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Home » Scienze e culture » Siamo bravi o è un’illusione? Uno studio individua i circuiti neurali della competenza e della consapevolezza

Siamo bravi o è un’illusione? Uno studio individua i circuiti neurali della competenza e della consapevolezza

Un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna ha pubblicato i risultati di un esperimento in cui sono state utilizzate tecniche di neurostimolazione non invasiva

Maurizio Costanzo
8 Novembre 2022
Due network distinti regolano le nostre abilità e la consapevolezza che abbiamo di esse

Due network distinti regolano le nostre abilità e la consapevolezza che abbiamo di esse

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Perché il livello delle nostre abilità e la consapevolezza che ne abbiamo non sempre corrispondono? La risposta arriva da un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna, che per trovare una risposta ha utilizzato una serie di tecniche di neurostimolazione non invasiva. Si è giunti così a scoprire che si sono due network cerebrali separati: il primo è responsabile delle nostre capacità “oggettive”, mentre il secondo è legato alla consapevolezza “soggettiva” di queste nostre capacità. Per fare un esempio: c’è chi è convinto di essere un grande cantante, ma non riesce a fare a meno di stonare. E c’è chi è convinto di non saper cantare, ma una volta messo alla prova rivela invece ottime capacità canore.

Nella nostra esperienza quotidiana, questi due meccanismi sono di solito integrati: scopriamo ora però che vengono generati da circuiti neurali diversi, i quali si scambiano continuamente informazioni. I risultati – pubblicati sulla rivista PLOS Biology – mostrano che c’è una dissociazione, a livello cerebrale, tra due network neurali distinti. “Il nostro studio mette in evidenza per la prima volta come l’acquisizione di competenze da un lato, e la consapevolezza delle proprie abilità dall’altro, siano sono aspetti dissociabili della nostra esperienza”, spiega Paolo Di Luzio, primo autore dello studio, realizzato presso il Centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell’Università di Bologna, al Campus di Cesena. “I due network che abbiamo identificato intervengono su aspetti diversi dei nostri processi percettivi e decisionali, e questo potrebbe spiegare perché non sempre competenza e consapevolezza vanno di pari passo”. In passato, il gruppo di ricerca dell’Alma Mater era già riuscito a dimostrare che è possibile migliorare artificialmente le nostre capacità cognitive (ad esempio la capacità di riconoscere oggetti in movimento), stimolando ripetutamente l’area cerebrale responsabile della percezione del movimento (area V5) e l’area che riceve il primo input visivo (area V1). “Il nuovo obiettivo era capire se la consapevolezza che abbiamo delle nostre capacità fosse legata allo stesso network cerebrale o ad un secondo network distinto”.

C’è chi è convinto di essere un grande cantante, ma in  realtà stona, e chi è convinto di non saper cantare ma se messo alla prova rivela ottime capacità 

Per farlo, gli studiosi hanno messo a punto un esperimento che ha coinvolto 51 persone. Partendo da un insieme di punti in movimento presentati su uno schermo, ai partecipanti è stato prima chiesto di identificare se i punti si muovessero in modo coerente verso destra o verso sinistra, e in seguito è stato chiesto loro di valutare quanto erano sicuri delle risposte date. I partecipanti, però, hanno eseguito i compiti richiesti in tre distinte condizioni di neurostimolazione non invasiva. Nella prima condizione è stata testata la funzione del network già individuato in passato, che coinvolge l’area cerebrale responsabile per la percezione del movimento (area V5) e l’area che riceve il primo input visivo (area V1). Nella seconda condizione è stato invece testato il coinvolgimento di un altro network che collega l’area che riceve il primo input visivo (area V1) con l’area parietale, nota come IPS. La terza condizione era infine quella di controllo.

“In linea con i nostri studi precedenti, l’esperimento ci ha permesso innanzitutto di confermare che la stimolazione del network che avevamo già individuato (V5-V1) aumenta la capacità che i soggetti hanno di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento”, dice Alessio Avenanti, professore al Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “Al contrario, la stimolazione del secondo network, quello che coinvolge l’area che riceve il primo input visivo (area V1) e l’area parietale, non migliora la capacità dei soggetti di svolgere correttamente il compito richiesto”. Se passiamo, però, dalla valutazione oggettiva delle capacità di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento al livello di consapevolezza che i partecipanti avevano rispetto ai risultati ottenuti, il quadro dei risultati risulta totalmente invertito. “Abbiamo visto che la stimolazione del secondo network, quello tra l’area parietale e l’area V1, migliora la consapevolezza che i partecipanti hanno della loro performance, senza modificare i risultati della prestazione in sé”, conferma Avenanti. “E, al contrario, la stimolazione del primo network (V5-V1) non migliora il livello di consapevolezza soggettiva della performance dei partecipanti, pur migliorando oggettivamente i risultati finali”.

