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Home » HP Blocco Grande » Oltre i limiti della disabilità: il 18enne Dong Dong Camanni mette al tappeto gli stereotipi

Oltre i limiti della disabilità: il 18enne Dong Dong Camanni mette al tappeto gli stereotipi

Studente, judoka e atleta, suona il piano e fa scoutismo. Sogna di diventare un ingegnere informatico e di partecipare alle Paralimpiadi. Da piccolo una malattia gli ha tolto la vista ma oggi il 18enne è più attivo che mai e grazie a Luce! è riuscito a riallacciare i contatti con la famiglia e il giornalista che lo aiutarono a venire in Italia

Marianna Grazi
27 Dicembre 2021
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Da un paese enorme, sconfinato ad un piccolo borgo in provincia di Perugia. Un lungo viaggio per trovare un futuro, per sconfiggere quella malattia, un retino blastoma bilaterale (tumore infantile molto aggressivo che lo aveva colpito a entrambi gli occhi) che per essere curata, in Cina, avrebbe richiesto tanti, troppi soldi. Una famiglia pronta ad accoglierlo e ad amarlo e per Dong Dong (Paolo, come lo chiamano amici e conoscenti) Camanni, l’inizio di una vita dalle mille sfaccettature. È giovanissimo, ha da poco compiuto 18 anni, abita a Bevagna, ma quando parli con lui si dimostra una persona già molto matura, pur nella naturale spensieratezza della sua età. Studente al liceo scientifico di Foligno, è appassionato di sport, pratica judo e atletica leggera, ma ha anche tanti altri interessi, da quello per l’elettronica alla musica e allo scoutismo. Insomma un ragazzo come tanti, all’apparenza, alla sua età, instancabili, vitali, entusiasti di scoprire come la vita può riservare loro e allo stesso tempo proiettati verso il mondo degli adulti, senza mai dimenticare il divertimento. Ma Dong Dong ha anche qualcosa in più. La vita gli ha tolto la vista, è vero. Ma lui ha saputo comunque vedere oltre l’ostacolo, facendo proprio quel problema e mettendocela tutta, sempre, per raggiungere i suoi obiettivi.   

Riallacciare i fili

Le storie come questa hanno spesso un lieto fine. E possono tornare a stupire dopo anni. Grazie alla chiaccherata su Luce! la famiglia che aveva aiutato Dong Dong a venire in Italia dalla Cina, e con cui era stato 2 mesi, ha trovato i suoi contatti, così come  il giornalista che si era speso per la sua causa, fornendogli tutti i documenti per il viaggio, Luca Vinciguerra, che lo ha chiamato e si sono parlati a 17 anni di distanza dal loro ultimo incontro. “È stato veramente bello”, ci ha detto il ragazzo. Perché quei fili invisibili che collegano le esistenze di ciascuno di noi sono indissolubili e nemmeno il tempo può tagliarli. 

 

Ci spiega l’origine del suo nome, Dong Dong?

Dong Dong Camanni
Il judoka Dong Dong Camanni durante una presa

“Io sono nato in Cina ma la mia malattia ha fatto sì che io venissi in Italia, perché lì le cure sono a pagamento. Quindi grazie all’aiuto di un giornalista sono arrivato in Italia e sono stato adottato da una famiglia italiana. All’anagrafe però il mio nome è sempre Dong Dong, anche se tutti mi conoscono come Paolo”. 

La sua è una famiglia ‘variopinta’ e allargata

“Si è una famiglia ‘multicolore’ e multietnica. Ho due fratelli: il più grande ha 26 anni, è di origini marocchine e ora vive e lavora in Emilia Romagna; l’altro ha la mia stessa età, è in carrozzina, non riesce a mangiare autonomamente né a parlare, ma è un grande valore aggiunto per la nostra famiglia. E poi ho tre sorelle: una cinese, anche lei adottata; una che viene dalla Nigeria e una che arriva dalla Costa d’Avorio”. 

I suoi genitori l’hanno spinta a seguire le sue passioni o c’è stata, da parte loro, più ‘paura’ e magari reticenza a lasciarla andare?

“La mia famiglia è stata perfetta. I miei genitori mi hanno sempre supportato per tutte le attività che volevo svolgere e mi hanno incitato a mettermi in gioco per le cose invece verso le quali avevo più timore. Il ruolo della famiglia è importante: spesso chi ha parenti con disabilità si pone dei paletti, dei limiti per paure assolutamente legittime. Però la mia famiglia ha sempre avuto una mentalità molto aperta, mi ha sempre dato la possibilità di buttarmi e di farmi fare tantissime esperienze che ora ritrovo nel mio modo di vivere e nel mio stile di vita”.

