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Home » Scienze e culture » Il Nepal ritrova le sue aree verdi: grazie alle comunità locali raddoppiano le foreste nazionali

Il Nepal ritrova le sue aree verdi: grazie alle comunità locali raddoppiano le foreste nazionali

Negli anni '80 il disboscamento minacciava il Paese, ma oggi la superficie nazionale alberata è tornata a crescere, passando dal 26% al 45%

Domenico Guarino
22 Febbraio 2023
Grazie alla gestione affidata alle comunità locali le foreste del Nepal sono tornate a crescere

Grazie alla gestione affidata alle comunità locali le foreste del Nepal sono tornate a crescere

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Tornare indietro si può. Riuscire a bloccare la devastazione dell’ambiente non è un’impresa impossibile, anzi: con l’ausilio di politiche governative efficaci e il coinvolgimento delle popolazioni locali, riuscire a correggere la rotta può non essere un miraggio. Quello che arriva dal Nepal è un messaggio di speranza di enorme portata, perché insegna a non demordere, anche nelle situazioni che appaiono più compromesse.

La storia ha per certi versi dell’incredibile: negli anni ’80 sembrava infatti che lo Stato asiatico, compreso tra India e Tibet, dovesse finire del tutto disboscato, con il rischio di un aumento delle alluvioni e degli smottamenti. Il Paese stava affrontando una crisi ambientale durissima, e le foreste avevano iniziato a ridursi pesantemente a causa delle attività di taglio, che venivano realizzate per ampliare la superficie a pascolo e per la raccolta di legna da ardere. Tanto che nel 1979 la stessa Banca Mondiale aveva lanciato un grido d’allarme: senza programmi di riforestazione su larga scala le foreste nelle colline nepalesi sarebbero potute sparire nel giro di pochi anni.

Il movimento politico nazionale ha deciso di intervenire contro il disboscamento lasciando la gestione delle foreste alle comunità locali

La consapevolezza del disastro imminente ha prodotto un movimento politico via via sempre più apprezzabile, a partire da nuove pratiche di gestione forestali a livello nazionale, fino all’emanazione di una nuova legge sulla silvicoltura, adottata nel 1993, basata sul principio tanto semplice quanto rivoluzionario: che fossero le stesse comunità territoriali a portare avanti queste operazioni. Il risultato è che una recente ricerca finanziata dalla Nasa, ha dimostrato come il Nepal abbia in questi anni quasi raddoppiato la superficie nazionale delle foreste, passando dal 26% al 45% del territorio, soprattutto nelle colline tra l’Himalaya e le pianure del Gange. Per fare un esempio, la zona boschiva di comunità che si trova a est di Kābhrepalāñchok, il cui territorio nel 1988 era coperto dalla foresta solo per il 12%, è arrivata a toccare il 92% nel 2016.

“Una volta che le comunità hanno iniziato a gestire attivamente le foreste, le piante sono ricresciute soprattutto grazie alla rigenerazione naturale”, ha detto Jefferson Fox, principal investigator del progetto della Nasa “Land Cover Land Use Change” e vice-direttore delle ricerche al centro est-ovest nelle Hawaii. Prima che il Nepal passasse la sua legge sulla silvicoltura, la gestione delle foreste del governo era meno attiva. “Le persone usavano ancora le foreste – ha aggiunto Fox – semplicemente non era loro permesso di gestirle autonomamente, e non c’era alcun incentivo nel farlo”, tanto che queste sono diventate luoghi degradati. Con la gestione comunitaria tutto cambia, perché le persone vengono messe i grado di estrarre risorse dalle foreste (frutta, medicine, foraggio) e venderne i prodotti, restringendo però il disboscamento e il taglio per pascoli e legna da ardere. Inoltre i membri delle comunità hanno partecipato attivamente delle ronde per assicurare che le foreste fossero protette.

