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Home » HP Blocco Grande » “Vorrei incontrare Mustafa e suo padre e dire loro: fidatevi della scienza, faranno miracoli com’è stato per noi”

“Vorrei incontrare Mustafa e suo padre e dire loro: fidatevi della scienza, faranno miracoli com’è stato per noi”

Aladin e suo padre Abdullah Hodzic, insieme a Sanja, figlia di un amico, sono arrivati in Italia nel 1995 per fuggire dalla guerra in Bosnia. I due bambini avevano entrambi una gamba amputata. Oggi Aladin si è costruito una famiglia e vive mille passioni e, come suo padre gli ha insegnato, ha imparato a "non odiare"

Rita Bartolomei
29 Gennaio 2022
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“Sì, mi piacerebbe incontrare Mustafa e suo padre. Dopo 30 anni non è cambiato niente sulla guerra. Dopo 30 anni continuiamo a non capire, a ripetere gli stessi errori. Io vorrei dire a questo padre e a questo bambino siriano: fidatevi della medicina. Perché qui in Italia, nel centro protesi di Budrio, faranno sicuramente il miracolo. Come è stato per Aladin e Sanja, la figlia di un amico che nel ’95 portai con me. Il pensiero è sempre per i bambini, devi partire per loro”.

Aladin Hodzic è arrivato in Italia dalla Bosnia nel 1995, con la gamba destra amputata per una granata dei serbi (foto Paladini e Sentinelli)

Abdullah Hodzic, 53 anni, bosniaco, musicista di Bihac, oggi operaio metalmeccanico nel Ferrarese, è il papà di Aladin. Il suo figlioletto non aveva ancora 5 anni quando arrivò a Bologna, la gamba destra amputata per una granata dei serbi, le stampelle per camminare, un caschetto biondo e uno sguardo serio che andavano al cuore. E per la cronista che c’era, in quel caldo giorno d’agosto del 1995, confusa nella platea di giornalisti e cameramen che occupavano la piazza di Budrio, alle porte di Bologna, che emozione sentire al telefono dopo una vita quella voce calma. Ascoltare un giovane uomo che, in un italiano perfetto, con calata emiliana, cerca i ricordi di allora e rivede “l’aeroporto di Bologna, io sono in braccio a papà, tutti i fotografi attorno, Sanja è con noi”. L’amica che aveva due anni in più, un’altra vittima della guerra, amputata alla gamba sinistra. Rinata, in Italia, oggi fa la psicologa e lavora in Germania.

Aladin e suo padre, fuggiti dalla guerra in Bosnia, ricordano quello che è recentemente avvenuto a Mustafà el Nazzal, il bambino di 4 anni arrivato con la famiglia dalla Siria

In quell’estate di 27 anni fa, la storia commosse l’Italia. Oggi Aladin è padre di Daria, 3 anni e mezzo, lui aveva la stessa età quando la guerra gli tolse l’innocenza. Eppure ascoltarlo parlare per un’ora al telefono lascia un’impressione forte, colpisce l’assenza di odio o risentimento nelle parole. “Chi ha fatto del male prima o poi pagherà il suo conto con la giustizia. E, come dicono sempre dalle mie parti, se non ci pensa la legge, ci penserà Dio”, è la sua regola. Quando gli fanno notare che quello che gli è capitato è terribile, lui spiazza l’interlocutore: “Vero. Ma io penso anche alla fortuna che ho avuto. Se non avessi perso la gamba, magari adesso vivrei ancora in Bosnia e magari avrei una vita non così tranquilla. Allora concludo: alla fine, mi è andata anche bene”.
Le foto sui social raccontano le sue passioni, il trekking in montagna, qualche esperimento ardito con il bungee jumping, il matrimonio con Adisa, “ci siamo conosciuti quando sono tornato a Bihac, in Bosnia, ci siamo frequentati e innamorati”. Al piccolo Mustafà el Nazzal, nato senza gambe e senza braccia per gli effetti delle armi chimiche, augura “soprattutto di potersi distinguere, di riuscire a fare qualcosa in più degli altri. Perché i bambini che hanno vissuto un trauma così sviluppano capacità che altri non hanno. Sì, un giorno mi piacerebbe incontrarlo. Ma adesso penso abbia cose più urgenti da fare”.