Per quanto riguarda la scuola cosa farà dopo il liceo?

“Dopo il liceo spero di riuscire ad entrare alla facoltà di ingegneria informatica. Mi piacerebbe andare a studiare a Bologna o a Milano e sto iniziando la preparazione per i test di ammissione universitari. Vorrei andare a vivere da solo, perché penso possa costituire un passaggio fondamentale per la mia autonomia personale e anche perché mi sento pronto a fare questo salto”. 

Da dove arriva la passione per lo scoutismo?

Un gruppo scout
Camanni durante un’uscita con gli scout

“Mi è stata trasmessa da papà, che faceva lo scout, mentre mamma faceva l’azione cattolica. Io ho deciso per lo scoutismo perché l’ho visto come un percorso più variegato. Per me è stata ed è un’esperienza fondamentale, sia dal punto di vista relazionale perché così ho potuto imparare tanto sullo stare insieme, sul condividere, sull’aiutare il prossimo, sia dal punto di vista della mia autonomia e del sapermela cavare in situazioni un po’ più complesse. È qualcosa che orienta il mio modo di vivere”. 

Invece per quanto riguarda lo sport, anzi gli sport?

“Mi sono avvicinato allo sport spinto dai miei genitori. Fino ai 3 sono stato in ospedale, a causa della mia malattia, poi quando sono uscito hanno visto che ero (e sono) un ragazzo molto attivo e mi hanno portato prima in piscina. Ho fatto nuoto per quattro  anni, mi ricordo un episodio, quando a 5 anni dovevo passare dalla piscina per bambini a quella dei grandi e mi ero messo a piangere sul bordo perché ero emozionato e impaurito da quella novità. Mi sono poi avvicinato al judo per una casualità perché quando avevo 8 anni la piscina di Foligno era stata chiusa per ristrutturazione. Con i miei genitori ho cercato un altro sport, non volevo smettere di fare attività, era qualcosa di importante per me. Tra tante scelte ho deciso il judo e col senno di poi è stata quella giusta, perché ancora oggi lo pratico”. 

E da quel momento non ha più lasciato il judo…

“Ho iniziato nella palestra di Bevagna, un centro piccolo, amatoriale, dove non c’erano le pressioni dell’agonismo ma era una realtà in cui ho potuto ampliare i miei orizzonti con calma. Mi sono poi spostato alla palestra di Trevi e a 12 anni sono stato convocato per la prima volta ad un raduno agonistico con la nazionale. È stata la svolta della mia carriera: è cambiato il mio approccio, ho iniziato a voler raggiungere obiettivi importanti perché vedevo che gli altri credevano in me. Alla prima gara ho vinto l’oro. Ero l’unico non vedente nella categoria e per me è stata una grande soddisfazione. Poi ho iniziato a frequentare anche un’altra palestra, a Perugia, nella quale ho trovato tante persone che mi hanno aiutato a crescere. A fine 2019 ho deciso quindi di lasciare la palestra di Trevi e di seguire il mio maestro, Gaspare Mazzeo, in un’altra struttura perugina”.

C’è, quindi, un rapporto speciale tra lei e il suo maestro?

Camanni con la nazionale giovanile
Dong Dong con altri atleti della nazionale e i tecnici federali

“Sì, lui mi ha sempre visto come una persona diciamo ‘senza limiti’, non guardava alla mia disabilità. Ci siamo sempre al massimo delle possibilità, mi ricordo allenamenti in mezzo ai macchinari, in mezzo alle piastre dei pesi, cadevo e mi rialzavo, diciamo allenamenti spartani. Però questo per me è stato un gesto molto bello e significativo che mi ha fatto comprendere come veramente ci tenesse alla mia formazione”.

Nel 2019 sono arrivati risultati importanti…

“In questi anni ho potuto fare diverse competizioni, a livello interregionale, dove ho combattuto sempre contro avversari normodotati, e un paio di campionati italiani. Sono state tutte esperienze fondamentali. Il 2019 è stato l’anno più importante nella mia carriera: in primavera sono stato convocato con la nazionale paralimpica per una gara in Germania, dove ho vinto un argento, risultato grazie al quale ho potuto partecipare agli Europei giovanili in Finlandia. Per me è stata una grande soddisfazione, anche da lì ho riportato a casa un argento, ma è stata un’esperienza incredibile perché in quei giorni siamo entrati in contatto con tutti gli altri atleti paralimpici degli altri sport. E a luglio c’è stato l’Europeo di Genova, dove non ho fatto piazzamento ma ero il più piccolo ed è stato comunque bellissimo”.

