, ritiene questo testo insufficiente e ha proposto una serie di emendamenti. Insomma tra le opposizioni – il centrodestra, in particolare – che rischiano di affossare la proposta, ma prima ancora visto il mancato accordo nella stessa maggioranza, i tempi per l’approvazione sembrano essere molto lunghi. Figuriamoci poi se, al primo giorno di discussione, quasi nessuno si presenta in Aula. E sono molti quelli che pensano che si arriverà prima al referendum promosso  dalla "Luca Coscioni" stessa. Perché per fortuna della vita reale si occupa il mondo fuori fuori dagli scranni del Parlamento. E sono stati un milione e 200mila (in soli tre mesi) i cittadini che hanno firmato per l’eutanasia legale. Sintomo di un'attenzione alla questione "fine vita" che è forte nella cittadinanza italiana, non solo tra coloro che hanno a che fare con casi di persone che vorrebbero ricorrervi, ma di chi ha a cuore il destino di cittadini e cittadine appesi al filo di un'esistenza che non possono staccare nonostante questa li stia torturando, da anni. La proposta referendaria dell'Associazione, che ha visto unirsi alle fila molti altri gruppi e alcuni partiti, come +Europa, Possibile, Radicali italiani e Sinistra Italiana, prevede l'abrogazione di una parte dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l'assistenza al suicidio. L'obiettivo è quello di permettere l'eutanasia attiva (ovvero la pratica in cui è il medico a somministrare il farmaco che porterà alla morte del malato) oltre a una forma molto più ampia di suicidio assistito rispetto al testo base che (doveva essere) discusso da lunedì. La raccolta firme, anche grazie all'introduzione della modalità digitale tramite Spid, è stata un successo e il 9 dicembre la Corte di Cassazione ha annunciato la loro validità. Ora la palla passa alla Corte Costituzionale, cui spetterà il giudizio di ammissibilità del quesito, probabilmente il passaggio più delicato di tutta la questione. I promotori, comunque, hanno già fatto sapere che se anche il disegno di legge sul suicidio assistito fosse approvato dal Parlamento nell’attuale versione, "il referendum si terrebbe comunque, perché agisce su un diverso articolo del codice penale".
Insomma se da una parte la questione del fine vita divide – nella politica – dall'altra unisce – il referendum e quindi la società –. Tanto che perfino dalle fila dei più radicali oppositori c'è chi si stacca per unirsi ad un sentire comune, empatico, solidale verso i malati. Un parroco, o chissà quanti come lui che però non hanno voluto renderlo noto, ha firmato per il referendum: Don Giulio Mignani, sacerdote 'ribelle' di Bonassola (La Spezia), ha spiegato perché è a favore di una legge che regolamenti l’eutanasia: "La mia posizione non nasce da una svalutazione della vita. Proprio al contrario: da un suo altissimo rispetto", ha detto. Certo la sua è una scelta scomoda nei confronti dell'istituzione che rappresenta, quella Chiesa Cattolica radicalmente contraria a qualsiasi forma di interruzione della vita. Ma don Mignani, che aveva già fatto discutere per essersi rifiutato di benedire le palme in vista della Pasqua scorsa per protestare contro la decisione che vietava ai sacerdoti di benedire le unioni omosessuali, non ha paura di prendere posizione. "Se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita biologica perché l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il suo bene lo deve rispettare. E questo rispetto gli deve essere dato da tutti: Stato e Chiesa compresi". E aggiunge, riferendosi ad un concetto che  gli è caro, quello di "buona morte", che "A mio avviso, il criterio ultimo deve essere sempre la persona". Perché se nella vita umana "c’è un di più questo è proprio la libertà, la capacità di scelta. Per questo dovremmo riconoscer alla vita umana la forma maggiore di riverenza: ad essere rispettata non deve essere solo la vita biologica che si esprime nel corpo, ma anche la sua vita spirituale, che si esprime appunto nella libertà", conclude il parroco di Bonassola.
Quella libertà persa, nel corpo, nella carne, ma non nel pensiero, da tante persone che oggi chiedono di tornare libere di essere. Essere umani, non 'vegetali', non corpi tenuti in vita artificialmente da delle macchine. Essere. E non vivere sospesi.
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