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Home » Scienze e culture » Stefano Bartezzaghi: “La lingua discrimina? Non è cambiando le parole che cambierà il punto di vista”

Stefano Bartezzaghi: “La lingua discrimina? Non è cambiando le parole che cambierà il punto di vista”

Il semiologo ed enigmista: "A me fa un po’ impressione vedere che nel nome dell’inclusione stabiliscono e introducono delle interdizioni: e a quel punto mi viene da sostenere che non è vero che le parole siano così importanti"

Letizia Cini
17 Febbraio 2022
Classe 1962, Stefano Bartezzaghi è un giornalista, scrittore e semiologo di chiara fama

Classe 1962, Stefano Bartezzaghi è un giornalista, scrittore e semiologo di chiara fama

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Si apre con ben sei pagine di ”fateci caso” l’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi, studioso di semiotica, docente ed enigmista di chiara fama, dal titolo Senza distinzione (People): un gioco linguistico conosciuto – ma sempre molto efficace – che esemplifica gli usi sessisti della lingua italiana, mostrando la differenza di connotazione di alcuni termini a seconda che siano declinati al maschile o al femminile. Qualche esempio: “il cortigiano/una mignotta”, “un mercenario/ una mignotta”, “un professionista/una mignotta”, “un uomo di malaffare/una mignotta”, “un segretario particolare/una mignotta”, “un accompagnatore/una mignotta”, “un massaggiatore, una mignotta” e così via, per sei pagine.

Dalla singolare classificazione linguistica Paola Cortellesi ha tratto un monologo che ha recitato in apertura della Cerimonia dei David di Donatello nel 2018, sull’onda delle denunce contro le discriminazioni e le molestie sulle donne nel mondo del lavoro.

Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport
Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport

Quella ’barzelletta’, da lei pescata su Internet nel 2002, continua a far sorridere ma un po’ anche inquieta, non è vero professor Bartezzaghi?
“Da studioso che si occupa di diversi tipi linguaggio, volevo mostrare come agiscono alcuni stereotipi all’interno della mentalità e della lingua, come avevo fatto anche in ‘Non se ne può più’, libro anche scherzoso, che appartiene a un certo tipo di mie produzioni. Adesso le cose si sono fatte più serie ed è nato un dibattito molto acceso sulla questione legata all’uso dello schwa ma anche all’abolizione della parola ‘razza’ dalla Costituzione Italiana . Il mio obiettivo è mettere in discussione alcuni presupposti, ovvero che cambiando le parole cambierebbe anche il nostro punto di vista”.

Tra parole e punto di vista c’è indubbiamente una relazione: ma quanto può essere utile abolire parole considerate dispregiative come ‘razza’?

“Poco. Mi sono deciso a non entrare nel merito della querelle sullo schwa, inquinata da altre questioni, e allora lì nasce un dibattito che non mi piace; penso che dovremmo conoscere un po’ meglio il linguaggio, che è qualcosa che conosciamo poco ma abbastanza per sapere che le parole cambiano, anche. Parole che erano offensive un tempo, poi non lo sono state più. E non si tratta sempre e solo di parole. Faccio l’esempio dei mancini, fortemente discriminati anche fisicamente fino a due generazioni fa, bambini di 5 o 6 anni che venivano puniti, perfino picchiati finché non usavano la mano destra, in quanto la sinistra era quella del diavolo: non c’è stato il sindacato dei mancini, è stata la cultura che si è resa conto che non si trattava di una credenza religiosa, ma superstiziosa. Anche molte delle parole di quel monologo che poi ha ripreso Paola Cortellesi, sono termini che per fortuna nessuno per insultare una donna usa più: ‘mondana’ era una parola che fino a qualche tempo fa era usata in accezione spregiativa, adesso no. È divertente nel contesto di quel monologo, ma io alle mie figlie ho dovuto spiegare cos’è una mondana e cosa significava in passato”.

Chi è che oggi dice più ‘passeggiatrice’…

Sullo schwa è uscito dalle discussioni tra linguisti e socio-linguisti diventando un tema divisivo come la legge Zan

“E chi userebbe più un aggettivo come (donnina) ’allegra’. Quindi quel monologo ci dice che linguaggio può essere sessista, ma anche che cambia: soprattutto in queste zone delicate del lessico, quando le parole vengono usate per dire qualcosa di spiacevole e allora ripieghiamo su eufemismi: ‘un brutto male’ , ad esempio. Bisognerebbe conoscere, capire che la parole non stanno fisse: se avessi detto ‘casino’ davanti a mia madre da piccolo, avrei preso uno schiaffo, perché negli anni è diventato una brutta parola, mentre nasceva come parola gentile quando ‘lupanare’ era una parola volgare. Poi è diventato volgare anche ‘casino’. Quando dico che le parole non stanno fisse intendo sostenete che non è che se uno dice negro è razzista, perché fino a tutti gli anni ’80 negro si usava come termine normale”.