E dopo?

“Un infortunio ad una spalla mi ha tenuto fermo per un mese e mezzo, a settembre. Poi ho gareggiato, a novembre e dicembre: mi ricordo che in quest’ultima gara per 4 minuti ho combattuto con una mano attaccata alla cintura: anche se ho perso sono stato contento di aver resistito, è stata una soddisfazione personale. Poi il primo lockdown ci ha molto penalizzati. Però abbiamo fatto un’esperienza nuova, il maestro ci mandava dei circuiti da svolgere a casa. È stato più difficile nel secondo, a fine 2020: da parte mia non c’era più la voglia di prima. Abbiamo riniziato ad allenarci a settembre 2021 e ho fatto la prima gara il 12 dicembre. Ero demotivato, pensavo di non farcela. Poi però, combattimento su combattimento sono arrivato in finale e mi sono detto: ‘devo vincere per me ma soprattutto per le persone che hanno speso tempo e energie per formarmi e farmi allenare’. E ce l’ho fatta. Era il campionato italiano csen e nella categoria (tra l’altro under 23) ero l’unico non vedente”.

Il suo impegno con la nazionale continua?

“Sì, la vittoria di questo campionato è stata un bel segnale per i maestri federali, che ci seguono nei nostri percorsi, che si sono interessati nei miei confronti. Oltre a partecipare agli europei giovanili la prossima estate, a settembre 2022 se il mio impegno rimane costante inizieranno a convocarmi per le gare di qualificazioni alle Paralimpiadi di Parigi 2024”.

È abituato a confrontarsi, in allenamento e anche in gara, con persone normodotate. Quanto è importante per la sua formazione?

Dong Dong Camanni
Il campione umbro al Quirinale con la nazionale

“Per me è fondamentale, perché combattere con tutti quelli che possono farlo ‘normalmente’, potremmo dire così, ti fa capire qual è il tuo livello e quanto puoi migliorare. Ma poi gareggiare con normodotati serve a farti onore, vuol dire che ti metti in gioco più degli altri. E vuol dire anche che hai raggiunto un livello di consapevolezza e di concezione del tuo corpo nello spazio molto alto, che riesci a muoverti liberamente e hai la capacità di mantenere punti di riferimento. E infine è importantissimo, il judo, per quanto riguarda la vita in generale, ti dà una condotta su come vivere: il rispetto per l’arbitro, per l’avversario, il fair play”. 

Ed ha anche la carta dell’atletica da giocare…

“La passione verso l’atletica è nata casualmente, a gennaio 2021, per la volontà di trovare nuovi stimoli, al di fuori del judo fatto in casa, che era molto frustrante. Vista la mia corporatura diciamo massiccia mi dedico alla velocità, quindi 100,200 e 400m. Mi piace molto perché abbiamo un bel gruppo di amici dove mi alleno e anche qui ho dei buoni risultati nella categoria non vedenti. Tanto che sono stato convocato a un ritiro della nazionale giovanile, per me un grande risultato”.

Tra i tanti interessi ha anche quello per la musica

“Suono il piano da tanti anni, ho iniziato a mettere le mani sulla tastiera a 4 anni e mi hanno iniziato le nozioni base. Poi sono passato un po’ più all’accompagnamento finché non ho deciso di studiare con un maestro anche lui non vedente, che mi ha aiutato tantissimo per quanto riguarda la tecnica. Dava tantissima importanza alla percezione delle posizioni sul piano, a quella delle distanze, ed è stato di grande aiuto. Dopo 3 anni sono passato alla scuola di musica di Bevagna, dove lo studio è stato improntato alla musica classica. E infine, per trovare nuovi stimoli, dopo altri 3 anni mi sono spostato su stili più moderni, il jazz, il blues e l’improvvisazione”. 

Si impegna in moltissime attività ma le è mai capitato di essersi sentito escluso o discriminato a causa della sua disabilità?