In Nepal le foreste di comunità occupano quasi 2,3 milioni di ettari e sono gestite da 22mila comunità indigene

Una vera e propria rivoluzione dunque. Un processo virtuoso che ha visto politiche governative e protagonismo delle comunità unirsi per ottenere risultati impensabili. Lo studio ha per altro dimostrato come gli alberi e la vegetazione si siano rigenerate rapidamente già dai primi anni di gestione informale. A oggi le foreste di comunità occupano quasi 2,3 milioni di ettari, cioè circa un terzo della superficie forestale del Nepal. Sono gestite da oltre 22.000 comunità che comprendono circa 3 milioni di famiglie.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Tornare indietro si può. Riuscire a bloccare la devastazione dell'ambiente non è un’impresa impossibile, anzi: con l’ausilio di politiche governative efficaci e il coinvolgimento delle popolazioni locali, riuscire a correggere la rotta può non essere un miraggio. Quello che arriva dal Nepal è un messaggio di speranza di enorme portata, perché insegna a non demordere, anche nelle situazioni che appaiono più compromesse. La storia ha per certi versi dell’incredibile: negli anni '80 sembrava infatti che lo Stato asiatico, compreso tra India e Tibet, dovesse finire del tutto disboscato, con il rischio di un aumento delle alluvioni e degli smottamenti. Il Paese stava affrontando una crisi ambientale durissima, e le foreste avevano iniziato a ridursi pesantemente a causa delle attività di taglio, che venivano realizzate per ampliare la superficie a pascolo e per la raccolta di legna da ardere. Tanto che nel 1979 la stessa Banca Mondiale aveva lanciato un grido d’allarme: senza programmi di riforestazione su larga scala le foreste nelle colline nepalesi sarebbero potute sparire nel giro di pochi anni.
Il movimento politico nazionale ha deciso di intervenire contro il disboscamento lasciando la gestione delle foreste alle comunità locali
La consapevolezza del disastro imminente ha prodotto un movimento politico via via sempre più apprezzabile, a partire da nuove pratiche di gestione forestali a livello nazionale, fino all’emanazione di una nuova legge sulla silvicoltura, adottata nel 1993, basata sul principio tanto semplice quanto rivoluzionario: che fossero le stesse comunità territoriali a portare avanti queste operazioni. Il risultato è che una recente ricerca finanziata dalla Nasa, ha dimostrato come il Nepal abbia in questi anni quasi raddoppiato la superficie nazionale delle foreste, passando dal 26% al 45% del territorio, soprattutto nelle colline tra l'Himalaya e le pianure del Gange. Per fare un esempio, la zona boschiva di comunità che si trova a est di Kābhrepalāñchok, il cui territorio nel 1988 era coperto dalla foresta solo per il 12%, è arrivata a toccare il 92% nel 2016. "Una volta che le comunità hanno iniziato a gestire attivamente le foreste, le piante sono ricresciute soprattutto grazie alla rigenerazione naturale", ha detto Jefferson Fox, principal investigator del progetto della Nasa "Land Cover Land Use Change" e vice-direttore delle ricerche al centro est-ovest nelle Hawaii. Prima che il Nepal passasse la sua legge sulla silvicoltura, la gestione delle foreste del governo era meno attiva. “Le persone usavano ancora le foreste - ha aggiunto Fox - semplicemente non era loro permesso di gestirle autonomamente, e non c’era alcun incentivo nel farlo”, tanto che queste sono diventate luoghi degradati. Con la gestione comunitaria tutto cambia, perché le persone vengono messe i grado di estrarre risorse dalle foreste (frutta, medicine, foraggio) e venderne i prodotti, restringendo però il disboscamento e il taglio per pascoli e legna da ardere. Inoltre i membri delle comunità hanno partecipato attivamente delle ronde per assicurare che le foreste fossero protette.
In Nepal le foreste di comunità occupano quasi 2,3 milioni di ettari e sono gestite da 22mila comunità indigene
Una vera e propria rivoluzione dunque. Un processo virtuoso che ha visto politiche governative e protagonismo delle comunità unirsi per ottenere risultati impensabili. Lo studio ha per altro dimostrato come gli alberi e la vegetazione si siano rigenerate rapidamente già dai primi anni di gestione informale. A oggi le foreste di comunità occupano quasi 2,3 milioni di ettari, cioè circa un terzo della superficie forestale del Nepal. Sono gestite da oltre 22.000 comunità che comprendono circa 3 milioni di famiglie.
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