In tempi di politicamente corretto è facile incappare in qualche gaffe, non sappiamo più che parole usare…

“Volendo dare retta a tutte le cose che escono, si rischierebbe di non dire più niente. Io non approvo l’epurazione del linguaggio. Se togliessimo la parola ‘razza’ dalla Costituzione italiana, come faremmo a dire che un delitto ha un aggravante perché causata dal razzismo? Cioè, io lo so che per la scienza la razza non esiste, ma resta il fatto che per i violenti contro qualcuno deve esistere il razzismo come aggravante. Nel mondo anglosassone hanno inventato la N-Word, dire ‘negro’ è un tabu. E questo è un problema, in quanto i tabu restano lì latenti, non si superano”.

 Quindi esistono gli eccessi linguistici?

Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010
Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010

“A me fa un po’ impressione vedere che nel nome dell’inclusione stabiliscono e introducono delle interdizioni: e a quel punto mi viene da sostenere che non è vero che le parole siano così importanti. Noi abbiamo un’idea di una parola come un’etichetta applicata a una cosa, ma non funziona così. Tutte le parole possono essere riscattate. Chiaro, dipende come si usano: nel momento in cui uno si sente offeso da un uso linguistico altrui, lì un problema c’è di sicuro. Però dobbiamo anche togliere un po’ di questa enfasi che viene fatta, anche sul vittimismo vero e proprio. A un certo punto uno deve andare anche oltre anche la questione della parola e andare a vedere il rapporto di forza. Allora lì le cose diventano quelle serie”.

 Occorre fare un passo in avanti?

“Certamente. La mentalità cambia, non è che sia immutabile: ma non è che, se non cambiamo il linguaggio, non cambia la mentalità. Noi abbiamo degli stereotipi: l’istinto è diffidare da chi è diverso da noi. Ma esiste la ragione. Fossimo condannati a restare quello che eravamo, non potremmo vivere. Occorre accettare le trasformazioni”.

 Quando le parole non bastano, arrivano le sigle: da Lgbt a Lgbtqia+…

“Beh, sono indicatori di nuove mentalità, di nuove sensibilità, di nuovi problemi che stanno emergendo e vengono posti alla nostra società. Noi una volta parlavamo dei diversi, degli anormali, dei devianti. Chi non era eterosessuale era considerato un diverso, come se non fosse ’normale’, perché c’era una norma. Si parlava anche di ‘invertiti’ per intendere persone che funzionano come “al contrario” di quanto decreta la natura. A un certo punto ci siamo resi conto che questi modi di dire erano del tutto inadeguati, oltre che offensivi”.

Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di 'Harry Potter'
Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di ‘Harry Potter’

 E allora cosa è scattato?

“Queste persone, coloro che si occupano di questi argomenti, magari perché li vivono in prima persona, a un certo punto non sono più riusciti a trovare una categoria che li comprendesse e li rappresentasse. Ricordo che quando in italiano si è iniziato a parlare di gay, il termine comprendeva sia uomini sia donne. Poi è rimasto agli uomini e le donne si sono autodefinite lesbiche, parola che prima veniva usata in modo offensivo. L’obiettivo è distinguere le singole posizioni, lasciando che comunque siano accomunate. Ecco che nasce la sigla Lgbt : poi neanche quella basta, si allunga, fino a quando si arriva al punto di non mettere più un segno alfabetico ma un operatore logico, il + (plus). Soluzione efficace, ma…”.

Ma, professor Bartezzaghi?

“Significa la rinuncia al linguaggio: si è creato un concetto che, linguisticamente parlando, non ha un nome possibile, un fatto notevole e non certo positivo. Bisognerebbe riuscire a parlare di tutto; se vengono a crearsi dei tabu, cose di cui non si riesce a parlare e a cui dobbiamo alludere neanche più con le parole, ma con un costrutto completamente artificiale rispetto alla lingua, quello è un problema serio di semiotica. Un problema diverso da quello dibattuto sui social network”.

Le trasformazioni richiedono tempo e creano confusione: lei come si rivolge ai suoi interlocutori?

“Con gli studenti uso le formule tradizionali e da molti anni cerco di non usare indiscriminatamente il maschile sovraesteso”.

Termini come sindaca, ministra: cosa pensa dei casi linguistici?
“Ognuno ha una sua portata, nel caso dei femminili delle professioni, ci sono degli usi tradizionali (dottoressa, professoressa, studentessa); c’è una grammatica, che consente di dire studente anche di una ragazza, così come si fa con docente. Ci sono parole che non sono mai esistite, perché non avevano chi nominare: fino a quando non c’erano ingegneri donne non c’era bisogno di chiamarle “.

Le voci critiche ne fanno una questione di… suono.