Dong Dong Camanni
Tra le tante passioni c’è quella per l’atletica

“Il mio percorso scolastico e di crescita sociale è stato sempre veramente bello. Ho sempre avuto molti amici e molte persone che mi vogliono bene accanto. Non ho mai avuto problemi di inclusione o per essere accettato. Penso di essermi posto verso gli altri nella maniera più giusta, con franchezza e onestà per quello che sono veramente. Questo nasce anche da un’accettazione della mia disabilità che non è scontata. Io ho accettato il mio problema e ne tengo conto non con un’accezione negativa ma nel senso che c’è ma se non ci fosse stato magari io non sarei stato qui e non avrei raggiunto i risultati che ho raggiunto e non sarei quello che sono adesso. Ormai la mia disabilità, per quanto limitante e per quanto ovviamente vorrei non averla, però mi dà consapevolezza di chi sono diventato e sentirei che mi mancherebbe qualcosa se non fosse stato così”. 

C’è un modello a cui si ispira?

“Non ho dei preferiti ma a volte un’ispirazione potrebbe essere Zlatan Ibrahimović perché è una persona con un carisma fortissimo che spesso è un po’ lontano da quello che sono io, perché capita che mi butti giù, non creda nelle mie potenzialità. Invece lui è un personaggio che crede tantissimo nelle sue capacità e mi insegna che se voglio ottenere una cosa devo dare tutto per provare a ottenerla”. 

Cosa direbbe a un bambino, a un ragazzo, che si trova ad avere a che fare con un problema di salute grave come era il suo, con una disabilità?

“Non è mai facile cercare di dare un’opinione su questo perché ognuno vive esperienze diverse e le problematiche di ognuno di noi sono differenti. Però per come sono fatto io il consiglio che potrei dare è buttarsi nelle situazioni, provare, mettersi in gioco. Perché è solo così che si può crescere, si superano i propri limiti e si può vedere il bello che c’è nelle cose. Altrimenti si rimane in una visione limitata con una mentalità chiusa che invece è importante aprire con l’esperienza”.

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  • Maura Nardi, 41 anni a novembre, ed Emanuele Loati, 25, oltre ad essere innamorati, sono due giovani transgender che, dopo una vera e propria odissea, hanno completato insieme la transizione per il cambio di sesso. E ora, nuovi documenti alla mano, coroneranno finalmente il loro sogno d’amore con le nozze.

“Con l’identità di genere non si può scendere a patti: puoi lottarci per un po’, ma alla fine devi accettare quello che sei perché in ballo c’è la tua vita”.

Emanuele e Maura si sono conosciuti 3 anni fa, proprio durante il difficile e lungo percorso che li avrebbe portati alla loro nuova identità. Da quel primo incontro, proprio come in una favola con la freccia di Cupido scoccata che non lascia scampo, i due non si sono più lasciati.

Uniti, supportandosi a vicenda senza mai smettere di amarsi, hanno affrontato tutte le difficoltà che si sono presentate e non sono state poche: prima la sofferenza emotiva (ma anche fisica) per la transizione, aggravata poi dalla burocrazia dello Stato. E dopo tante peripezie la luce è apparsa in fondo al tunnel: l’ufficio anagrafe del comune di Recanati, in provincia di Macerata, ha provveduto a rettificare i loro documenti di identità. Era l’ultimo step da superare prima del via libera al matrimonio. Ora non resta che organizzare.

Se quella di Nardi e Loati è una vicenda già particolarmente travagliata, anche se a lieto fine, per Maura le cose sono state, se possibile, ancora più difficili. Ha iniziato la transizione nel 2016 e quando ha completato il percorso, è stata la prima persona non vedente italiana a riuscirci. Da quando ha 19 anni soffre di una forma di cecità a causa dello sviluppo di una rara malattia alla retina, nel suo caso “è stato più semplice convivere con la cecità che con l’incongruenza di genere”.

E aggiunge: “Nonostante il supporto non è stata una passeggiata: ho avuto diversi momenti di sconforto e paura, altri in cui mi sono sentita in colpa per aver trascinato la mia famiglia in questo cammino così complesso. Oggi so che rifarei tutto. La ciliegina sulla torta è stata l’arrivo del mio compagno. Ora finalmente siamo pronti a sposarci e possiamo pensare a una cosa bella”.

#lucenews #recanati #nozze
  • Quello che molti temevano è purtroppo accaduto: per scoprire le interruzioni di gravidanza negli Usa le autorità stanno facendo ricorso anche ai dati personali contenuti nelle app di messaggistica e sui social. 

A destare scalpore è un caso in Nebraska, dove Celeste Burgess, 18 anni, e sua madre Jessica, 41, sono finite in tribunale per un presunto aborto illegale, con molteplici capi d’imputazione. La polizia ha presentato come prove i messaggi su Facebook che le due donne si sarebbero scambiate e a cui, con l’autorizzazione dei gestori della piattaforma – in questo caso Meta –, ha avuto accesso. Le chat private, secondo le autorità, mostrano le prove di un aborto farmacologico illegale, autogestito alla 28esima settimana di gestazione (settimo mese), e di un piano per nascondere "i resti”.

