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Home » Scienze e culture » Rita Levi Montalcini: 112 anni fa nasceva la donna che ha cambiato la scienza

Rita Levi Montalcini: 112 anni fa nasceva la donna che ha cambiato la scienza

Unica italiana a vincere il Nobel per la medicina nel 1986, è stata una pioniera nella neurobiologia e nella difesa dei diritti delle donne scienziate. "Nella vita mi è riuscito tutto facile. I miei meriti sono stati impegno e ottimismo"

Marianna Grazi
22 Aprile 2021
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Rita Levi Montalcini in un ritratto da giovane

È stata una delle scienziate più importanti del Novecento, ma anche una donna che ha conquistato il mondo con la sua umanità. Un esempio di emancipazione e di successo, di caparbietà e anche di eleganza. Rita Levi Montalcini nasceva oggi, 112 anni fa, ma la sua vita rimarrà ancora a lungo un modello per molte donne.

Ha dedicato la vita alla scienza, lasciandoci l’immagine di una signora elegante, dallo sguardo sicuro ma anche dolce, che ha partecipato fino alla fine alla vita scientifica e politica del nostro Paese, dopo aver conquistato il mondo con le sue scoperte. Di sé diceva: “La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno e ottimismo“. Un impegno che l’ha portata, contro tutto e tutti, a diventare scienziata, a vincere un Premio Nobel, ad essere l’esempio perfetto del rapporto tra le donne e il sapere. Basta leggere questa sua celebre frase, per esserne certi: “La donna è stata bloccata per secoli. Quando ha accesso alla cultura è come un’affamata. E il cibo è molto più utile a chi è affamato rispetto a chi è già saturo”.

Rita Levi Montalcini nasce a Torino il 22 aprile 1909, insieme alla gemella Paola, in una famiglia ebrea molto colta. Il padre, Adamo Levi, era un ingegnere elettrotecnico e matematico e la madre, Adele Montalcini, una pittrice. Nel 1930 si iscrive a medicina all’Università di Torino: la sua decisione non è ben accolta dai genitori, che la volevano moglie e madre. Sin dai primi anni si dedica all’approfondimento del sistema nervoso. All’indomani della laurea però, la proclamazione delle leggi razziali le vieta di continuare i propri studi all’università. Questo non le impedisce di proseguire le ricerche prima in Belgio, dove si sposta con la famiglia per sfuggire la deportazione, e poi di nuovo a Torino nel 1940, in un piccolo laboratorio privato. Certo, un laboratorio di fortuna con pochi mezzi e ancor meno risorse, ma comunque un sogno realizzato per la giovane Montalcini, che durante il conflitto non aveva avuto vita facile. Una donna, ebrea e ricercatrice: impossibile! Lei, determinata, ha continuato, convinta che quella fosse la strada da seguire.

Nel 1947 si trasferisce egli Stati Uniti: doveva restare solo un semestre, ci rimane per trent’anni. La sua è una carriera gloriosa, coronata nel 1986 dall’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina per le scoperte sul fattore di crescita nervoso (NGF). La sua è una scoperta rivoluzionaria: questa proteina è responsabile della crescita delle cellule e degli organi, indispensabile nello studio di malattie come il cancro, il Parkinson e l’Alzheimer. In Italia ritorna definitivamente solo nel 1977, dopo il pensionamento. Membro delle più prestigiose accademie scientifiche, come l’Accademia Nazionale dei Lincei, l’Accademia Pontificia (prima donna ad esservi ammessa), la National Academy of Sciences negli USA e la Royal Society, Rita Levi Montalcini ha continuato, fino a poco tempo prima di morire, nel 2012 all’età di 103 anni, la sua attività di ricerca, affiancata da un costante impegno in campo sociale e politico. Nel 2001 era infatti stata eletta Senatrice a vita.

Nel corso della sua esistenza la Montalcini ha seguito innumerevoli progetti, ma ha sempre avuto molto a cuore anche la questione della parità dei diritti delle donne in ambito scientifico. Attraverso la sua fondazione “Rita Levi-Montalcini Onlus” ha iniziato a finanziare borse di studio a sostegno delle donne dei Paesi in via di sviluppo; si è battuta per il diritto all’aborto e ha portato avanti, determinata, il suo impegno in favore dell’emancipazione femminile. “A me nella vita è riuscito tutto facile – ironizzava -. Le difficoltà me le sono scrollate di dosso, come acqua sulle ali di un’anatra”. Ma sapeva che per molte donne non era così, per questo si è sempre battuta in loro favore. Negli anni ha creato un suo personalissimo stile, fatto di spalline, spille e collane vistose, i capelli raccolti in uno chignon. Ma soprattutto non si è mai voluta sposare, per dedicarsi in maniera incondizionata, al proprio lavoro.