Oggi Aladin è sposato con Adisa e ha una bambina, Daria, di 3 anni e mezzo

Abdullah è fiero di Aladin e degli altri due figli più piccoli, Azra e Mohammed. Gli ha insegnato a non odiare nessuno. Ha un ricordo indelebile di Luciano Masi, l’operatore Rai che lo riprese con il figlioletto nella sua Bihac, era l’agosto del 1995, “pochi giorni dopo siamo partiti per l’Italia”. Racconta: “Venne aggredito verbalmente dai miei amici e parenti. Gli ripetevano, ‘non ti vergogni a riprendere questo bambino che ha bisogno d’aiuto?’ Allora sono intervenuto, ho detto a tutti, usate la testa. Lui deve filmarmi, solo così potrò aiutare mio figlio. Se sono stato coraggioso? Penso di aver fatto il mio dovere. Mi sono fidato di gente seria, come Marco Beci”, il cooperante poi morto nella strage di Nassiriya. Il babbo di Aladin, a Bihac, è stato soldato. “Ho combattutto per tre anni e mezzo – racconta –. L’ho fatto per la mia famiglia. Purtroppo da allora non è cambiato niente. E non importa che stavolta sia la Siria, allora la Bosnia. Il mondo è sempre lo stesso, è sempre la stessa storia”. Pensa “ai tanti bambini che non hanno avuto la ‘fortuna’ di Aladin e Mustafa, che non sono finiti in una foto. Bambini senza arti ma anche senza protesi, senza cure, bambini che neanche sono sopravvissuti. Questa è la tragedia”.