Dopo che la polizia ha ottenuto il materiale dai due mandati di perquisizione, Jessica è stata accusata di altri due reati, induzione all’aborto illegale e pratica dell’aborto come persona diversa da un medico autorizzato, per i quali si è nuovamente dichiarata non colpevole. Attualmente il Nebraska proibisce gli aborti dopo le 20 settimane, una legge in vigore da prima dell’annullamento della sentenza Roe v. Wade.

Il problema di fondo che emerge da questa e da tante altre vicende in materia di diritti ha un duplice aspetto: da una parte c’è l’obbligo di una società di fornire i dati alle forze dell’ordine che ne fanno richiesta per le indagini e dall’altra la possibilità di disporre di questi dati. 

Mai come oggi grandi aziende private possono disporre di informazioni personali relative ai propri utenti, e se queste sono utili per fermare chi commette crimini è un conto, ma se le leggi vengono modificate ciò che può essere giudicato come crimine cambia. Il caso di Celeste Burgess è solo un esempio, ma conferma anche che negare il diritto all’aborto non eradica il fenomeno, ma lo trasporta in una dimensione di illegalità e pericolo per la salute della donna.

#lucenews #lucelanazione #aborto #nebraska #abortion #usa
  • La scelta coraggiosa del calciatore croato Robert Peric-Komsic non poteva non fare il giro del mondo in un baleno. Nel fiore dell’età, e con tutta la vita davanti, a soli 23 anni ha deciso di lasciare il mondo del pallone. La sua non è stata una scelta forzata, è stata intimamente voluta, e se ha detto addio alla sua carriera è stato solo per una scelta d’amore. Dimostrando che la vita della propria madre viene prima di qualunque cosa. Prima della passione per il pallone, prima del successo, prima di ogni carriera.

“Non c’erano altre opzioni, io era l’unica possibilità, l’ultima. Ho avuto ben chiara qual era la mia missione: salvarla.”

L’attaccante del Cibalia Vinkovci non ci ha pensato due volte quando si è trattato di scegliere tra il suo futuro nel mondo calcistico e la salute della sua mamma malata. Per tanto, troppo tempo l’aveva vista lottare contro una malattia al fegato. Ora non c’era più tempo da perdere: si trattava di trovare un donatore compatibile, e al più presto. Lo stomaco della donna si stava oramai riempiendo di acqua, e questo voleva dire che le rimaneva poco tempo, secondo i medici che l’avevano in cura. Questione di qualche giorno appena. Il calciatore della seconda divisione croata era l’unico compatibile. A quel punto Peric-Komsic si è tolto la tuta, ha riposto maglietta e calzoncini da calciatore nella sua valigia e ha preso l’aereo, salendo sul primo volo con destinazione Istanbul. Lì ha trovato sua mamma Ljiljiana che l’aspettava per abbracciarlo, in fin di vita.

“Dopo aver lottato duramente per 13 anni, il vero eroe è lei. Io ho solo fatto quello che chiunque al posto mio avrebbe fatto."

Sono passati quattro mesi e più dall’intervento. Il trapianto è andato benee la signora Ljiljiana è migliorata molto da allora. Giorno dopo giorno ce l’ha messa tutta, e con una straordinaria forza di volontà, animata dall’amore di suo figlio, si sta piano piano riprendendo. E a chi si complimenta per aver fatto qualcosa di straordinario, con l’umiltà dei grandi risponde: “È stata mia madre a darmi la vita. Io l’ho solo estesa a lei”.

#lucenews #lucelanazione #donazionefegato #RobertPericKomsic #donarelavitaperamore
Da un paese enorme, sconfinato ad un piccolo borgo in provincia di Perugia. Un lungo viaggio per trovare un futuro, per sconfiggere quella malattia, un retino blastoma bilaterale (tumore infantile molto aggressivo che lo aveva colpito a entrambi gli occhi) che per essere curata, in Cina, avrebbe richiesto tanti, troppi soldi. Una famiglia pronta ad accoglierlo e ad amarlo e per Dong Dong (Paolo, come lo chiamano amici e conoscenti) Camanni, l'inizio di una vita dalle mille sfaccettature. È giovanissimo, ha da poco compiuto 18 anni, abita a Bevagna, ma quando parli con lui si dimostra una persona già molto matura, pur nella naturale spensieratezza della sua età. Studente al liceo scientifico di Foligno, è appassionato di sport, pratica judo e atletica leggera, ma ha anche tanti altri interessi, da quello per l’elettronica alla musica e allo scoutismo. Insomma un ragazzo come tanti, all'apparenza, alla sua età, instancabili, vitali, entusiasti di scoprire come la vita può riservare loro e allo stesso tempo proiettati verso il mondo degli adulti, senza mai dimenticare il divertimento. Ma Dong Dong ha anche qualcosa in più. La vita gli ha tolto la vista, è vero. Ma lui ha saputo comunque vedere oltre l'ostacolo, facendo proprio quel problema e mettendocela tutta, sempre, per raggiungere i suoi obiettivi.   

