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Salario minimo: la direttiva dell'Unione Europea per una transizione sostenibile e inclusiva

di DOMENICO GUARINO -
5 dicembre 2021
braccia

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Ce lo dice l’Europa. Ma stavolta (guarda caso?) preferiamo non ascoltare. L’11 novembre 2021, il Parlamento europeo ha votato a maggioranza una nuova direttiva per l’introduzione in tutta l’Unione del salario minimo. La direttiva era stata proposta dalla commissione europea nell’ottobre 2020 ed è stata oggetto di una lunga trattativa. Attualmente in Ue, sono 21 i Paesi che hanno un salario minimo nazionale, con notevoli differenze tra i vari Stati. Naturalmente per una valutazione complessiva va tenuto conto del diverso costo della vita e della diversa qualità dei servizi di base che sono erogati nei vasi Paesi. In generale però, osservando i dati di Eurostat, possiamo dire che ad avere il salario minimo più basso sono i paesi baltici e quelli dell’Europa orientale e centrale, seguiti dagli stati dell’Europa meridionale. Mentre gli importi più alti, risultano quelli delle nazioni dell’Europa settentrionale e occidentale. Si va dai 1723 euro dell’Irlanda, ai 1700 dei Paesi Bassi, fino ai 332 della Bulgaria ed ai 422 dell’Ungheria. In Francia in salario minimo è di 1554, in Germania di 1585,in Spagna di 1108 , in Portogallo 775,in Polonia 619 euro. Il record assoluto lo detiene il Lussemburgo con un salario minimo di 2200 euro e spiccioli. I paesi dell’Europa orientale sono però quelli che hanno registrato il miglioramento più considerevole negli ultimi 10 anni. Prima tra questi la Romania, dove, tra 2011 e 2021, l’aumento del salario minimo è stato del +11,1%. Fatta eccezione per la Grecia, che negli ultimi 10 anni ha registrato un calo pari all’1,4%, i salari minimi sono comunque aumentati in tutti i paesi che ne sono forniti. Cosa succede in Italia? Nonostante l’articolo 36 della Costituzione il diritto del lavoratore a una retribuzione adeguata il nostro Paese, insieme a Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e in parte Cipro (dove tuttavia esiste un salario minimo ma solo per certe categorie di lavoratori) è uno dei pochi stati UE ad essere sprovvisti di una normativa ad hoc. Nel nostro Paese è la contrattazione collettiva, e quindi la tendenza a gestire i salari in maniera differenziata a seconda del settore, a supplire in parte alla mancanza di questo strumento, che, secondo i valori fondanti dell’Unione europea, in particolare quello del diritto a standard di vita dignitosi, viene considerato essenziale per le politiche di welfare e coesione sociale. Nel 2020 il ddl Catalfo ha provato a colmare questa lacuna legislativa, prevedendo una retribuzione non inferiore al contratto collettivo nazionale previsto per il settore in questione o comunque non inferiore ai 9 euro l’ora. A variare, tra i paesi Ue, non è soltanto l’entità del salario minimo nazionale ma anche il suo rapporto con i redditi medi. In 5 paesi Ue il salario minimo ammonta a più della metà del reddito medio. La Slovenia ad esempio, uno dei paesi Ue con la quota più alta di lavoratori che percepiscono l’importo minimo, è anche il primo stato per rapporto tra salario minimo e reddito medio. Il salario minimo ammonta al 53,6% del reddito medio per quanto riguarda il settore dell’economia aziendale e al 50,6% per industria, costruzioni e servizi. Dietro alla Slovenia si collocano Spagna e Portogallo. Mentre la Germania, uno degli stati con il salario minimo più alto, registra un dato inferiore (41% in media tra i due settori di riferimento). Infine, il tema del salario minimo si collega immediatamente a quello dei lavoratori che non hanno stipendi sufficienti a scansare la povertà e a vivere in condizioni dignitose. Al primo posto in Ue per quota di lavoratori poveri c’è la Romania (15,4%), seguita da Spagna (12,8%) e Lussemburgo (12%). L’Italia, con l’11,8% di lavoratori che vivono in condizioni di povertà, con punte del 15,6% tra i lavoratori che hanno dai 18 ai 24 anni, si colloca, in maniera assai poco edificante, al quarto posto. In coda alla classifica, la Finlandia con meno del 3% di lavoratori poveri. La quota di lavoratori poveri aumenta ovviamente nel caso di lavoratori part-time. In Romania ad esempio,il fenomeno coinvolge il 62,2% dei lavoratori part-time, in Bulgaria il 30,8%.