“Lalla, come si chiamano i nostri figli?” E’ l’inizio de “
Il mio nome è Alzheimer”, il docufilm, girato in presa diretta nel
Villaggio Emanuele di Roma, vincitore del premio speciale della giuria, al Ferrara Film Festival.
Raffaella Regoli e
Antonello Sette sono gli autori e i registi del racconto commovente e ironico dei “senza memoria” con la vita dentro. Le splendide immagini sono di
Michelangelo Gratton e
Beatrice Palladini Iemma, che ha curato anche il montaggio. Il documentario, prodotto dalla D4 per la Fondazione Roma, viene presentato il 20 settembre nell’arena all’aperto della Casa del Cinema di Roma a
Villa Borghese, in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer. La proiezione, prevista per le 20, sarà preceduta da un dibattito con il presidente onorario della Fondazione Roma,
Emmanuele Emanuele, i registi, con la partecipazione della psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino
Maria Rita Parsi, di familiari e operatori del Villaggio.
"Senza mediazioni né rimozioni"
“Per la prima volta”, dicono gli autori Raffaella Regoli e Antonello Sette, “possiamo
ascoltare, senza mediazioni e rimozioni, il racconto delle donne e degli uomini colpiti da una malattia terribile e apparentemente senza speranza. Per scoprire che l’unica cura conosciuta resta l’amore”. Le immagini, le voci, le canzoni, si entra dentro il Villaggio
in presa diretta, per sfiorare la vita quotidiana dei malati di Alzheimer. E
l’amore, nella sua forma più vera e struggente, è il leitmotiv di tutto il film. La stessa ragione che ha spinto il presidente Emmanuele Emanuele, dopo non poche difficoltà, a realizzare il suo sogno, quello di “
essere vicino agli ultimi degli ultimi”, come lui stesso racconta nel film, per far nascere questo
Villaggio che porta il suo nome, sul
modello olandese. Un progetto
unico in Italia e
interamente gratuito.
"Le donerei metà del mio cervello"
"Vi affezionerete come noi agli ospiti, ai loro familiari, agli operatori, perché
tutto si può perdere con la memoria, finanche i nomi dei figli, del marito, della moglie, di se stessi, ma non quel filo di
sentimenti senza fine. Bruno va trovare Katy tutti i giorni. “Se potessi”, spiega commosso, “mi farei operare e
le regalerei mezzo cervello”. E lei uscendo per un attimo dal torpore che non le cancella l’anima, gli risponde: “Tu ti priveresti di una tua cosa per me?”. E poi l’amore di
Simona per il padre
Enzo, che un tempo era la sua guida e ora ha solo un disperato bisogno di lei, anche se non sa che quella donna è sua figlia. E
Riccardo che si commuove davanti ai disegni che
Maria Clara faceva quando era un’apprezzata modista. “E’ dolcissima”, ripete fra le lacrime. E lei gli chiede, ansiosa come una donna ancora innamorata: “Davvero?”.
"Io ci sono. E sono vivo"
E poi c’è il contesto, la vita di tutti i giorni, gli operatori che si prodigano oltre la professionalità, perché “l’unica cura è l’amore”, le attività: la musica, la danza, il teatro, la pittura, la palestra, il bar, il parrucchiere, il minimarket dove si fa la spesa, il pranzo, le case, divise secondo
tre tipologie, che ricalcano le esperienze di tante vite un tempo diverse:
familiare, urbana, cosmopolita. E soprattutto ci sono loro, i veri protagonisti del docufilm, i malati di Alzheimer, che
si raccontano con ironia, da strappare più di un sorriso, che raccontano spezzoni di
vita, di
felicità, di
dolore e di
speranza. Quella che resiste alla fatica di dover vivere nonostante la perdita più pesante: quella della propria storia e della propria identità. Il docufilm “Il mio nome è Alzheimer” restituisce a tutti loro un Nome, una voce, la dignità, la possibilità di poter ancora concepire e gridare “
Io ci sono, e sono vivo”