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Home » Scienze e culture » I senza memoria con la vita dentro. “Il mio nome è Alzheimer”, docufilm “senza mediazioni”

I senza memoria con la vita dentro. “Il mio nome è Alzheimer”, docufilm “senza mediazioni”

L'opera di Raffaella Regoli e Antonello Sette, autori e i registi, viene presentata a Roma in occasione della Giornata Mondiale dell'Alzhheimer. Girata "senza tagli" fra ospiti, familiari e personale del Villaggio Emanuele, progetto unico in Italia, realizzato sul modello olandese di residenza per pazienti con una delle sindromi più diffuse e in parte meno conosciute

Federico Martini
20 Settembre 2021
Dementia and Occupational Therapy - Home caregiver and senior adult woman

Dementia and Occupational Therapy - Home caregiver and senior adult woman

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“Lalla, come si chiamano i nostri figli?” E’ l’inizio de “Il mio nome è Alzheimer”, il docufilm, girato in presa diretta nel Villaggio Emanuele di Roma, vincitore del premio speciale della giuria, al Ferrara Film Festival. Raffaella Regoli e Antonello Sette sono gli autori e i registi del racconto commovente e ironico dei “senza memoria” con la vita dentro. Le splendide immagini sono di Michelangelo Gratton e Beatrice Palladini Iemma, che ha curato anche il montaggio. Il documentario, prodotto dalla D4 per la Fondazione Roma, viene presentato il 20 settembre nell’arena all’aperto della Casa del Cinema di Roma a Villa Borghese, in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer. La proiezione, prevista per le 20, sarà preceduta da un dibattito con il presidente onorario della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, i registi, con la partecipazione della psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino Maria Rita Parsi, di familiari e operatori del Villaggio.

“Senza mediazioni né rimozioni”

“Per la prima volta”, dicono gli autori Raffaella Regoli e Antonello Sette, “possiamo ascoltare, senza mediazioni e rimozioni, il racconto delle donne e degli uomini colpiti da una malattia terribile e apparentemente senza speranza. Per scoprire che l’unica cura conosciuta resta l’amore”.
Le immagini, le voci, le canzoni, si entra dentro il Villaggio in presa diretta, per sfiorare la vita quotidiana dei malati di Alzheimer. E l’amore, nella sua forma più vera e struggente, è il leitmotiv di tutto il film. La stessa ragione che ha spinto il presidente Emmanuele Emanuele, dopo non poche difficoltà, a realizzare il suo sogno, quello di “essere vicino agli ultimi degli ultimi”, come lui stesso racconta nel film, per far nascere questo Villaggio che porta il suo nome, sul modello olandese. Un progetto unico in Italia e interamente gratuito.

“Le donerei metà del mio cervello”

“Vi affezionerete come noi agli ospiti, ai loro familiari, agli operatori, perché tutto si può perdere con la memoria, finanche i nomi dei figli, del marito, della moglie, di se stessi, ma non quel filo di sentimenti senza fine. Bruno va trovare Katy tutti i giorni. “Se potessi”, spiega commosso, “mi farei operare e le regalerei mezzo cervello”. E lei uscendo per un attimo dal torpore che non le cancella l’anima, gli risponde: “Tu ti priveresti di una tua cosa per me?”.

E poi l’amore di Simona per il padre Enzo, che un tempo era la sua guida e ora ha solo un disperato bisogno di lei, anche se non sa che quella donna è sua figlia.
E Riccardo che si commuove davanti ai disegni che Maria Clara faceva quando era un’apprezzata modista. “E’ dolcissima”, ripete fra le lacrime. E lei gli chiede, ansiosa come una donna ancora innamorata: “Davvero?”.

“Io ci sono. E sono vivo”

E poi c’è il contesto, la vita di tutti i giorni, gli operatori che si prodigano oltre la professionalità, perché “l’unica cura è l’amore”, le attività: la musica, la danza, il teatro, la pittura, la palestra, il bar, il parrucchiere, il minimarket dove si fa la spesa, il pranzo, le case, divise secondo tre tipologie, che ricalcano le esperienze di tante vite un tempo diverse: familiare, urbana, cosmopolita. E soprattutto ci sono loro, i veri protagonisti del docufilm, i malati di Alzheimer, che si raccontano con ironia, da strappare più di un sorriso, che raccontano spezzoni di vita, di felicità, di dolore e di speranza. Quella che resiste alla fatica di dover vivere nonostante la perdita più pesante: quella della propria storia e della propria identità.

Il docufilm “Il mio nome è Alzheimer” restituisce a tutti loro un Nome, una voce, la dignità, la possibilità di poter ancora concepire e gridare “Io ci sono, e sono vivo”

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  • "È passato un mese dall’incidente, e ogni giorno, penso costantemente a come le cose possano cambiare rapidamente e drasticamente, in un batter d’occhio, e in modi che non avrei mai potuto immaginare.”

Il protagonista di questa vicenda è Leonardo Lotto, studente aostano, che la mattina del 23 febbraio è rimasto vittima di un incidente in mare. Il ragazzo era a Melbourne con un gruppo di amici quando dopo un tuffo tra le onde sul bagnasciuga ha picchiato violentemente la testa contro il fondale di sabbia. In quel momento è iniziato l’incubo: prima gli amici lo hanno aiutato a uscire dall’acqua, poi la corsa disperata in ospedale. Dopo l’intervento d’urgenza, è arrivato il duro responso: “Frattura delle vertebre C3 e C5, spina dorsale danneggiata". Leonardo Lotto è paralizzato dalla testa in giù e non potrà più camminare.