La sua era una missione che nessun altro amore avrebbe potuto mettere in ombra.

 

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Instagram

  • Per la prima volta nella storia del calcio, un arbitro ha estratto il cartellino bianco. No, non si tratta di un errore: se il giallo e il rosso fanno ormai parte di tantissimi anni delle regole del gioco ed evidenziano un comportamento scorretto, quello bianco vuole invece "premiare", in maniera simbolica, un gesto di fair play. Il tutto è avvenuto in Portogallo, durante un match di coppa nazionale tra il Benfica e lo Sporting Lisbona femminile.

Benfica-Sporting Lisbona femminile, quarti di finale della Coppa del Portogallo. I padroni di casa si trovano in vantaggio per 3-0 e vinceranno la sfida con un netto 5-0, ma un episodio interrompe il gioco: un tifoso sugli spalti accusa un malore, tanto che gli staff medici delle due squadre corrono verso le tribune per soccorrerlo. Dopo qualche minuto di paura, non solo per le giocatrici in campo ma anche per gli oltre quindicimila spettatori presenti allo stadio, il supporter viene stabilizzato e il gioco può riprendere. Prima, però, la direttrice di gara Catarina Campos effettua un gesto che è destinato a rimanere nella storia del calcio: estrae il cartellino bianco nei confronti dei medici delle due squadre.

Il cartellino bianco non influenza in alcun modo il match, né il risultato o il referto arbitrale; chissà che, da oggi in poi, gli arbitri non cominceranno ad agire più spesso, per esaltare un certo tipo di condotta eticamente corretta portata avanti anche dai calciatori.

#lucenews #cartellinobianco #calcio #fairplay
  • Son tutte belle le mamme del mondo. Soprattutto… quando un bambino si stringono al cuor… I versi di un vecchio brano ricordano lo scatto che sta facendo il giro del web. Quella di una madre che allatta il proprio piccino sul posto di lavoro. In questo caso la protagonista è una supermodella –  Maggie Maurer – che ha postato uno degli scatti più teneri e glamour di sempre. La super top si è fatta immortalare mentre nutre al seno la figlia Nora-Jones nel backstage dello show couture di Schiaparelli, tenutosi a Parigi.

La top model americana 32enne, che della maison è già musa, tanto da aver ispirato una clutch – non proprio una pochette ma una borsa che si indossa a mano che riproduce il suo volto –  nell’iconico scatto ha ancora il viso coperto dal make-up dorato realizzato dalla truccatrice-star Path McGrath, ed è coperta solo sulle spalle da un asciugamano e un telo protettivo trasparente. 

L’immagine è forte, intensa, accentuata dalla vernice dorata che fa apparire mamma Maurer come una divinità dell’Olimpo, una creatura divina ma squisitamente terrena, colta nel gesto di nutrire il proprio piccolo.

Ed è un’immagine importante, perché contribuisce a scardinare lo stigma dell’allattamento al seno in pubblico, sul luogo di lavoro e in questo caso anche sui social, su cui esistono ancora molti tabù. L’intera gravidanza di Maggie Maurer è stata vissuta in chiave di empowerment, e decisamente glamour. Incinta di circa sei mesi, ha sfilato per Nensi Dojaka sfoggiando un capo completamente trasparente della collezione autunno inverno 2022, e con il pancione.

Nell’intimo post su Instagram, Maggie Maurer ha deciso quindi condividere con i propri follower la sua immagine che la ritrae sul luogo di lavoro con il volto dipinta d’oro, una parte del suo look, pocoprima di sfilare per la casa di moda italiana, Schiaparelli. In grembo, ha sua figlia, che sta allattando dietro le quinte della sfilata. Le parole scritte a finco della foto, la modella ha scritto “#BTS #mommy”, evidenziando il lavoro senza fine della maternità, nonostante i suoi successi.

di Letizia Cini ✍🏻

#lucenews #maggiemaurer #materintà #mommy
  • La tolleranza, l’inclusione e il rispetto svaniscono nel momento in cui ci si mette davanti alla tastiera di un computer. Gli haters non sono spariti né accennano a diminuire. Esistono, sono molti più di prima, attaccano e anzi rilanciano. Oltre lo schermo, sono le donne soprattutto, e poi le persone con disabilità e le persone omosessuali, a essere i destinatari di insulti e offese di ogni tipo.