E poi sorride, mentre gli torna in mente la piazza piena di Budrio, “quel giorno di Ferragosto pensavo che fosse arrivata lì tutta Italia. Come prima cosa i giornalisti mi chiesero ‘ma dove sono le sue valigie?’ Beh, diciamo che non era quello il problema… Tutti credevano che anche Sanja fosse mia figlia. Sì, è stata una bella responsabilità partire con due bambini. Lei è rimasta con me, da sola, per tre mesi. Ma dovevo farlo, non vedevo l’ora”. Poi si rabbuia, mentre ricorda che ancora oggi in Bosnia “ai piccoli insegnano a odiare chi è diverso. Non abbiamo imparato la lezione. Poi è arrivato un virus e ci ha insegnato che si può morire anche senza bombe”.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
“Sì, mi piacerebbe incontrare Mustafa e suo padre. Dopo 30 anni non è cambiato niente sulla guerra. Dopo 30 anni continuiamo a non capire, a ripetere gli stessi errori. Io vorrei dire a questo padre e a questo bambino siriano: fidatevi della medicina. Perché qui in Italia, nel centro protesi di Budrio, faranno sicuramente il miracolo. Come è stato per Aladin e Sanja, la figlia di un amico che nel ’95 portai con me. Il pensiero è sempre per i bambini, devi partire per loro”.
Aladin Hodzic è arrivato in Italia dalla Bosnia nel 1995, con la gamba destra amputata per una granata dei serbi (foto Paladini e Sentinelli)
Abdullah Hodzic, 53 anni, bosniaco, musicista di Bihac, oggi operaio metalmeccanico nel Ferrarese, è il papà di Aladin. Il suo figlioletto non aveva ancora 5 anni quando arrivò a Bologna, la gamba destra amputata per una granata dei serbi, le stampelle per camminare, un caschetto biondo e uno sguardo serio che andavano al cuore. E per la cronista che c’era, in quel caldo giorno d’agosto del 1995, confusa nella platea di giornalisti e cameramen che occupavano la piazza di Budrio, alle porte di Bologna, che emozione sentire al telefono dopo una vita quella voce calma. Ascoltare un giovane uomo che, in un italiano perfetto, con calata emiliana, cerca i ricordi di allora e rivede “l’aeroporto di Bologna, io sono in braccio a papà, tutti i fotografi attorno, Sanja è con noi”. L’amica che aveva due anni in più, un’altra vittima della guerra, amputata alla gamba sinistra. Rinata, in Italia, oggi fa la psicologa e lavora in Germania.
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In quell’estate di 27 anni fa, la storia commosse l’Italia. Oggi Aladin è padre di Daria, 3 anni e mezzo, lui aveva la stessa età quando la guerra gli tolse l’innocenza. Eppure ascoltarlo parlare per un’ora al telefono lascia un’impressione forte, colpisce l’assenza di odio o risentimento nelle parole. “Chi ha fatto del male prima o poi pagherà il suo conto con la giustizia. E, come dicono sempre dalle mie parti, se non ci pensa la legge, ci penserà Dio”, è la sua regola. Quando gli fanno notare che quello che gli è capitato è terribile, lui spiazza l’interlocutore: “Vero. Ma io penso anche alla fortuna che ho avuto. Se non avessi perso la gamba, magari adesso vivrei ancora in Bosnia e magari avrei una vita non così tranquilla. Allora concludo: alla fine, mi è andata anche bene”. Le foto sui social raccontano le sue passioni, il trekking in montagna, qualche esperimento ardito con il bungee jumping, il matrimonio con Adisa, “ci siamo conosciuti quando sono tornato a Bihac, in Bosnia, ci siamo frequentati e innamorati”. Al piccolo Mustafà el Nazzal, nato senza gambe e senza braccia per gli effetti delle armi chimiche, augura “soprattutto di potersi distinguere, di riuscire a fare qualcosa in più degli altri. Perché i bambini che hanno vissuto un trauma così sviluppano capacità che altri non hanno. Sì, un giorno mi piacerebbe incontrarlo. Ma adesso penso abbia cose più urgenti da fare”.
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Abdullah è fiero di Aladin e degli altri due figli più piccoli, Azra e Mohammed. Gli ha insegnato a non odiare nessuno. Ha un ricordo indelebile di Luciano Masi, l’operatore Rai che lo riprese con il figlioletto nella sua Bihac, era l’agosto del 1995, “pochi giorni dopo siamo partiti per l’Italia”. Racconta: “Venne aggredito verbalmente dai miei amici e parenti. Gli ripetevano, 'non ti vergogni a riprendere questo bambino che ha bisogno d’aiuto?' Allora sono intervenuto, ho detto a tutti, usate la testa. Lui deve filmarmi, solo così potrò aiutare mio figlio. Se sono stato coraggioso? Penso di aver fatto il mio dovere. Mi sono fidato di gente seria, come Marco Beci”, il cooperante poi morto nella strage di Nassiriya. Il babbo di Aladin, a Bihac, è stato soldato. “Ho combattutto per tre anni e mezzo – racconta –. L’ho fatto per la mia famiglia. Purtroppo da allora non è cambiato niente. E non importa che stavolta sia la Siria, allora la Bosnia. Il mondo è sempre lo stesso, è sempre la stessa storia”. Pensa “ai tanti bambini che non hanno avuto la 'fortuna' di Aladin e Mustafa, che non sono finiti in una foto. Bambini senza arti ma anche senza protesi, senza cure, bambini che neanche sono sopravvissuti. Questa è la tragedia”. E poi sorride, mentre gli torna in mente la piazza piena di Budrio, “quel giorno di Ferragosto pensavo che fosse arrivata lì tutta Italia. Come prima cosa i giornalisti mi chiesero 'ma dove sono le sue valigie?' Beh, diciamo che non era quello il problema... Tutti credevano che anche Sanja fosse mia figlia. Sì, è stata una bella responsabilità partire con due bambini. Lei è rimasta con me, da sola, per tre mesi. Ma dovevo farlo, non vedevo l’ora”. Poi si rabbuia, mentre ricorda che ancora oggi in Bosnia “ai piccoli insegnano a odiare chi è diverso. Non abbiamo imparato la lezione. Poi è arrivato un virus e ci ha insegnato che si può morire anche senza bombe”.
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