Dopo il gran clamore scatenato dal loro intervento (qui il video) di quasi un mese fa, su Messenger, le allieve e gli allievi della classe di Lettere della Normale ammettono di aver bisogno di una pausa dal “bagno di notorietà”, stanno smaltendo lo stupore dell’eco seguita alle loro parole. “Siamo appena stati in assemblea tra noi, questa settimana è stata molto piena. Vogliamo prendere tempo per capire cosa faremo nelle prossime settimane e quale tipo di azione politica impostare”, scrivono declinando l’invito di un’intervista. Tante le reazioni al loro J’accuse, ma “dopo la cerimonia, a parte la breve replica del direttore e i tanti e svariati commenti, tutti informali, non abbiamo ancora avuto una risposta istituzionale. Molte persone della Scuola ci hanno scritto per manifestare il loro appoggio o per chiedere un confronto. Sappiamo che il discorso ha suscitato un grande dibattito, e questo era in effetti uno dei nostri obiettivi. Speriamo che non ci si fermi alle reazioni a caldo, ma che nasca una discussione profonda sui temi sollevati”, hanno dichiarato qualche giorno fa.
Dalle femministe al Foglio: le reazioni
“Un grande atto di denuncia” hanno commentato le femministe della Casa della Donna di Pisa “compiuto da tre giovani donne che hanno deciso di rompere quel silenzio cerimonioso per denunciare lo stato dell’accademia italiana, in particolare dei cosiddetti poli dell’eccellenza: cattedrali in un deserto di macerie, sempre più guidati da logiche neoliberiste e inique, che invece di ridurle, accentuano le disuguaglianze sociali e di genere”.
Il Foglio, nel suo occhiello, ha invece tuonato alla “deriva passatista”: “Contro il merito e l’Accademia Neoliberale tirano fuori addirittura gli esami di gruppo ed è subito il ’68. Ma del secolo scorso, non di questo”, imputando agli allievi di aver scelto l’università più selettiva d’Italia, salvo poi “lamentarne l’atmosfera poco amichevole”. Per la classe, infatti, tanto clamore è stato suscitato proprio dal fatto che “a criticare l’eccellenza fossimo proprio noi Eccellenti”. Un’eccellenza che per loro, però, significa avere il privilegio di “informarci, formarci, sensibilizzarci e soprattutto cambiare le cose”.
Perché tre e perché donne
Ferme, documentate, risolute, le tre dottoresse della Normale di Pisa e rappresentanti degli studenti di lettere Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi sono ormai note alle cronache di questi giorni. Meno gli altri 11 colleghi della classe di Lettere Mattia Bellino Borgese, Paolo Bozzi, Alessandro Brizzi, Michele Gammella, Niccolò Izzi, Lorenzo Maselli, Francesco Molinarolo, Cosimo Paravano, Irene Saggese, Eleonora Tioli e Giovanni Tonolo, che hanno scritto insieme a loro il testo e che il 9 luglio erano riuniti nella stessa sala azzurra della Normale per diplomarsi. Il gesto, contro la logica del personalismo, è stato infatti rivendicato fin da subito come collettivo.
La scelta di “tre lettrici” è infatti solo politica:tre “in reazione all’individualismo promosso dall’accademia neoliberale”, donne per “evidenziare un altro enorme problema sistemico: la disparità tra uomini e donne nell’accesso alla carriera universitaria”, ha detto la dottoressa Grossi al microfono.
Normale neoliberale: produttività, competitività, precarizzazione
L’elenco delle criticità viste tra i corridoi della Normale è ampio: scarsa collaborazione tra allievi e docenti e tra la Scuola e l’Università di Pisa (dove i normalisti sono iscritti), maschilismo, carrierismo, enorme pressione sugli studenti, squilibrio di genere nel numero delle studentesse ammesse, come in quello delle professoresse in cattedra, divario territoriale tra Nord e Sud, disabitudine all’impegno e retorica del merito come alibi per creare una competizioni malsana, eccetera eccetera. La causa, però, viene identificata in un preciso e specifico indirizzo di pensiero, quello del “neoliberismo” . Scelta ideologica che è costata alla classe le critiche più dure.
Realtà più complessa delle etichette
“Hanno richiamato giustamente l’attenzione sul sotto-finanziamento dell’università nel paragone con gli altri paesi Ocse; sull’aumento delle posizioni a tempo determinato; sull’ingresso in carriera sempre più tardo che rende impossibile ai giovani studiosi (soprattutto di discipline umanistiche, va precisato) un qualsiasi progetto di vita minimamente fondato; sul discutibilissimo uso dei fondi premiali per i dipartimenti d’eccellenza. Ma mettere questi problemi reali sotto l’etichetta passe-partout dell’ordine ‘neoliberista’ significa non voler vedere il problema nella sua complessità, e accontentarsi di spiegazioni semplici e rassicuranti: la rassicurazione che viene dall’idea di poter separare con nettezza i buoni dai cattivi, e dal sentirsi buoni”, ha scritto Claudio Giunta, professore, ex normalista, docente di Letteratura italiana all’Università di Trento.
Per la classe, però, la cornice culturale delle problematiche resta ed è quella. La Normale, dicono: “si è trasformata in senso neoliberale. È diventata un’azienda in cui la ricerca è indirizzata dalla logica del profitto” e “la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi”, senza guardare invece alla logica della cooperazione e della collaborazione”.
