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Home » HP Trio » L’Italia fascista che tolse il pallone alle donne. E le “Giovinette” ribelli che sfidarono il Duce

L’Italia fascista che tolse il pallone alle donne. E le “Giovinette” ribelli che sfidarono il Duce

Federica Seneghini racconta in un libro la storia delle ragazze che sfidarono il regime per praticare lo sport che amavano: il calcio. L'avventura, breve ma appassionata, tra pregiudizi che si sono trascinati fino ad oggi

Marianna Grazi
19 Giugno 2021
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Il calcio, in Italia, non è solo uno sport. È tradizione e passione. È storia. Gli Azzurri di Roberto Mancini, proprio in questi giorni, stanno affrontando l’impresa europea, e con le due vittorie contro Turchia e Svizzera stanno regalando a tutti gli italiani un sogno che mancava da tanto tempo. Le ultime a farci stringere davanti al televisore, a tifare per la nostra Nazionale, erano state le ragazze durante il mondiale del 2019. Quelle ragazze derise, screditate, considerate fuori posto in uno sport ancora considerato “di competenza maschile”. C’è stato addirittura un tempo in cui, alle donne fu proibito rincorrere un pallone, segnare, dribblare. Forse oggi non è più così, ma il retaggio maschilista ha lasciato i suoi strascichi.

L’11 giugno del 1933, in Italia Mussolini è al potere da un decennio, Hitler sta organizzando le Olimpiadi del 1936. Le calciatrici del GFC (Gruppo Femminile di Calcio) sono la prima squadra femminile italiana e stanno scendendo in campo a porte chiuse per quella che sarà la loro unica partita. Poi il fascismo deciderà che il calcio è ‘roba da uomini’. Questa è la storia di alcune ragazze milanesi che decisero di andare controcorrente e lottare, se così si può dire, per “l’esser donne”. Sì, perché “le brave donne” erano invece dedite a due cose nel loro ruolo subalterno: procreazione e cura domestica. Ritagliarsi il proprio spazio di libertà nell’Italia fascista era un’impresa difficile per tutti. Per le donne era impossibile e questo fu il sale della sfida delle Giovinette. Avevano tra i 15 e i 20 anni, Rosetta, Giovanna, Marta e le altre. Erano riuscite a fondare la GFC grazie all’esperimento di ‘apertura’ di Leandro Arpinati. Gerarca bolognese dello sport, a capo del Coni e della Figc, Arpinati aveva già aperto la pallacanestro alle donne e poi era passato al calcio. A condizione che le ragazze giocassero a porte chiuse, dopo il parere del medico fascista Nicola Pende.

“Queste ragazze sapevano bene qual era la morale dell’epoca e cosa voleva dire vivere in un regime totalitario e praticare il calcio, sport appannaggio dei maschi”, afferma Federica Seneghini, giornalista e autrice del libro che racconta la loro storia: “Giovinette – Le calciatrici che sfidarono il Duce” (Ed. Solferino Libri, 2020). “Il regime fascista, in un primo momento, non sa cosa dire rispetto a questa iniziativa, ma ci penseranno i giornalisti legati al potere ad attaccarle con articoli pieni di pregiudizi“, continua. Ed in effetti, la maggioranza dei giornali definì il calcio femminile un “antisport”, una “buffonata di tipo americano”.

La squadra delle GCM in posa con la divisa ufficiale: non potendo mostrare le gambe indossavano lunghe gonne per giocare

C’era la preoccupazione comune per la linea estetica e per gli organi addominali e sessuali delle donne che praticavano questo sport. “Scesero in campo con delle gonnellone invece dei classici pantaloncini – racconta Seneghini – perché avrebbero destato scandalo nel far vedere le gambe al pubblico. Si dettero anche delle regole di gioco diverse da quelle del calcio maschile. Innanzitutto, la palla era più piccola e leggera, i tempi non erano di 45 minuti ma bensì di 20. I passaggi poi dovevano essere solo rasoterra. In porta fu deciso di mettere dei ragazzi presi dalle giovanili dell’Ambrosiana-Inter, perché il ruolo del portiere era considerato il più a rischio. I medici dell’epoca pensavano che una pallonata al basso ventre avrebbe potuto mettere a rischio la fecondità di queste ragazze e questo non era tollerato dal regime fascista, perché far figli era quasi un obbligo per le donne”.