È questo il triste podio che ci consegna la ricerca condotta da Vox, Osservatorio italiano sui diritti, che ha fotografato l’odio via social, in particolare attraverso l’esame dei tweet. E le cose non vanno meglio rispetto all’anno precedente, anzi. Dalla settima edizione di questa ricerca è emerso infatti che nel 2022, da gennaio a ottobre, sono stati estratti quasi 630mila tweet, 583mila dei quali negativi, pari al 93% del totale, mentre invece l’anno prima i tweet presi in esame erano stati poco più di 797mila, 550mila dei quali erano negativi, cioè il 69% del totale.

Le donne si confermano essere il bersaglio numero uno, seguite appunto dalle persone con disabilità e dalle persone omosessuali, tornate nuovamente al centro del mirino, e non solo di quello che fa riferimento all’hate speech.

Oltre agli onnipresenti atteggiamenti di body shaming, molti attacchi hanno avuto come contenuto la competenza e la professionalità delle donne stesse. E, dunque, è il lavoro delle donne a emergere anche quest’anno quale co-fattore scatenante lo hate speech misogino, a conferma di una tendenza già rilevata lo scorso anno. Quanto alle persone con disabilità, risultata la seconda categoria più colpita.

Per quanto concerne invece gli stranieri e i migranti, la categoria sociale con una percentuale più alta di incremento di tweet negativi all’interno del cluster rispetto al 2021. Anche qui, va sottolineata la forte attenzione mediatica che si accende sugli sbarchi dei migranti e sulla situazione dei profughi provenienti dall’Ucraina, nonché dal contesto politico italiano e dalla sua relazione con l’Unione europea circa la gestione della situazione migratoria.

📲Come difendersi? Qual è la cura contro l
  • “Sesso. Libertà. Uguaglianza. Amore in tutti i sensi. E tutti a tavola!”. È il messaggio che Rosa Chemical, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, porta a Sanremo 2023 per quello che sarà il suo esordio al festival con il brano “Made in Italy”.

Il rapper classe 1998, arriva da debuttante, ma con una storia già ben definita alle spalle. Poliedrico, eclettico, difficilmente etichettabile, ha dato sfogo alla sua creatività non solo a livello musicale – con influenze che spaziano dall’hiphop alla trap all’elettronica -, ma lavorando anche come modello per Gucci, come art and creative director e dedicandosi anche alla scrittura di videoclip. 

Nel 2019 ha pubblicato “Forever”, il suo primo album, che è stato certificato disco d’oro, da lì una serie di collaborazioni che lo hanno portato anche ad affiancare Tananai l’anno scorso nella serata cover del Festival.

“Molto spesso sono giudicato perché diverso, ma dal diverso bisogna imparare, assorbire. In Italia invece ciò che è diverso è giudicato. E io da diverso in passato mi sono sentito sbagliato” racconta Rosa Chemical. 

Non a caso, a Sanremo, il 25enne paladino della libertà di essere se stessi senza farsi condizionare dalle norme della società, arriva con il brano “Made in Italy” e un obiettivo ben preciso: “portare un messaggio di libertà contro ogni tipo di discriminazione, per promuovere l’uguaglianza e il rispetto. Cerco di creare dibattito: sono sempre pronto a spiegare il mio punto di vista, ma se non c’è apertura mentale non mi sento di dover dire nulla”.

Il brano “È piedi, con cui calpestare ciò che è generalista e che chiude tutto dentro una gabbia fatta di tabù. ‘Made in Italy vuole’ liberarci dalle censure, dagli stereotipi e dal politicamente corretto”. 

Come il titolo e la copertina, anche il testo è provocatorio e racchiude al suo interno tutta l’essenza e l’irriverenza prorompente di Rosa Chemical perché parla in maniera sfrontata di temi ancora oggi considerati tabù come il sesso, la fluidità e il poliamore. 

“Non c’è cosa più ‘Made in Italy’ del Festival di Sanremo. Non vedo l’ora di salire su quel palco”.

