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Home » Scienze e culture » La disabilità in famiglia: “Vi racconto come è stato vivere con la mamma affetta da sla. In Italia parlare di dolore e morte è un tabù”

La disabilità in famiglia: “Vi racconto come è stato vivere con la mamma affetta da sla. In Italia parlare di dolore e morte è un tabù”

Dalle prime cadute, segnale della malattia, fino al sorriso prima della morte: Mary, 34 anni racconta la vita vicino alla madre. E svela di esser diventata"malata immaginaria", assumendo posture e cadenze della persona accudita

Cristiana Mariani
22 Aprile 2021
Mature mum and her son are interacting with her disabled daughter who is sitting in a wheelchair. The father is standing behind them preparing lunch.

Mature mum and her son are interacting with her disabled daughter who is sitting in a wheelchair. The father is standing behind them preparing lunch.

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“Vivere anche se sei morto dentro, vivere e sorridere dei guai proprio come non hai fatto mai”. Cantava così Vasco Rossi in un suo celebre successo, ma questo è un principio che fanno proprio anche le famiglie di molti malati. Perché nella società attuale è un tabù tanto parlare del dolore quanto viverlo. E così spesso ci si deve mostrare forti.

“In realtà non si è mai abbastanza forti per reggere l’urto della perdita di un parente”. Mary è una 34enne di Arese, in provincia di Milano. Due anni fa sua madre si è spenta dopo una lunga battaglia contro una malattia degenerativa, una sorta di sclerosi che fa parte del ramo della Sla ovvero la sclerosi laterale amiotrofica. “Mia sorella, che è più grande di me, ricorda molto anche la vita normale con mia madre – racconta Mary -, io ho soprattutto ricordi di lei in ospedale. Quelle corsie erano diventate la nostra seconda casa”. Un percorso difficile, che però non ha avuto subito un nome preciso.

 

Quelle frequenti cadute

“Non c’è stato un momento di inizio definito della malattia – ricorda -. Mia madre ha cominciato a cadere mentre camminava. Le dicevamo di stare attenta, di non essere sempre così sbadata. Poi le cadute si sono fatte più frequenti. E anche in quel caso l’abbiamo rimproverata di scarsa attenzione. Non sapevamo che quello sarebbe stato l’inizio del calvario per tutti noi”. Dopo quelle cadute, la famiglia ha cominciato a fare il “tour” degli ospedali. “Quelli di Milano li conosco tutti – scherza la giovane -. Poi siamo stati a Roma, a Bologna. Abbiamo avuto le diagnosi più disparate. Fino a che un medico che si è preso cura di lei per molto tempo ci ha indirizzati al centro Nemo. Dopo due mesi abbiamo scoperto che si trattava di una malattia degenerativa”.

Il percorso al centro Nemo, ramo dell’ospedale Niguarda di Milano dedicato proprio al trattamento dei pazienti con malattie degenerative, ha rappresentato spesso una boccata d’ossigeno per tutta la famiglia. “Mia madre era contenta quando doveva andare lì, perché non solo stava bene una volta uscita dalle sedute ma aveva anche la sensazione di essere davvero seguita e che il personale fosse davvero attento alle sue esigenze”. L’ironia nella famiglia di Mary non è mai mancata: “Ogni volta le dicevo ‘Mamma, tu quest’anno non puoi morire perché abbiamo tante cose da fare’ e lei ridendo rispondeva che allora avrebbe rimandato. Ci siamo sempre dati forza a vicenda io, mia sorella, nostro padre e anche e soprattutto mia madre”.

 

Si diventa malati immaginari

Già, la forza. La forza che viene da se stessi e dalla famiglia, visto che le istituzioni non sembrano ancora aver compreso appieno il dolore che vive la famiglia di un malato. “Spesso diventiamo noi stessi malati immaginari stando accanto a parenti con disturbi gravi – sottolinea la 34enne di Arese -. Negli ultimi tempi stavo assumendo la postura di mia madre, parlavo più lentamente come faceva lei. Si tende a diventare come la persona che si sta accudendo. Questo perché non esiste un percorso che accompagni le famiglie, un percorso di sostegno vero”. In Italia esistono centri di eccellenza, come Nemo a Milano, per il trattamento delle malattie degenerative, ma spesso l’aspetto psicologico di chi sta accanto ai pazienti passa in secondo piano. “In mezz’ora ho saputo che mia madre stava morendo, ho chiesto ai medici come sarebbe morta perché speravo che mi dicessero che non avrebbe sofferto e poi sono tornata nella sua stanza  inventandomi un sorriso che non avrebbe avuto motivazione di esistere. Perché non volevo farmi vedere fragile da lei nei suoi ultimi giorni di vita” sottolinea Mary.