"Continuerò a lottare e farò tutto il necessario. A volte cadrò, ma alla fine mi rialzerò, vivendo sempre giorno per giorno, superando i momenti più bui”.

Dopo il ricovero all’Alfred Hospital di Melbourne, in Australia, “le sue condizioni sono stabili, e ora è pronto per iniziare il suo lungo percorso riabilitativo a Milano con tutte le energie e la positività che hanno sempre caratterizzato la sua personalità”. E gli amici, proprio per sostenere le cure, hanno organizzato una raccolta fondi online.

✍ Barbara Berti 

#lucenews #lucelanazione #australia #leonardolotto
  • È quanto emerge da uno studio su 1.700 ragazzi toscani realizzato dal Meyer center for health and happiness, di cui è responsabile Manila Bonciani, insieme all’Università di Firenze, e presentato in occasione della Giornata internazionale della felicità nel corso di un evento organizzato al Meyer health campus di Firenze.

Cosa gli adolescenti pensano della felicità? Come la definiscono? Cosa li rende felici? Queste alcune domande dello studio. Dai risultati emerge che i ragazzi spesso non riescono a dare neanche una definizione della felicità. Tuttavia ne sottolineano la rilevanza e la transitorietà. 

Dalla ricerca emerge così che la manifestazione della felicità si declina in sei dimensioni:
➡ La più rilevante che emerge è quella dell’interesse sociale, data dall’importanza che viene attribuita dai ragazzi alle relazioni interpersonali.
➡ La seconda è l’espressione della soddisfazione verso la propria vita, del fare le cose che piacciono loro.
➡ La terza è vivere emozioni positive, rilevanza che si riscontra anche nelle parole dei ragazzi che esprimono in maniera importante l’idea di essere felici quando sono senza preoccupazioni o pressioni che avvertono frequentemente, come anche quella scolastica.
➡ La quarta è il senso di autorealizzazione insieme a quello di padronanza delle varie situazioni che si trovano ad affrontare.
➡ Infine in misura minore la loro felicità è legata all’ottimismo, cui gli stessi adolescenti non attribuiscono grande rilevanza, sebbene rappresenti la sesta dimensione della felicità identificata.

Gli adolescenti che risultano più felici si caratterizzano per essere più empatici, esprimere un atteggiamento cooperativo, avere maggiore autoconsapevolezza, saper gestire meglio le emozioni e risolvere le situazioni problematiche, avere una buona immagine di sé. 

Ancora i maschi risultano essere più felici delle femmine a eccezione della dimensione relazionale e sociale della felicità che non si differenzia in maniera significativa tra i due gruppi, e le fasce di età più piccole, fino ai 15 anni, esprimono maggiormente di essere felici rispetto ai ragazzi di 16-17 o maggiorenni.

#felicità #ospedalemeyer #adolescenza
“Lalla, come si chiamano i nostri figli?” E’ l’inizio de “Il mio nome è Alzheimer”, il docufilm, girato in presa diretta nel Villaggio Emanuele di Roma, vincitore del premio speciale della giuria, al Ferrara Film Festival. Raffaella Regoli e Antonello Sette sono gli autori e i registi del racconto commovente e ironico dei “senza memoria” con la vita dentro. Le splendide immagini sono di Michelangelo Gratton e Beatrice Palladini Iemma, che ha curato anche il montaggio. Il documentario, prodotto dalla D4 per la Fondazione Roma, viene presentato il 20 settembre nell’arena all’aperto della Casa del Cinema di Roma a Villa Borghese, in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer. La proiezione, prevista per le 20, sarà preceduta da un dibattito con il presidente onorario della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, i registi, con la partecipazione della psicoterapeuta e presidente della Fondazione Movimento Bambino Maria Rita Parsi, di familiari e operatori del Villaggio.

"Senza mediazioni né rimozioni"

“Per la prima volta”, dicono gli autori Raffaella Regoli e Antonello Sette, “possiamo ascoltare, senza mediazioni e rimozioni, il racconto delle donne e degli uomini colpiti da una malattia terribile e apparentemente senza speranza. Per scoprire che l’unica cura conosciuta resta l’amore”. Le immagini, le voci, le canzoni, si entra dentro il Villaggio in presa diretta, per sfiorare la vita quotidiana dei malati di Alzheimer. E l’amore, nella sua forma più vera e struggente, è il leitmotiv di tutto il film. La stessa ragione che ha spinto il presidente Emmanuele Emanuele, dopo non poche difficoltà, a realizzare il suo sogno, quello di “essere vicino agli ultimi degli ultimi”, come lui stesso racconta nel film, per far nascere questo Villaggio che porta il suo nome, sul modello olandese. Un progetto unico in Italia e interamente gratuito.

"Le donerei metà del mio cervello"

"Vi affezionerete come noi agli ospiti, ai loro familiari, agli operatori, perché tutto si può perdere con la memoria, finanche i nomi dei figli, del marito, della moglie, di se stessi, ma non quel filo di sentimenti senza fine. Bruno va trovare Katy tutti i giorni. “Se potessi”, spiega commosso, “mi farei operare e le regalerei mezzo cervello”. E lei uscendo per un attimo dal torpore che non le cancella l’anima, gli risponde: “Tu ti priveresti di una tua cosa per me?”. E poi l’amore di Simona per il padre Enzo, che un tempo era la sua guida e ora ha solo un disperato bisogno di lei, anche se non sa che quella donna è sua figlia. E Riccardo che si commuove davanti ai disegni che Maria Clara faceva quando era un’apprezzata modista. “E’ dolcissima”, ripete fra le lacrime. E lei gli chiede, ansiosa come una donna ancora innamorata: “Davvero?”.

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