#lucenews #sanremo2023 #rosachemical
Rita Levi Montalcini in un ritratto da giovane
È stata una delle scienziate più importanti del Novecento, ma anche una donna che ha conquistato il mondo con la sua umanità. Un esempio di emancipazione e di successo, di caparbietà e anche di eleganza. Rita Levi Montalcini nasceva oggi, 112 anni fa, ma la sua vita rimarrà ancora a lungo un modello per molte donne. Ha dedicato la vita alla scienza, lasciandoci l'immagine di una signora elegante, dallo sguardo sicuro ma anche dolce, che ha partecipato fino alla fine alla vita scientifica e politica del nostro Paese, dopo aver conquistato il mondo con le sue scoperte. Di sé diceva: "La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno e ottimismo". Un impegno che l'ha portata, contro tutto e tutti, a diventare scienziata, a vincere un Premio Nobel, ad essere l'esempio perfetto del rapporto tra le donne e il sapere. Basta leggere questa sua celebre frase, per esserne certi: "La donna è stata bloccata per secoli. Quando ha accesso alla cultura è come un’affamata. E il cibo è molto più utile a chi è affamato rispetto a chi è già saturo". Rita Levi Montalcini nasce a Torino il 22 aprile 1909, insieme alla gemella Paola, in una famiglia ebrea molto colta. Il padre, Adamo Levi, era un ingegnere elettrotecnico e matematico e la madre, Adele Montalcini, una pittrice. Nel 1930 si iscrive a medicina all'Università di Torino: la sua decisione non è ben accolta dai genitori, che la volevano moglie e madre. Sin dai primi anni si dedica all'approfondimento del sistema nervoso. All’indomani della laurea però, la proclamazione delle leggi razziali le vieta di continuare i propri studi all’università. Questo non le impedisce di proseguire le ricerche prima in Belgio, dove si sposta con la famiglia per sfuggire la deportazione, e poi di nuovo a Torino nel 1940, in un piccolo laboratorio privato. Certo, un laboratorio di fortuna con pochi mezzi e ancor meno risorse, ma comunque un sogno realizzato per la giovane Montalcini, che durante il conflitto non aveva avuto vita facile. Una donna, ebrea e ricercatrice: impossibile! Lei, determinata, ha continuato, convinta che quella fosse la strada da seguire. Nel 1947 si trasferisce egli Stati Uniti: doveva restare solo un semestre, ci rimane per trent’anni. La sua è una carriera gloriosa, coronata nel 1986 dall’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina per le scoperte sul fattore di crescita nervoso (NGF). La sua è una scoperta rivoluzionaria: questa proteina è responsabile della crescita delle cellule e degli organi, indispensabile nello studio di malattie come il cancro, il Parkinson e l’Alzheimer. In Italia ritorna definitivamente solo nel 1977, dopo il pensionamento. Membro delle più prestigiose accademie scientifiche, come l'Accademia Nazionale dei Lincei, l'Accademia Pontificia (prima donna ad esservi ammessa), la National Academy of Sciences negli USA e la Royal Society, Rita Levi Montalcini ha continuato, fino a poco tempo prima di morire, nel 2012 all’età di 103 anni, la sua attività di ricerca, affiancata da un costante impegno in campo sociale e politico. Nel 2001 era infatti stata eletta Senatrice a vita. Nel corso della sua esistenza la Montalcini ha seguito innumerevoli progetti, ma ha sempre avuto molto a cuore anche la questione della parità dei diritti delle donne in ambito scientifico. Attraverso la sua fondazione "Rita Levi-Montalcini Onlus" ha iniziato a finanziare borse di studio a sostegno delle donne dei Paesi in via di sviluppo; si è battuta per il diritto all’aborto e ha portato avanti, determinata, il suo impegno in favore dell’emancipazione femminile. "A me nella vita è riuscito tutto facile - ironizzava -. Le difficoltà me le sono scrollate di dosso, come acqua sulle ali di un’anatra". Ma sapeva che per molte donne non era così, per questo si è sempre battuta in loro favore. Negli anni ha creato un suo personalissimo stile, fatto di spalline, spille e collane vistose, i capelli raccolti in uno chignon. Ma soprattutto non si è mai voluta sposare, per dedicarsi in maniera incondizionata, al proprio lavoro. La sua era una missione che nessun altro amore avrebbe potuto mettere in ombra.  
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