Perché se è vero che vita e morte portano con sé il medesimo sconvolgimento e il medesimo “pugno allo stomaco”, è altrettanto vero che della vita si parla in maniera diffusa mentre sulla morte si tende a far calare una coltre impenetrabile di silenzio. La morte è un tabù. In Italia più che in altri Paesi. La sofferenza è un tabù: “Abbiamo combattuto tanto per salvare mia madre, ma nessuno si è mai interessato a come stessimo noi. Siamo stati fortunati perché abbiamo trovato tanti medici che ci hanno aiutato fino all’ultimo, però abbiamo anche trovato chi, alla mia sofferenza subito dopo la scomparsa di mia madre, ha risposto “Non possiamo più fare niente, non vede che è morta?“. In Italia manca la cultura del dolore, mancano reti di sostegno vero e continuo che non solo accompagnino la famiglia dei malati durante la vita del paziente, ma che diano anche un supporto dopo la sua morte, quando il sipario si chiude.

 

Un cortometraggio sulla fragilità

Anche la disabilità è spesso un tabù. Ciò che riguarda lo ‘stare male’ viene guardato con occhi di pietismo. O non viene guardato affatto. “Il primo passo è fare in modo che la disabilità non sia disabilità – sottolinea -. Mia madre era in carrozzina e al supermercato rifiutava di rivolgersi alla cassa con priorità. Diceva “Io sono seduta, perché dovrei avere la priorità? Non ho difficoltà a stare in coda” ed era vero. Lei non voleva essere trattata diversamente dalle altre persone, perché non si sentiva diversa. Amava vestirsi bene ed essere truccata e pettinata a dovere. Perché ci si deve meravigliare se una persona disabile ha necessità che abbiamo tutti? Se un disabile non può andare in giro, non può essere guardato in maniera normale in un negozio, non può prendere la metropolitana, allora stiamo sbagliando tutto”.

Ora Mary ha un progetto: quello di comunicare la situazione in cui vive chi ha a che fare con un malato. “La mia idea è quella di realizzare un cortometraggio non tanto su quello che è successo a me, ma su come chi sta accanto a un malato diventi a sua volta spesso un malato immaginario. Vorrei rappresentare questa condizione di fragilità”.

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

#lucenews #lucelanazione #secondhand #vintage
  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

#lucenews #isaacortman #minnesota #boyscout
"Vivere anche se sei morto dentro, vivere e sorridere dei guai proprio come non hai fatto mai". Cantava così Vasco Rossi in un suo celebre successo, ma questo è un principio che fanno proprio anche le famiglie di molti malati. Perché nella società attuale è un tabù tanto parlare del dolore quanto viverlo. E così spesso ci si deve mostrare forti. "In realtà non si è mai abbastanza forti per reggere l'urto della perdita di un parente". Mary è una 34enne di Arese, in provincia di Milano. Due anni fa sua madre si è spenta dopo una lunga battaglia contro una malattia degenerativa, una sorta di sclerosi che fa parte del ramo della Sla ovvero la sclerosi laterale amiotrofica. "Mia sorella, che è più grande di me, ricorda molto anche la vita normale con mia madre - racconta Mary -, io ho soprattutto ricordi di lei in ospedale. Quelle corsie erano diventate la nostra seconda casa". Un percorso difficile, che però non ha avuto subito un nome preciso.  