All’apice il movimento arrivò ad avere anche 50 calciatrici, ma la storia fu brevissima. Le ragazze giocarono infatti ancora per qualche mese e furono poi costrette a smettere nell’ottobre del 1933. Rosetta e le altre riuscirono a giocare una sola partita e poi il nuovo gerarca dello sport alla presidenza del Coni, Achille Starace, le fece smettere. Le donne dovevano fare degli sport più consoni a loro e vincere delle medaglie utili alla causa del Paese. Poco tempo prima, Rosetta aveva detto a Calcio Illustrato: “Amo moltissimo il gioco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai”.

La nazionale italiana di calcio femminile odierna

Sembra un mondo totalmente diverso da quello odierno, nonostante ci siano tutt’oggi grandi discriminazioni anche nello sport. Eppure, i pregiudizi sul calcio femminile perduravano anche negli anni Cinquanta. “Nel 1959, in piena Italia democratica, il Coni tornerà a vietare nel nostro paese la pratica del calcio femminile”, racconta Marco Giani, membro della Società italiana di Storia dello sport e autore del saggio finale del volume. “Segno di un perdurante pregiudizio, difficile da scalfire. Il come sia possibile tutto questo – continua – è facile da spiegare: ostacoli di ogni tipo da parte dei dirigenti delle federazioni, ma anche silenzio, derisione e distruzione di una memoria condivisa all’interno della comunità nazionale della calciatrici, per cui quelle che ricominciarono nel 1946 non sapevano delle milanesi del 1933, e quelle di fine anni Cinquanta non sapevano di quelle del 1946 e così via. Mi è capitato di leggere persino delle interviste delle attuali azzurre che raccontano di come da bambine pensavano di essere le uniche al mondo a giocare a calcio!”.

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  • «Era terribile durante il fascismo essere transessuale. Mi picchiavano e mi facevano fare delle cose schifose. Mi imbrattavano con il catrame e mi hanno rasato. Ho preso le botte dai fascisti perché mi ero atteggiato a donna e per loro questo era inconcepibile».

È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l’unica persona trans italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.

#lucenews #lucysalani #dachau
  • È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l
  • Elaheh Tavakolian, l’iraniana diventata uno dei simboli della lotta nel suo Paese, è arrivata in Italia. Nella puntata del 21 marzo de “Le Iene”, tra i servizi del programma di Italia 1, c’è anche la storia della giovane donna, ferita a un occhio dalla polizia durante le proteste in Iran. Nella puntata andata in onda la scorsa settimana, l’inviata de “Le Iene” aveva incontrato la donna in Turchia, durante la sua fuga disperata dall’Iran, dove ormai era troppo pericoloso vivere. 

“Ho molta paura. Vi prego, qui potrebbero uccidermi” raccontava l’attivista a Roberta Rei. Già in quell’occasione, Elaheh Tavakolian era apparsa con una benda sull’occhio, a causa di una grave ferita causatale da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine iraniane durante le manifestazioni a cui ha preso parte dopo la morte di Mahsa Amini.

Elaheh Tavakolian fa parte di quelle centinaia di iraniani che hanno subito gravi ferite agli occhi dopo essere stati colpiti da pallottole, lacrimogeni, proiettili di gomma o altri proiettili usati dalle forze di sicurezza durante le dure repressioni che vanno avanti ormai da oltre sei mesi. La ragazza, che ha conseguito un master in commercio internazionale e ora lavora come contabile, ha usato la sua pagina Instagram per rivelare che le forze di sicurezza della Repubblica islamica stavano deliberatamente prendendo di mira gli occhi dei manifestanti. 

