Vite sospese. Come quella di Mario (nome di fantasia), il camionista 43enne marchigiano tetraplegico, che da 10 anni vive immobilizzato a letto dopo un incidente stradale, che dopo aver ottenuto – per la prima volta in Italia – il parere favorevole del comitato etico dell’Asur delle Marche sulla presenza dei 4 requisiti per l’accesso al suicidio assistito (è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili; è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda), è stato costretto a diffidare nuovamente l’Azienda Sanitaria inadempiente.
“Fate presto” ha scritto pochi giorni fa, in una lettera aperta che è il suo ultimo drammatico appello, “mi state condannando a soffrire ogni giorno di più ed essere torturato, prima di ottenere l’ok per l’aiuto al suicidio assistito, che a seguito delle verifiche sulle quattro condizioni, mi spetta di diritto come stabilito dalla Corte costituzionale”. Quello che manca è un ultimo passaggio, la verifica, ordinata dal Tribunale di Ancona sul farmaco letale che l’uomo assumerà con autosomministrazione. Un passaggio che lo tiene appeso, dolorosamente, ad una vita che Mario non può più sopportare. “Forse volete aspettare che mia madre mi trovi morto sul letto o che vada a morire all’estero. No, ora il tempo è veramente scaduto, e voi tutti avete la responsabilità di ogni attimo di sofferenza e dolore insopportabile dal 27 agosto 2020 ad oggi”, conclude il 43enne.
Insomma se da una parte la questione del fine vita divide – nella politica – dall’altra unisce – il referendum e quindi la società –. Tanto che perfino dalle fila dei più radicali oppositori c’è chi si stacca per unirsi ad un sentire comune, empatico, solidale verso i malati. Un parroco, o chissà quanti come lui che però non hanno voluto renderlo noto, ha firmato per il referendum: Don Giulio Mignani, sacerdote ‘ribelle’ di Bonassola (La Spezia), ha spiegato perché è a favore di una legge che regolamenti l’eutanasia: “La mia posizione non nasce da una svalutazione della vita. Proprio al contrario: da un suo altissimo rispetto”, ha detto. Certo la sua è una scelta scomoda nei confronti dell’istituzione che rappresenta, quella Chiesa Cattolica radicalmente contraria a qualsiasi forma di interruzione della vita.
Ma don Mignani, che aveva già fatto discutere per essersi rifiutato di benedire le palme in vista della Pasqua scorsa per protestare contro la decisione che vietava ai sacerdoti di benedire le unioni omosessuali, non ha paura di prendere posizione. “Se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita biologica perché l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il suo bene lo deve rispettare. E questo rispetto gli deve essere dato da tutti: Stato e Chiesa compresi”. E aggiunge, riferendosi ad un concetto che gli è caro, quello di “buona morte”, che “A mio avviso, il criterio ultimo deve essere sempre la persona”. Perché se nella vita umana “c’è un di più questo è proprio la libertà, la capacità di scelta. Per questo dovremmo riconoscer alla vita umana la forma maggiore di riverenza: ad essere rispettata non deve essere solo la vita biologica che si esprime nel corpo, ma anche la sua vita spirituale, che si esprime appunto nella libertà“, conclude il parroco di Bonassola.
Quella libertà persa, nel corpo, nella carne, ma non nel pensiero, da tante persone che oggi chiedono di tornare libere di essere. Essere umani, non ‘vegetali’, non corpi tenuti in vita artificialmente da delle macchine. Essere. E non vivere sospesi.
Una responsabilità come una spada di Damocle, per chi dovrà decidere sulla sorte del marchigiano e di tutti coloro che vivono sospesi in un tempo fatto di dolore e mancanza di speranza. Ma che sembra non impensierire affatto chi, quella responsabilità, la porta in dote dalle urne. Lunedì 13 dicembre, dopo tre anni di attesa, è iniziata alla Camera dei Deputati la discussione generale sul testo della legge che vorrebbe introdurre il suicidio assistito nel nostro Paese. Un provvedimento sollecitato dalla stessa Corte costituzionale, con una sentenza del –lontano– 2018, ma che tra le file della politica, evidentemente, non ha avuto presa. Tanto che, ad accoglierlo in Aula, c’erano poco più di 25 parlamentari. Una Camera semi-deserta che somiglia tanto, troppo, a quella che la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti si era trovata davanti il 22 novembre scorso, quando aveva presentato la mozione contro la violenza sulle donne. Perché, verrebbe da pensare, quando c’è da parlare di temi che riguardano i cittadini e le cittadine in prima persona, anzi proprio come persone, come esseri umani, che riguardano il loro corpo, il loro benessere come il loro dolore, la loro vita, l’essenza vitale, chi deve decidere non decide? Non solo, ma evita persino di parlare, di affrontare la questione.
Nato dall’accorpamento di varie proposte presentate negli anni da diversi partiti politici, il testo base ricalca in gran parte la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 sul “caso DJ Fabo”, che aveva stabilito i casi di “non punibilità” per una forma di eutanasia definita assistenza al suicidio, cioè quando una persona di fatto permette a un’altra di suicidarsi. In quel caso, ad accompagnare nel percorso di fine vita Fabiano Antoniani era stato Marco Cappato, esponente dell’Associazione “Luca Coscioni”. Proprio l’associazione, in campo da molti anni per i diritti dei malati che chiedono l’eutanasia e promotrice di un referendum per legalizzare l’eutanasia attiva, ritiene questo testo insufficiente e ha proposto una serie di emendamenti. Insomma tra le opposizioni – il centrodestra, in particolare – che rischiano di affossare la proposta, ma prima ancora visto il mancato accordo nella stessa maggioranza, i tempi per l’approvazione sembrano essere molto lunghi. Figuriamoci poi se, al primo giorno di discussione, quasi nessuno si presenta in Aula. E sono molti quelli che pensano che si arriverà prima al referendum promosso dalla “Luca Coscioni” stessa.
Perché per fortuna della vita reale si occupa il mondo fuori fuori dagli scranni del Parlamento. E sono stati un milione e 200mila (in soli tre mesi) i cittadini che hanno firmato per l’eutanasia legale. Sintomo di un’attenzione alla questione “fine vita” che è forte nella cittadinanza italiana, non solo tra coloro che hanno a che fare con casi di persone che vorrebbero ricorrervi, ma di chi ha a cuore il destino di cittadini e cittadine appesi al filo di un’esistenza che non possono staccare nonostante questa li stia torturando, da anni.