Riallacciare i fili

Le storie come questa hanno spesso un lieto fine. E possono tornare a stupire dopo anni. Grazie alla chiaccherata su Luce! la famiglia che aveva aiutato Dong Dong a venire in Italia dalla Cina, e con cui era stato 2 mesi, ha trovato i suoi contatti, così come  il giornalista che si era speso per la sua causa, fornendogli tutti i documenti per il viaggio, Luca Vinciguerra, che lo ha chiamato e si sono parlati a 17 anni di distanza dal loro ultimo incontro. "È stato veramente bello", ci ha detto il ragazzo. Perché quei fili invisibili che collegano le esistenze di ciascuno di noi sono indissolubili e nemmeno il tempo può tagliarli.    Ci spiega l’origine del suo nome, Dong Dong?
Dong Dong Camanni
Il judoka Dong Dong Camanni durante una presa
"Io sono nato in Cina ma la mia malattia ha fatto sì che io venissi in Italia, perché lì le cure sono a pagamento. Quindi grazie all’aiuto di un giornalista sono arrivato in Italia e sono stato adottato da una famiglia italiana. All’anagrafe però il mio nome è sempre Dong Dong, anche se tutti mi conoscono come Paolo".  La sua è una famiglia ‘variopinta’ e allargata "Si è una famiglia ‘multicolore’ e multietnica. Ho due fratelli: il più grande ha 26 anni, è di origini marocchine e ora vive e lavora in Emilia Romagna; l’altro ha la mia stessa età, è in carrozzina, non riesce a mangiare autonomamente né a parlare, ma è un grande valore aggiunto per la nostra famiglia. E poi ho tre sorelle: una cinese, anche lei adottata; una che viene dalla Nigeria e una che arriva dalla Costa d’Avorio".  I suoi genitori l’hanno spinta a seguire le sue passioni o c’è stata, da parte loro, più ‘paura’ e magari reticenza a lasciarla andare? "La mia famiglia è stata perfetta. I miei genitori mi hanno sempre supportato per tutte le attività che volevo svolgere e mi hanno incitato a mettermi in gioco per le cose invece verso le quali avevo più timore. Il ruolo della famiglia è importante: spesso chi ha parenti con disabilità si pone dei paletti, dei limiti per paure assolutamente legittime. Però la mia famiglia ha sempre avuto una mentalità molto aperta, mi ha sempre dato la possibilità di buttarmi e di farmi fare tantissime esperienze che ora ritrovo nel mio modo di vivere e nel mio stile di vita". Per quanto riguarda la scuola cosa farà dopo il liceo? "Dopo il liceo spero di riuscire ad entrare alla facoltà di ingegneria informatica. Mi piacerebbe andare a studiare a Bologna o a Milano e sto iniziando la preparazione per i test di ammissione universitari. Vorrei andare a vivere da solo, perché penso possa costituire un passaggio fondamentale per la mia autonomia personale e anche perché mi sento pronto a fare questo salto".  Da dove arriva la passione per lo scoutismo?
Un gruppo scout
Camanni durante un'uscita con gli scout
"Mi è stata trasmessa da papà, che faceva lo scout, mentre mamma faceva l’azione cattolica. Io ho deciso per lo scoutismo perché l’ho visto come un percorso più variegato. Per me è stata ed è un’esperienza fondamentale, sia dal punto di vista relazionale perché così ho potuto imparare tanto sullo stare insieme, sul condividere, sull’aiutare il prossimo, sia dal punto di vista della mia autonomia e del sapermela cavare in situazioni un po’ più complesse. È qualcosa che orienta il mio modo di vivere".  Invece per quanto riguarda lo sport, anzi gli sport? "Mi sono avvicinato allo sport spinto dai miei genitori. Fino ai 3 sono stato in ospedale, a causa della mia malattia, poi quando sono uscito hanno visto che ero (e sono) un ragazzo molto attivo e mi hanno portato prima in piscina. Ho fatto nuoto per quattro  anni, mi ricordo un episodio, quando a 5 anni dovevo passare dalla piscina per bambini a quella dei grandi e mi ero messo a piangere sul bordo perché ero emozionato e impaurito da quella novità. Mi sono poi avvicinato al judo per una casualità perché quando avevo 8 anni la piscina di Foligno era stata chiusa per ristrutturazione. Con i miei genitori ho cercato un altro sport, non volevo smettere di fare attività, era qualcosa di importante per me. Tra tante scelte ho deciso il judo e col senno di poi è stata quella giusta, perché ancora oggi lo pratico".  