✍ Barbara Berti

#lucenews #lucelanazione #ElahehTavakolian #iran #leiene
  • Ha 19 anni e vorrebbe solo sostenere la Maturità. Eppure alla richiesta della ragazza la scuola dice di no. Nina Rosa Sorrentino è nata con la sindrome di Down, e quel diritto che per tutte le altre studentesse e studenti è inviolabile per lei è invece un’utopia.

Il liceo a indirizzo Scienze Umane di Bologna non le darà la possibilità di diplomarsi con i suoi compagni e compagne, svolgendo le prove che inizieranno il prossimo 21 giugno. La giustificazione – o la scusa ridicola, come quelle denunciate da CoorDown nella giornata mondiale sulla sindrome di Down – dell’istituto per negarle questa possibilità è stata che “per lei sarebbe troppo stressante“.

Così Nina si è ritirata da scuola a meno di tre mesi dalla fine della quinta. Malgrado la sua famiglia, fin dall’inizio del triennio, avesse chiesto agli insegnanti di cambiare il Pei (piano educativo individualizzato) della figlia, passando dal programma differenziato per gli alunni certificati a quello personalizzato per obiettivi minimi o equipollenti, che prevede l’ammissione al vero e proprio esame di Maturità. Ma il liceo Sabin non ha assecondato la loro richiesta.

Francesca e Alessandro Sorrentino avevano trovato una sponda di supporto nel Ceps di Bologna (Centro emiliano problemi sociali per la Trisomia 21), in CoorDown e nei docenti di Scienze della Formazione dell’Alma Mater, che si sono detti tutti disponibili per realizzare un progetto-pilota per la giovane studentessa e la sua classe. Poi, all’inizio di marzo, la doccia fredda: è arrivato il no definitivo da parte del consiglio di classe, preoccupato che per la ragazza la Maturità fosse un obiettivo troppo impegnativo e stressante, tanto da generare “senso di frustrazione“, come ha scritto la dirigente del liceo nella lettera che sancisce l’epilogo di questa storia tutt’altro che inclusiva.

“Il perché è quello che ci tormenta – aggiungono i genitori –. Anche la neuropsichiatra concordava: Nina poteva e voleva provarci a fare l’esame. Non abbiamo mai chiesto le venisse regalato il diploma, ma che le fosse data la possibilità di provarci”.

