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Home » HP Trio » Addio all’assegno di assistenza: la stretta dell’Inps nei confronti delle persone con disabilità che lavorano

Addio all’assegno di assistenza: la stretta dell’Inps nei confronti delle persone con disabilità che lavorano

La Legge 118 del 1971 prevede come requisito per l'assegno di invalidità l'"incollocazione" (modificata nel 2007 in "inoccupazione"), ma l'ente previdenziale aveva finora adottato una prassi più favorevole: con un reddito esiguo e il lavoro non stabile si poteva comunque ottenere l'assegno. L'attuale retromarcia scatena le polemiche di associazioni, famiglie e sindacati

Marianna Grazi
22 Ottobre 2021
The company which employing disable people will receive tax deductions benefits.

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Discriminati perché lavorano. È questa la sorte che spetta alle persone con disabilità che, solo per “lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dalla misura del reddito ricavato”, si vedono revocare il diritto a ricevere “l’assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971″, pari a 287,09 euro per 13 mesi. La scelta è quindi tra il restare a casa, senza lavoro e poveri (perché non bastano certo poco meno di 300 euro al mese per poter vivere dignitosamente) o dover dipendere interamente dal proprio lavoro, con stipendi che arrivano ad un massimo da 400 euro al mese per non superare il tetto di reddito annuale da 4.931 euro.

A stabilirlo e renderlo noto è stata la direttrice generale dell’Inps, Gabriella De Michele, lo scorso 14 ottobre: per le persone che hanno una disabilità tra il 74 e il 99% (“non grave”) stop all’assegno mensile se si vogliono tenere il lavoretto. Un cortocircuito che rischia di lasciare ai margini migliaia di individui, impedendo di fatto loro di integrarsi nella società a meno di rinunciare ad un sostegno a cui hanno diritto. Nella nota vengono citate due sentenze della Cassazione – una del 2018 e l’altra del 2019 – che hanno dato ragione all’avvocatura dell’Inps ricorrente contro sentenze di appello di invalidi privati dell’assegno: “Il mancato svolgimento di attività lavorativa è un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale”. In altre parole insomma, come abbiamo detto, o lavori o prendi l’assegno. Una sorta di condanna all’inattività o alla povertà.

La legge 118 del 1971 aveva avviato il percorso, tutt’altro che concluso, per l’inclusione sociale degli invalidi nel nostro Paese, stabilendo (art.13) che l’assegno di invalidità (per coloro di cui stata accertata una riduzione della capacità lavorativa minima del 74%) fosse dovuto solo in caso di “incollocazione” del beneficiario, qualora quindi fosse stato iscritto  nelle liste speciali di collocamento, “per il tempo in cui tale condizione sussiste”. Nel 2007 questa legge ha subito una modifica, tanto che è stato sostituito il requisito dell’incollocazione con quello di l’inoccupazione. In sostanza, comunque, la persona non doveva lavorare.

L’anno successivo è però intervenuta la stessa Inps dicendo che “l’esiguità del reddito impedisce di ritenere che vi sia attività lavorativa rilevante”. In parole povere: con un lavoro non stabile, con il quale non viene superata la soglia di reddito minimo personale (i famosi 4.931 euro all’anno), allora impiego e assegno possono convivere. Quella che invece si legge nel messaggio dell’Inps degli scorsi giorni, quindi, appare come una clamorosa retromarcia, che cancella 50 anni di lavoro sull’inclusione. Tanto che la prassi da adottare ora, oltre a richiedere necessariamente un nuovo intervento legislativo per mettere le cose a posto, rischia di porsi in contrasto addirittura con l’articolo 3 della Costituzione italiana, che impone di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Diverse associazioni nazionali, come CoorDown e Uniamo – Federazione italiana delle associazioni delle persone con malattie rare (Fimr), hanno deciso di scrivere un appello unanime alle massime istituzioni politiche, per denunciare le pesanti conseguenze sociali che inevitabilmente esploderanno. “In precedenza – si legge nell’appello – secondo l’Inps per “inattività lavorativa” si applicavano requisiti più favorevoli previsti per l’iscrizione alle liste di collocamento, che ammettono la possibilità di incassi da lavoro dipendente fino a 8.145 euro annui e di 4.800 euro in caso di lavoro autonomo, quindi limiti ben più ampi. Si potevano svolgere piccoli lavori, entro il limite di 4.931 euro annui senza perdere l’assegno. Ora non è più possibile“, denunciano le associazioni.

“Si tratta di una situazione inaccettabile per più di una ragione – sostiene invece la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra (Leu) -. La grave invalidità di cui si parla non può comportare il confinamento nella solitudine della inattività; e nemmeno la condanna a una povertà, solo in parte alleviata dall’indennità che si riceve. Per non parlare della rinuncia ad ogni tipo di indipendenza economica. Occorre intervenire immediatamente per correggere l’equivoco creato dalla norma del 1971 e ripristinare la compatibilità sino ad ora ammessa”. Sullo stesso tono anche l’intervento della Cgil nazionale, che fa sapere tramite i responsabili per le politiche della previdenza e della disabilità, Ezio Cigna e Nina Daita, che la novità dell’Inps “rischia di essere dirompente tra le migliaia di famiglie che si trovano ad affrontare quotidianamente problemi di salute e di invalidità. Si tratta di una cosa molto grave, poiché vengono colpiti i più fragili, coloro che hanno già pagato duramente le conseguenze dell’emergenza sanitaria. Le attività di queste persone con disabilità sono attività terapeutiche o formative e con piccoli compensi, che difficilmente superano il tetto previsto. Togliere l’assegno di invalidità alle famiglie è un atto ingiusto“.