E da quel momento non ha più lasciato il judo… "Ho iniziato nella palestra di Bevagna, un centro piccolo, amatoriale, dove non c’erano le pressioni dell’agonismo ma era una realtà in cui ho potuto ampliare i miei orizzonti con calma. Mi sono poi spostato alla palestra di Trevi e a 12 anni sono stato convocato per la prima volta ad un raduno agonistico con la nazionale. È stata la svolta della mia carriera: è cambiato il mio approccio, ho iniziato a voler raggiungere obiettivi importanti perché vedevo che gli altri credevano in me. Alla prima gara ho vinto l’oro. Ero l’unico non vedente nella categoria e per me è stata una grande soddisfazione. Poi ho iniziato a frequentare anche un’altra palestra, a Perugia, nella quale ho trovato tante persone che mi hanno aiutato a crescere. A fine 2019 ho deciso quindi di lasciare la palestra di Trevi e di seguire il mio maestro, Gaspare Mazzeo, in un’altra struttura perugina". C’è, quindi, un rapporto speciale tra lei e il suo maestro?
Camanni con la nazionale giovanile
Dong Dong con altri atleti della nazionale e i tecnici federali
"Sì, lui mi ha sempre visto come una persona diciamo ‘senza limiti’, non guardava alla mia disabilità. Ci siamo sempre al massimo delle possibilità, mi ricordo allenamenti in mezzo ai macchinari, in mezzo alle piastre dei pesi, cadevo e mi rialzavo, diciamo allenamenti spartani. Però questo per me è stato un gesto molto bello e significativo che mi ha fatto comprendere come veramente ci tenesse alla mia formazione". Nel 2019 sono arrivati risultati importanti… "In questi anni ho potuto fare diverse competizioni, a livello interregionale, dove ho combattuto sempre contro avversari normodotati, e un paio di campionati italiani. Sono state tutte esperienze fondamentali. Il 2019 è stato l’anno più importante nella mia carriera: in primavera sono stato convocato con la nazionale paralimpica per una gara in Germania, dove ho vinto un argento, risultato grazie al quale ho potuto partecipare agli Europei giovanili in Finlandia. Per me è stata una grande soddisfazione, anche da lì ho riportato a casa un argento, ma è stata un’esperienza incredibile perché in quei giorni siamo entrati in contatto con tutti gli altri atleti paralimpici degli altri sport. E a luglio c’è stato l’Europeo di Genova, dove non ho fatto piazzamento ma ero il più piccolo ed è stato comunque bellissimo". E dopo? "Un infortunio ad una spalla mi ha tenuto fermo per un mese e mezzo, a settembre. Poi ho gareggiato, a novembre e dicembre: mi ricordo che in quest'ultima gara per 4 minuti ho combattuto con una mano attaccata alla cintura: anche se ho perso sono stato contento di aver resistito, è stata una soddisfazione personale. Poi il primo lockdown ci ha molto penalizzati. Però abbiamo fatto un’esperienza nuova, il maestro ci mandava dei circuiti da svolgere a casa. È stato più difficile nel secondo, a fine 2020: da parte mia non c’era più la voglia di prima. Abbiamo riniziato ad allenarci a settembre 2021 e ho fatto la prima gara il 12 dicembre. Ero demotivato, pensavo di non farcela. Poi però, combattimento su combattimento sono arrivato in finale e mi sono detto: ‘devo vincere per me ma soprattutto per le persone che hanno speso tempo e energie per formarmi e farmi allenare’. E ce l’ho fatta. Era il campionato italiano csen e nella categoria (tra l’altro under 23) ero l’unico non vedente". Il suo impegno con la nazionale continua? "Sì, la vittoria di questo campionato è stata un bel segnale per i maestri federali, che ci seguono nei nostri percorsi, che si sono interessati nei miei confronti. Oltre a partecipare agli europei giovanili la prossima estate, a settembre 2022 se il mio impegno rimane costante inizieranno a convocarmi per le gare di qualificazioni alle Paralimpiadi di Parigi 2024". È abituato a confrontarsi, in allenamento e anche in gara, con persone normodotate. Quanto è importante per la sua formazione?
Dong Dong Camanni
Il campione umbro al Quirinale con la nazionale