#lucenews #lucelanazione #disabilityinclusion #giornatamondialedellasindromedidown
Il calcio, in Italia, non è solo uno sport. È tradizione e passione. È storia. Gli Azzurri di Roberto Mancini, proprio in questi giorni, stanno affrontando l'impresa europea, e con le due vittorie contro Turchia e Svizzera stanno regalando a tutti gli italiani un sogno che mancava da tanto tempo. Le ultime a farci stringere davanti al televisore, a tifare per la nostra Nazionale, erano state le ragazze durante il mondiale del 2019. Quelle ragazze derise, screditate, considerate fuori posto in uno sport ancora considerato "di competenza maschile". C'è stato addirittura un tempo in cui, alle donne fu proibito rincorrere un pallone, segnare, dribblare. Forse oggi non è più così, ma il retaggio maschilista ha lasciato i suoi strascichi. L’11 giugno del 1933, in Italia Mussolini è al potere da un decennio, Hitler sta organizzando le Olimpiadi del 1936. Le calciatrici del GFC (Gruppo Femminile di Calcio) sono la prima squadra femminile italiana e stanno scendendo in campo a porte chiuse per quella che sarà la loro unica partita. Poi il fascismo deciderà che il calcio è 'roba da uomini'. Questa è la storia di alcune ragazze milanesi che decisero di andare controcorrente e lottare, se così si può dire, per "l'esser donne". Sì, perché "le brave donne" erano invece dedite a due cose nel loro ruolo subalterno: procreazione e cura domestica. Ritagliarsi il proprio spazio di libertà nell’Italia fascista era un'impresa difficile per tutti. Per le donne era impossibile e questo fu il sale della sfida delle Giovinette. Avevano tra i 15 e i 20 anni, Rosetta, Giovanna, Marta e le altre. Erano riuscite a fondare la GFC grazie all’esperimento di 'apertura' di Leandro Arpinati. Gerarca bolognese dello sport, a capo del Coni e della Figc, Arpinati aveva già aperto la pallacanestro alle donne e poi era passato al calcio. A condizione che le ragazze giocassero a porte chiuse, dopo il parere del medico fascista Nicola Pende. "Queste ragazze sapevano bene qual era la morale dell’epoca e cosa voleva dire vivere in un regime totalitario e praticare il calcio, sport appannaggio dei maschi", afferma Federica Seneghini, giornalista e autrice del libro che racconta la loro storia: "Giovinette – Le calciatrici che sfidarono il Duce" (Ed. Solferino Libri, 2020). "Il regime fascista, in un primo momento, non sa cosa dire rispetto a questa iniziativa, ma ci penseranno i giornalisti legati al potere ad attaccarle con articoli pieni di pregiudizi", continua. Ed in effetti, la maggioranza dei giornali definì il calcio femminile un "antisport", una "buffonata di tipo americano".
La squadra delle GCM in posa con la divisa ufficiale: non potendo mostrare le gambe indossavano lunghe gonne per giocare
C'era la preoccupazione comune per la linea estetica e per gli organi addominali e sessuali delle donne che praticavano questo sport. "Scesero in campo con delle gonnellone invece dei classici pantaloncini - racconta Seneghini - perché avrebbero destato scandalo nel far vedere le gambe al pubblico. Si dettero anche delle regole di gioco diverse da quelle del calcio maschile. Innanzitutto, la palla era più piccola e leggera, i tempi non erano di 45 minuti ma bensì di 20. I passaggi poi dovevano essere solo rasoterra. In porta fu deciso di mettere dei ragazzi presi dalle giovanili dell’Ambrosiana-Inter, perché il ruolo del portiere era considerato il più a rischio. I medici dell’epoca pensavano che una pallonata al basso ventre avrebbe potuto mettere a rischio la fecondità di queste ragazze e questo non era tollerato dal regime fascista, perché far figli era quasi un obbligo per le donne". All'apice il movimento arrivò ad avere anche 50 calciatrici, ma la storia fu brevissima. Le ragazze giocarono infatti ancora per qualche mese e furono poi costrette a smettere nell’ottobre del 1933. Rosetta e le altre riuscirono a giocare una sola partita e poi il nuovo gerarca dello sport alla presidenza del Coni, Achille Starace, le fece smettere. Le donne dovevano fare degli sport più consoni a loro e vincere delle medaglie utili alla causa del Paese. Poco tempo prima, Rosetta aveva detto a Calcio Illustrato: "Amo moltissimo il gioco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai".
La nazionale italiana di calcio femminile odierna
Sembra un mondo totalmente diverso da quello odierno, nonostante ci siano tutt'oggi grandi discriminazioni anche nello sport. Eppure, i pregiudizi sul calcio femminile perduravano anche negli anni Cinquanta. "Nel 1959, in piena Italia democratica, il Coni tornerà a vietare nel nostro paese la pratica del calcio femminile", racconta Marco Giani, membro della Società italiana di Storia dello sport e autore del saggio finale del volume. "Segno di un perdurante pregiudizio, difficile da scalfire. Il come sia possibile tutto questo - continua - è facile da spiegare: ostacoli di ogni tipo da parte dei dirigenti delle federazioni, ma anche silenzio, derisione e distruzione di una memoria condivisa all’interno della comunità nazionale della calciatrici, per cui quelle che ricominciarono nel 1946 non sapevano delle milanesi del 1933, e quelle di fine anni Cinquanta non sapevano di quelle del 1946 e così via. Mi è capitato di leggere persino delle interviste delle attuali azzurre che raccontano di come da bambine pensavano di essere le uniche al mondo a giocare a calcio!".
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