Main Partner

main partnermain partnermain partner

Partner

main partner

Arabia Saudita, condannato a morte perchè a 17 anni aveva partecipato a proteste antigovernative

di CAMILLA PRATO -
22 giugno 2021
Excited about the next day's plans.

Excited about the next day's plans.

Morire per le proprie idee. Essere imprigionati con false accuse niente meno che da chi dovrebbe garantire la sicurezza, le forze dell'ordine. Essere torturati, per far sì che la disperazione ci spinga a dire il falso, purché quel dolore abbia fine. E infine venire uccisi, giovani, forse troppo per aver davvero avuto consapevolezza di ciò per cui stavamo combattendo. Sembrano cose che in un Paese civile risalirebbero a tempi lontani, a decenni passati, quando la democrazia era solo una parola che bisognava sussurrare per non essere sentiti e arrestati. Ma sono eventi accaduti davvero, ancora, qualche giorno fa. Nell’aprile dello scorso anno, il regno saudita aveva annunciato che avrebbe posto fine alla pena di morte per i condannati per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni. A patto però che questi crimini non avessero a che fare con la legge antiterrorismo, che si applica anche a chi esprime pacificamente il proprio dissenso. E così un giovane della minoranza sciita, Mustafa al-Darwish, 26 anni, è stato giustiziato a Dammam, una città dell’est, dopo essere stato accusato di aver promosso una rivolta armata contro il sovrano dell’Arabia Saudita con l’intento di "destabilizzare la sicurezza" del regno. "Ancora una volta le autorità saudite hanno dimostrato che le loro promesse sono vane", ha affermato Ali al-Dubaisi, direttore dell’Organizzazione europea saudita per i diritti umani. Mustafa è stato arrestato nel maggio 2015 per la sua presunta partecipazione alle proteste durante le rivolte della Primavera araba tra il 2011 e il 2012, quando aveva solo 17 anni. Era in carcere da allora. Nonostante all'epoca dei fatti fosse giovanissimo, il "processo", se così si può chiamare dato il suo esito scontato ancor prima di avere luogo, lo ha condannato a morte. La legge che 'salva' dalla pena capitale chi si è macchiato di un delitto quando era ancora minorenne infatti, non riguarda i condannati ai sensi della legge antiterrorismo, che contiene una serie di disposizioni vaghe e generiche che hanno già portato i tribunali sauditi ad emettere sentenze di questo tipo nei confronti di persone che avevano solo espresso le loro opinioni in dissenso con il governo. Le prove contro il ragazzo includevano una fotografia ritenuta "offensiva per le forze di sicurezza" e la sua partecipazione a oltre 10 raduni di "sommosse" antigovernative tra il 2011 e il 2012. Secondo il ministero degli Interni saudita al-Darwish avrebbe anche tentato di uccidere forze di sicurezza locali. Secondo Amnesty International e Reprieve, un'associazione contro la pena di morte che ha seguito il suo caso, "Al-Darwish è stato messo in isolamento, picchiato così tanto da perdere conoscenza molte volte. Per far smettere le torture, ha confessato le accuse contro di lui. Al processo, ha detto alla corte di essere stato torturato e ha ritrattato la sua confessione. La corte era anche a conoscenza del fatto che Mustafa era ancora un minore al momento di molti dei presunti reati. Nonostante queste evidenti violazioni del diritto interno e internazionale, è stato condannato a morte". Reprieve ha precisato che le autorità non hanno nemmeno informato la famiglia del giovane della sua esecuzione, e questa  ne è venuta a conoscenza "leggendo le notizie online". "Sei anni fa, Mustafa è stato arrestato con due suoi amici per le strade di Tarout. La polizia lo ha rilasciato senza accuse ma ha sequestrato il suo telefono. In seguito abbiamo scoperto che c'era una fotografia sul telefono che li offendeva. Tempo dopo ci hanno chiamato e hanno detto a Mustafa di venire a prendere il suo telefono, ma invece di restituirglielo lo hanno arrestato e da lì è iniziato il nostro dramma. Come possono giustiziare un ragazzo a causa di una fotografia sul suo telefono? Dal suo arresto, non abbiamo conosciuto altro che dolore", hanno detto i familiare in una dichiarazione all'associazione. Commentando la morte del 26enne, Amnesty in una nota dichiara che "con questa esecuzione le autorità saudite hanno mostrato un deplorevole disprezzo per il diritto alla vita. È l’ultima vittima del sistema giudiziario profondamente imperfetto dell’Arabia Saudita, che vede regolarmente persone condannate a morte dopo processi gravemente iniqui basati su confessioni estorte attraverso la tortura". Questa sorte disumana, che sembra attendere tutti coloro che cerchino di far sentire la propria voce e di lottare pacificamente per una società migliore, è toccata nell’aprile 2019 anche ad altri sei ragazzi, come Abdullah al-Howaiti, arrestato all’età di 14 anni e condannato a morte a 17. Per aggirare la legge, i minorenni vengono condannati per crimini veri o presunti commessi da adolescenti per poi essere uccisi una volta compiuti i diciotto anni. Nel 2019 in Arabia saudita sono stati giustiziati 184 prigionieri, 27 nel 2020. Nel 2021 sono già 26 le pene capitali eseguite.