“Questo studio dimostra per la prima volta che l’abilità percettiva da un lato e la formazione della consapevolezza della propria prestazione dall’altro sono frutto di meccanismi indipendenti“, conferma il professor Vincenzo Romei, che ha coordinato la ricerca presso il centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell’Università di Bologna. “Il modo con cui questi due meccanismi si influenzano l’uno con l’altro rimane però una questione aperta, e di estrema rilevanza per la comprensione della complessità del comportamento umano”. Essere consapevoli delle proprie capacità può infatti rivelarsi vantaggioso nell’interazione con il mondo esterno: se sappiamo di essere stonati evitiamo di esibirci in pubblico, e al contrario se sappiamo suonare molto bene il pianoforte ci esibiamo volentieri. Questa rappresentazione interna delle nostre capacità non è però pensata per essere fedele alla realtà, ma per ottimizzare le nostre capacità di adattamento: se fin da piccoli i nostri genitori ci dicono che cantiamo benissimo, noi possiamo finire per convincercene anche se non arrivano altre conferme, e chi la pensa diversamente è un invidioso. “Possiamo scegliere una rappresentazione interna del mondo che non corrisponde ad una rappresentazione fedele della realtà, se questa scelta è per noi la meno costosa e la più funzionale al nostro adattamento: in questi casi l’integrazione tra elaborazione del segnale e modello interno tendono a dissociarsi, piuttosto che a integrarsi”, dice in conclusione Romei. “Il riconoscimento di tali dissociazioni a livello comportamentale e neurale potrebbe portare all’identificazione di diversi profili cognitivi e in casi più estremi anche di condizioni psichiatriche”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS Biology con il titolo “Human perceptual and metacognitive decision-making rely on distinct brain networks”. Gli autori sono Paolo Di Luzio, Luca Tarasi, Alessio Avenanti e Vincenzo Romei del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, Campus di Cesena, insieme a Juha Silvanto della University of Surrey (Regno Unito).

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  • Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Il suo romanzo “La guerra di H”, un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti.