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  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

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  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Discriminati perché lavorano. È questa la sorte che spetta alle persone con disabilità che, solo per "lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dalla misura del reddito ricavato", si vedono revocare il diritto a ricevere "l'assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971", pari a 287,09 euro per 13 mesi. La scelta è quindi tra il restare a casa, senza lavoro e poveri (perché non bastano certo poco meno di 300 euro al mese per poter vivere dignitosamente) o dover dipendere interamente dal proprio lavoro, con stipendi che arrivano ad un massimo da 400 euro al mese per non superare il tetto di reddito annuale da 4.931 euro. A stabilirlo e renderlo noto è stata la direttrice generale dell'Inps, Gabriella De Michele, lo scorso 14 ottobre: per le persone che hanno una disabilità tra il 74 e il 99% ("non grave") stop all'assegno mensile se si vogliono tenere il lavoretto. Un cortocircuito che rischia di lasciare ai margini migliaia di individui, impedendo di fatto loro di integrarsi nella società a meno di rinunciare ad un sostegno a cui hanno diritto. Nella nota vengono citate due sentenze della Cassazione - una del 2018 e l'altra del 2019 - che hanno dato ragione all'avvocatura dell'Inps ricorrente contro sentenze di appello di invalidi privati dell'assegno: "Il mancato svolgimento di attività lavorativa è un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale". In altre parole insomma, come abbiamo detto, o lavori o prendi l'assegno. Una sorta di condanna all'inattività o alla povertà. La legge 118 del 1971 aveva avviato il percorso, tutt'altro che concluso, per l'inclusione sociale degli invalidi nel nostro Paese, stabilendo (art.13) che l'assegno di invalidità (per coloro di cui stata accertata una riduzione della capacità lavorativa minima del 74%) fosse dovuto solo in caso di "incollocazione" del beneficiario, qualora quindi fosse stato iscritto  nelle liste speciali di collocamento, "per il tempo in cui tale condizione sussiste". Nel 2007 questa legge ha subito una modifica, tanto che è stato sostituito il requisito dell'incollocazione con quello di l'inoccupazione. In sostanza, comunque, la persona non doveva lavorare. L'anno successivo è però intervenuta la stessa Inps dicendo che "l'esiguità del reddito impedisce di ritenere che vi sia attività lavorativa rilevante". In parole povere: con un lavoro non stabile, con il quale non viene superata la soglia di reddito minimo personale (i famosi 4.931 euro all'anno), allora impiego e assegno possono convivere. Quella che invece si legge nel messaggio dell'Inps degli scorsi giorni, quindi, appare come una clamorosa retromarcia, che cancella 50 anni di lavoro sull'inclusione. Tanto che la prassi da adottare ora, oltre a richiedere necessariamente un nuovo intervento legislativo per mettere le cose a posto, rischia di porsi in contrasto addirittura con l’articolo 3 della Costituzione italiana, che impone di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l'eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Diverse associazioni nazionali, come CoorDown e Uniamo – Federazione italiana delle associazioni delle persone con malattie rare (Fimr), hanno deciso di scrivere un appello unanime alle massime istituzioni politiche, per denunciare le pesanti conseguenze sociali che inevitabilmente esploderanno. "In precedenza – si legge nell'appello – secondo l'Inps per "inattività lavorativa" si applicavano requisiti più favorevoli previsti per l'iscrizione alle liste di collocamento, che ammettono la possibilità di incassi da lavoro dipendente fino a 8.145 euro annui e di 4.800 euro in caso di lavoro autonomo, quindi limiti ben più ampi. Si potevano svolgere piccoli lavori, entro il limite di 4.931 euro annui senza perdere l’assegno. Ora non è più possibile", denunciano le associazioni. "Si tratta di una situazione inaccettabile per più di una ragione - sostiene invece la sottosegretaria all'Economia Maria Cecilia Guerra (Leu) -. La grave invalidità di cui si parla non può comportare il confinamento nella solitudine della inattività; e nemmeno la condanna a una povertà, solo in parte alleviata dall’indennità che si riceve. Per non parlare della rinuncia ad ogni tipo di indipendenza economica. Occorre intervenire immediatamente per correggere l’equivoco creato dalla norma del 1971 e ripristinare la compatibilità sino ad ora ammessa". Sullo stesso tono anche l'intervento della Cgil nazionale, che fa sapere tramite i responsabili per le politiche della previdenza e della disabilità, Ezio Cigna e Nina Daita, che la novità dell'Inps "rischia di essere dirompente tra le migliaia di famiglie che si trovano ad affrontare quotidianamente problemi di salute e di invalidità. Si tratta di una cosa molto grave, poiché vengono colpiti i più fragili, coloro che hanno già pagato duramente le conseguenze dell'emergenza sanitaria. Le attività di queste persone con disabilità sono attività terapeutiche o formative e con piccoli compensi, che difficilmente superano il tetto previsto. Togliere l'assegno di invalidità alle famiglie è un atto ingiusto".
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