Il rettore Ambrosio: “Non si può ignorare la produttività”
Una critica che il direttore della Normale Luigi Ambrosio in parte incassa: “Come tutte le istituzioni siamo chiamati a rispondere dell’investimento pubblico fatto su di noi e quindi non possiamo e dobbiamo ignorare l’elemento della produttività e delle performance. È però importante limitare la deriva quantitativa degli ultimi anni”, spiega infatti il 30 luglio a Repubblica.
Alla neoliberista Normale le allieve e gli allievi imputano anche la precarizzazione “sistemica e crescente” della forza lavoro all’interno dell’Accademia. “Il personale a tempo determinato è ormai ben maggiore del personale a tempo indeterminato” dice Magnaghi, seguita da Grossi che nel suo intervento denuncia la piaga dei “ritmi della ricerca odierna, quelli per i quali il precariato si vince solo dopo i 40 anni di età e avendo dedicato i precedenti 20 a nient’altro che alle pubblicazioni”.
L’assenza-sconfitta
Sempre tacciando l’accademia di neoliberismo, gli allievi denunciano la spinta alla competitività malsana, alla produttività esasperata, che si respirano tra le aule della Scuola: “C’è un modo di dire molto popolare in queste aule e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua. Ed è così che, pur di non affogare, s’impara a nuotare in fretta. E, tuttavia, oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la scuola. Anche tra i presenti, una buona parte, ha imparato a nuotare solo a prezzo di anni di malessere”. “Vorremmo dirlo qui con chiarezza: non è “grazie a” ma “nonostante” questo principio che siamo arrivati qua”. Sull’abbandono del percorso da parte degli allievi, il direttore Ambrosio risponde: “Sono numeri piccoli, ma “bisogna capire come evitare che la competizione” , definita dallo stesso fisiologica soprattutto in un ambiente ristretto come la Normale, “diventi patologica, aggiungendo comunque che “lo spirito deve essere accompagnare tutti al traguardo”.
La terza via dell’Università per un’accademia che dialoga con la società
Dal pulpito, le allieve e gli allievi, prendendo una posizione – e bisogna riconoscerglielo – loro per primi, chiedono alla Scuola di fare altrettanto. La Normale, scrivono: “da anni sembra ormai aver rinunciato a una presa di posizione esplicita nel dibattito pubblico. Questo silenzio è stato condiviso anche dalla maggioranza del corpo docente: l’impegno civico è passato in secondo piano rispetto alla produzione scientifica”. Chiamano in causa la loro Scuola per farla diventare da neoliberale, accademia impegnata, forse richiamandosi alla famosa (e troppo poco spesso percorsa) Terza Via di cui le università italiane dovrebbero farsi carico, “assumendo un nuovo fondamentale obiettivo accanto a quelli tradizionali dell’alta formazione e della ricerca scientifica: il dialogo con la società”, come scrive l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che così ha definito la terza missione istituzionale delle università.
“Perché l’impegno nel dibattito pubblico, lo schierarsi apertamente a favore o contro precise scelte politiche è considerato una macchia di cui l’accademico di oggi non deve sporcarsi? Questa disabitudine all’impegno, che sempre di più ci viene insegnata, è pericolosa. Mentre esitiamo a esporci e guardiamo con pessimismo all’esito di ogni nostra eventuale battaglia, ci chiediamo invece quanta forza in più avrebbe avuto la nostra voce se fosse stata accompagnata e sostenuta da quella delle nostre e dei nostri docenti”, reclamano gli allievi. Delle parole che non possono non ricordarci quelle espresse, quasi ottant’anni fa durate la lotta clandestina del 1943-44, anche dai docenti dell’Associazione Professori universitari, che nel loro manifesto scrivevano: “La realtà storica di oggi è rivoluzionaria Voi professori meno che altri potete mancare, perché la costruzione richiede non solo il soccorso di tecnica illuminata, ma luce di esperienza e di ragione, coscienza aperta della realtà e dei suoi problemi, controllo degli stessi valori ideali”.
L’ateneo-stato d’animo
Nell’intervento gli studenti esprimono la volontà di immaginare un tipo di università che lo scrittore Robert Pirsig nel suo “Zen e l’arte della manutenzione della moto” chiamava “continuing body of reason itself”. “La vera Università, scriveva, non ha una posizione specifica. Non possiede proprietà, non paga stipendi e non riceve diritti materiali. La vera Università è uno stato d’animo. È quel grande patrimonio di pensiero razionale che ci è stato tramandato nel corso dei secoli e che non esiste in nessun luogo specifico. L’Università legale, giuridica non può insegnare, non genera nuove conoscenze o valuta idee. Non è affatto la vera Università. È solo edificio del tempio, l’ambientazione, il luogo in cui le condizioni sono state rese favorevoli per l’esistenza della vera Università”.
Il J’accuse, impartito dagli ormai 14 dottori e dottoresse della Normale di Pisa, ha denunciato la disparità di genere, la precarizzazione e il divario Nord Sud all’interno delle aule delle università italiane. Raccogliendo la loro chiamata in causa per “una profonda discussione sui temi sollevati” Luce! dedicherà alle questioni articoli e riflessioni nelle prossime settimane.