L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet
Perché il livello delle nostre abilità e la consapevolezza che ne abbiamo non sempre corrispondono? La risposta arriva da un gruppo di studiosi dell’Università di Bologna, che per trovare una risposta ha utilizzato una serie di tecniche di neurostimolazione non invasiva. Si è giunti così a scoprire che si sono due network cerebrali separati: il primo è responsabile delle nostre capacità "oggettive", mentre il secondo è legato alla consapevolezza “soggettiva” di queste nostre capacità. Per fare un esempio: c’è chi è convinto di essere un grande cantante, ma non riesce a fare a meno di stonare. E c’è chi è convinto di non saper cantare, ma una volta messo alla prova rivela invece ottime capacità canore. Nella nostra esperienza quotidiana, questi due meccanismi sono di solito integrati: scopriamo ora però che vengono generati da circuiti neurali diversi, i quali si scambiano continuamente informazioni. I risultati – pubblicati sulla rivista PLOS Biology – mostrano che c’è una dissociazione, a livello cerebrale, tra due network neurali distinti. "Il nostro studio mette in evidenza per la prima volta come l’acquisizione di competenze da un lato, e la consapevolezza delle proprie abilità dall’altro, siano sono aspetti dissociabili della nostra esperienza”, spiega Paolo Di Luzio, primo autore dello studio, realizzato presso il Centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell’Università di Bologna, al Campus di Cesena. "I due network che abbiamo identificato intervengono su aspetti diversi dei nostri processi percettivi e decisionali, e questo potrebbe spiegare perché non sempre competenza e consapevolezza vanno di pari passo”. In passato, il gruppo di ricerca dell'Alma Mater era già riuscito a dimostrare che è possibile migliorare artificialmente le nostre capacità cognitive (ad esempio la capacità di riconoscere oggetti in movimento), stimolando ripetutamente l'area cerebrale responsabile della percezione del movimento (area V5) e l'area che riceve il primo input visivo (area V1). "Il nuovo obiettivo era capire se la consapevolezza che abbiamo delle nostre capacità fosse legata allo stesso network cerebrale o ad un secondo network distinto".
C’è chi è convinto di essere un grande cantante, ma in  realtà stona, e chi è convinto di non saper cantare ma se messo alla prova rivela ottime capacità 
Per farlo, gli studiosi hanno messo a punto un esperimento che ha coinvolto 51 persone. Partendo da un insieme di punti in movimento presentati su uno schermo, ai partecipanti è stato prima chiesto di identificare se i punti si muovessero in modo coerente verso destra o verso sinistra, e in seguito è stato chiesto loro di valutare quanto erano sicuri delle risposte date. I partecipanti, però, hanno eseguito i compiti richiesti in tre distinte condizioni di neurostimolazione non invasiva. Nella prima condizione è stata testata la funzione del network già individuato in passato, che coinvolge l'area cerebrale responsabile per la percezione del movimento (area V5) e l'area che riceve il primo input visivo (area V1). Nella seconda condizione è stato invece testato il coinvolgimento di un altro network che collega l'area che riceve il primo input visivo (area V1) con l'area parietale, nota come IPS. La terza condizione era infine quella di controllo. "In linea con i nostri studi precedenti, l'esperimento ci ha permesso innanzitutto di confermare che la stimolazione del network che avevamo già individuato (V5-V1) aumenta la capacità che i soggetti hanno di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento", dice Alessio Avenanti, professore al Dipartimento di Psicologia "Renzo Canestrari" dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. "Al contrario, la stimolazione del secondo network, quello che coinvolge l'area che riceve il primo input visivo (area V1) e l'area parietale, non migliora la capacità dei soggetti di svolgere correttamente il compito richiesto". Se passiamo, però, dalla valutazione oggettiva delle capacità di riconoscere accuratamente la direzione di stimoli in movimento al livello di consapevolezza che i partecipanti avevano rispetto ai risultati ottenuti, il quadro dei risultati risulta totalmente invertito. "Abbiamo visto che la stimolazione del secondo network, quello tra l'area parietale e l'area V1, migliora la consapevolezza che i partecipanti hanno della loro performance, senza modificare i risultati della prestazione in sé", conferma Avenanti. "E, al contrario, la stimolazione del primo network (V5-V1) non migliora il livello di consapevolezza soggettiva della performance dei partecipanti, pur migliorando oggettivamente i risultati finali". "Questo studio dimostra per la prima volta che l'abilità percettiva da un lato e la formazione della consapevolezza della propria prestazione dall'altro sono frutto di meccanismi indipendenti", conferma il professor Vincenzo Romei, che ha coordinato la ricerca presso il centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell'Università di Bologna. "Il modo con cui questi due meccanismi si influenzano l'uno con l'altro rimane però una questione aperta, e di estrema rilevanza per la comprensione della complessità del comportamento umano". Essere consapevoli delle proprie capacità può infatti rivelarsi vantaggioso nell'interazione con il mondo esterno: se sappiamo di essere stonati evitiamo di esibirci in pubblico, e al contrario se sappiamo suonare molto bene il pianoforte ci esibiamo volentieri. Questa rappresentazione interna delle nostre capacità non è però pensata per essere fedele alla realtà, ma per ottimizzare le nostre capacità di adattamento: se fin da piccoli i nostri genitori ci dicono che cantiamo benissimo, noi possiamo finire per convincercene anche se non arrivano altre conferme, e chi la pensa diversamente è un invidioso. "Possiamo scegliere una rappresentazione interna del mondo che non corrisponde ad una rappresentazione fedele della realtà, se questa scelta è per noi la meno costosa e la più funzionale al nostro adattamento: in questi casi l'integrazione tra elaborazione del segnale e modello interno tendono a dissociarsi, piuttosto che a integrarsi", dice in conclusione Romei. "Il riconoscimento di tali dissociazioni a livello comportamentale e neurale potrebbe portare all'identificazione di diversi profili cognitivi e in casi più estremi anche di condizioni psichiatriche". Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS Biology con il titolo “Human perceptual and metacognitive decision-making rely on distinct brain networks”. Gli autori sono Paolo Di Luzio, Luca Tarasi, Alessio Avenanti e Vincenzo Romei del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, Campus di Cesena, insieme a Juha Silvanto della University of Surrey (Regno Unito).
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