Quelle frequenti cadute

"Non c'è stato un momento di inizio definito della malattia - ricorda -. Mia madre ha cominciato a cadere mentre camminava. Le dicevamo di stare attenta, di non essere sempre così sbadata. Poi le cadute si sono fatte più frequenti. E anche in quel caso l'abbiamo rimproverata di scarsa attenzione. Non sapevamo che quello sarebbe stato l'inizio del calvario per tutti noi". Dopo quelle cadute, la famiglia ha cominciato a fare il "tour" degli ospedali. "Quelli di Milano li conosco tutti - scherza la giovane -. Poi siamo stati a Roma, a Bologna. Abbiamo avuto le diagnosi più disparate. Fino a che un medico che si è preso cura di lei per molto tempo ci ha indirizzati al centro Nemo. Dopo due mesi abbiamo scoperto che si trattava di una malattia degenerativa". Il percorso al centro Nemo, ramo dell'ospedale Niguarda di Milano dedicato proprio al trattamento dei pazienti con malattie degenerative, ha rappresentato spesso una boccata d'ossigeno per tutta la famiglia. "Mia madre era contenta quando doveva andare lì, perché non solo stava bene una volta uscita dalle sedute ma aveva anche la sensazione di essere davvero seguita e che il personale fosse davvero attento alle sue esigenze". L'ironia nella famiglia di Mary non è mai mancata: "Ogni volta le dicevo 'Mamma, tu quest'anno non puoi morire perché abbiamo tante cose da fare' e lei ridendo rispondeva che allora avrebbe rimandato. Ci siamo sempre dati forza a vicenda io, mia sorella, nostro padre e anche e soprattutto mia madre".  

Si diventa malati immaginari

Già, la forza. La forza che viene da se stessi e dalla famiglia, visto che le istituzioni non sembrano ancora aver compreso appieno il dolore che vive la famiglia di un malato. "Spesso diventiamo noi stessi malati immaginari stando accanto a parenti con disturbi gravi - sottolinea la 34enne di Arese -. Negli ultimi tempi stavo assumendo la postura di mia madre, parlavo più lentamente come faceva lei. Si tende a diventare come la persona che si sta accudendo. Questo perché non esiste un percorso che accompagni le famiglie, un percorso di sostegno vero". In Italia esistono centri di eccellenza, come Nemo a Milano, per il trattamento delle malattie degenerative, ma spesso l'aspetto psicologico di chi sta accanto ai pazienti passa in secondo piano. "In mezz'ora ho saputo che mia madre stava morendo, ho chiesto ai medici come sarebbe morta perché speravo che mi dicessero che non avrebbe sofferto e poi sono tornata nella sua stanza  inventandomi un sorriso che non avrebbe avuto motivazione di esistere. Perché non volevo farmi vedere fragile da lei nei suoi ultimi giorni di vita" sottolinea Mary. Perché se è vero che vita e morte portano con sé il medesimo sconvolgimento e il medesimo "pugno allo stomaco", è altrettanto vero che della vita si parla in maniera diffusa mentre sulla morte si tende a far calare una coltre impenetrabile di silenzio. La morte è un tabù. In Italia più che in altri Paesi. La sofferenza è un tabù: "Abbiamo combattuto tanto per salvare mia madre, ma nessuno si è mai interessato a come stessimo noi. Siamo stati fortunati perché abbiamo trovato tanti medici che ci hanno aiutato fino all'ultimo, però abbiamo anche trovato chi, alla mia sofferenza subito dopo la scomparsa di mia madre, ha risposto "Non possiamo più fare niente, non vede che è morta?". In Italia manca la cultura del dolore, mancano reti di sostegno vero e continuo che non solo accompagnino la famiglia dei malati durante la vita del paziente, ma che diano anche un supporto dopo la sua morte, quando il sipario si chiude.  

Un cortometraggio sulla fragilità

Anche la disabilità è spesso un tabù. Ciò che riguarda lo 'stare male' viene guardato con occhi di pietismo. O non viene guardato affatto. "Il primo passo è fare in modo che la disabilità non sia disabilità - sottolinea -. Mia madre era in carrozzina e al supermercato rifiutava di rivolgersi alla cassa con priorità. Diceva "Io sono seduta, perché dovrei avere la priorità? Non ho difficoltà a stare in coda" ed era vero. Lei non voleva essere trattata diversamente dalle altre persone, perché non si sentiva diversa. Amava vestirsi bene ed essere truccata e pettinata a dovere. Perché ci si deve meravigliare se una persona disabile ha necessità che abbiamo tutti? Se un disabile non può andare in giro, non può essere guardato in maniera normale in un negozio, non può prendere la metropolitana, allora stiamo sbagliando tutto". Ora Mary ha un progetto: quello di comunicare la situazione in cui vive chi ha a che fare con un malato. "La mia idea è quella di realizzare un cortometraggio non tanto su quello che è successo a me, ma su come chi sta accanto a un malato diventi a sua volta spesso un malato immaginario. Vorrei rappresentare questa condizione di fragilità".
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