"Per me è fondamentale, perché combattere con tutti quelli che possono farlo ‘normalmente’, potremmo dire così, ti fa capire qual è il tuo livello e quanto puoi migliorare. Ma poi gareggiare con normodotati serve a farti onore, vuol dire che ti metti in gioco più degli altri. E vuol dire anche che hai raggiunto un livello di consapevolezza e di concezione del tuo corpo nello spazio molto alto, che riesci a muoverti liberamente e hai la capacità di mantenere punti di riferimento. E infine è importantissimo, il judo, per quanto riguarda la vita in generale, ti dà una condotta su come vivere: il rispetto per l’arbitro, per l’avversario, il fair play".  Ed ha anche la carta dell’atletica da giocare… "La passione verso l’atletica è nata casualmente, a gennaio 2021, per la volontà di trovare nuovi stimoli, al di fuori del judo fatto in casa, che era molto frustrante. Vista la mia corporatura diciamo massiccia mi dedico alla velocità, quindi 100,200 e 400m. Mi piace molto perché abbiamo un bel gruppo di amici dove mi alleno e anche qui ho dei buoni risultati nella categoria non vedenti. Tanto che sono stato convocato a un ritiro della nazionale giovanile, per me un grande risultato". Tra i tanti interessi ha anche quello per la musica "Suono il piano da tanti anni, ho iniziato a mettere le mani sulla tastiera a 4 anni e mi hanno iniziato le nozioni base. Poi sono passato un po’ più all’accompagnamento finché non ho deciso di studiare con un maestro anche lui non vedente, che mi ha aiutato tantissimo per quanto riguarda la tecnica. Dava tantissima importanza alla percezione delle posizioni sul piano, a quella delle distanze, ed è stato di grande aiuto. Dopo 3 anni sono passato alla scuola di musica di Bevagna, dove lo studio è stato improntato alla musica classica. E infine, per trovare nuovi stimoli, dopo altri 3 anni mi sono spostato su stili più moderni, il jazz, il blues e l’improvvisazione".  Si impegna in moltissime attività ma le è mai capitato di essersi sentito escluso o discriminato a causa della sua disabilità?
Dong Dong Camanni
Tra le tante passioni c'è quella per l'atletica
"Il mio percorso scolastico e di crescita sociale è stato sempre veramente bello. Ho sempre avuto molti amici e molte persone che mi vogliono bene accanto. Non ho mai avuto problemi di inclusione o per essere accettato. Penso di essermi posto verso gli altri nella maniera più giusta, con franchezza e onestà per quello che sono veramente. Questo nasce anche da un'accettazione della mia disabilità che non è scontata. Io ho accettato il mio problema e ne tengo conto non con un’accezione negativa ma nel senso che c’è ma se non ci fosse stato magari io non sarei stato qui e non avrei raggiunto i risultati che ho raggiunto e non sarei quello che sono adesso. Ormai la mia disabilità, per quanto limitante e per quanto ovviamente vorrei non averla, però mi dà consapevolezza di chi sono diventato e sentirei che mi mancherebbe qualcosa se non fosse stato così".  C’è un modello a cui si ispira? "Non ho dei preferiti ma a volte un’ispirazione potrebbe essere Zlatan Ibrahimović perché è una persona con un carisma fortissimo che spesso è un po’ lontano da quello che sono io, perché capita che mi butti giù, non creda nelle mie potenzialità. Invece lui è un personaggio che crede tantissimo nelle sue capacità e mi insegna che se voglio ottenere una cosa devo dare tutto per provare a ottenerla".  Cosa direbbe a un bambino, a un ragazzo, che si trova ad avere a che fare con un problema di salute grave come era il suo, con una disabilità? "Non è mai facile cercare di dare un’opinione su questo perché ognuno vive esperienze diverse e le problematiche di ognuno di noi sono differenti. Però per come sono fatto io il consiglio che potrei dare è buttarsi nelle situazioni, provare, mettersi in gioco. Perché è solo così che si può crescere, si superano i propri limiti e si può vedere il bello che c’è nelle cose. Altrimenti si rimane in una visione limitata con una mentalità chiusa che invece è importante aprire con l’esperienza".
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