“Mi fa molto ridere il problema della cacofonia. Perché si tratta solamente di parole a cui non siamo abituati: ingegnera è più brutto di infermiera? No, è solo che al termine infermiera siamo più abituati. Ogni parola nuova potenzialmente ci disturba. Pensiamo: infermiera e ingegnera sono vocaboli assonanti, eppure l’uno suona bene e l’altro meno. È una questione di abitudine, ma non si parla soltanto di abitudine all’orecchio quanto di abitudine a vedere donne che fanno certe professioni, una volta riservate ai soli uomini. Noto che le persone nate negli anni ’90 tanti di questi problemi neanche li sentono. Il motivo? Hanno vissuto in una dimensione che in parte è andata oltre. Per certi aspetti è già un mondo diverso e il mio augurio è che si continui a procedere proprio in questa direzione”.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Si apre con ben sei pagine di ”fateci caso” l’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi, studioso di semiotica, docente ed enigmista di chiara fama, dal titolo Senza distinzione (People): un gioco linguistico conosciuto - ma sempre molto efficace - che esemplifica gli usi sessisti della lingua italiana, mostrando la differenza di connotazione di alcuni termini a seconda che siano declinati al maschile o al femminile. Qualche esempio: “il cortigiano/una mignotta”, “un mercenario/ una mignotta”, “un professionista/una mignotta”, "un uomo di malaffare/una mignotta", "un segretario particolare/una mignotta", "un accompagnatore/una mignotta", "un massaggiatore, una mignotta" e così via, per sei pagine. Dalla singolare classificazione linguistica Paola Cortellesi ha tratto un monologo che ha recitato in apertura della Cerimonia dei David di Donatello nel 2018, sull'onda delle denunce contro le discriminazioni e le molestie sulle donne nel mondo del lavoro.
Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport
Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport
Quella ’barzelletta’, da lei pescata su Internet nel 2002, continua a far sorridere ma un po’ anche inquieta, non è vero professor Bartezzaghi? “Da studioso che si occupa di diversi tipi linguaggio, volevo mostrare come agiscono alcuni stereotipi all’interno della mentalità e della lingua, come avevo fatto anche in 'Non se ne può più’, libro anche scherzoso, che appartiene a un certo tipo di mie produzioni. Adesso le cose si sono fatte più serie ed è nato un dibattito molto acceso sulla questione legata all’uso dello schwa ma anche all’abolizione della parola 'razza' dalla Costituzione Italiana . Il mio obiettivo è mettere in discussione alcuni presupposti, ovvero che cambiando le parole cambierebbe anche il nostro punto di vista". Tra parole e punto di vista c’è indubbiamente una relazione: ma quanto può essere utile abolire parole considerate dispregiative come 'razza'? “Poco. Mi sono deciso a non entrare nel merito della querelle sullo schwa, inquinata da altre questioni, e allora lì nasce un dibattito che non mi piace; penso che dovremmo conoscere un po’ meglio il linguaggio, che è qualcosa che conosciamo poco ma abbastanza per sapere che le parole cambiano, anche. Parole che erano offensive un tempo, poi non lo sono state più. E non si tratta sempre e solo di parole. Faccio l’esempio dei mancini, fortemente discriminati anche fisicamente fino a due generazioni fa, bambini di 5 o 6 anni che venivano puniti, perfino picchiati finché non usavano la mano destra, in quanto la sinistra era quella del diavolo: non c’è stato il sindacato dei mancini, è stata la cultura che si è resa conto che non si trattava di una credenza religiosa, ma superstiziosa. Anche molte delle parole di quel monologo che poi ha ripreso Paola Cortellesi, sono termini che per fortuna nessuno per insultare una donna usa più: 'mondana’ era una parola che fino a qualche tempo fa era usata in accezione spregiativa, adesso no. È divertente nel contesto di quel monologo, ma io alle mie figlie ho dovuto spiegare cos’è una mondana e cosa significava in passato". Chi è che oggi dice più 'passeggiatrice’...
Sullo schwa è uscito dalle discussioni tra linguisti e socio-linguisti diventando un tema divisivo come la legge Zan
“E chi userebbe più un aggettivo come (donnina) ’allegra’. Quindi quel monologo ci dice che linguaggio può essere sessista, ma anche che cambia: soprattutto in queste zone delicate del lessico, quando le parole vengono usate per dire qualcosa di spiacevole e allora ripieghiamo su eufemismi: 'un brutto male’ , ad esempio. Bisognerebbe conoscere, capire che la parole non stanno fisse: se avessi detto 'casino’ davanti a mia madre da piccolo, avrei preso uno schiaffo, perché negli anni è diventato una brutta parola, mentre nasceva come parola gentile quando 'lupanare’ era una parola volgare. Poi è diventato volgare anche 'casino'. Quando dico che le parole non stanno fisse intendo sostenete che non è che se uno dice negro è razzista, perché fino a tutti gli anni ’80 negro si usava come termine normale". In tempi di politicamente corretto è facile incappare in qualche gaffe, non sappiamo più che parole usare... "Volendo dare retta a tutte le cose che escono, si rischierebbe di non dire più niente. Io non approvo l’epurazione del linguaggio. Se togliessimo la parola 'razza' dalla Costituzione italiana, come faremmo a dire che un delitto ha un aggravante perché causata dal razzismo? Cioè, io lo so che per la scienza la razza non esiste, ma resta il fatto che per i violenti contro qualcuno deve esistere il razzismo come aggravante. Nel mondo anglosassone hanno inventato la N-Word, dire 'negro' è un tabu. E questo è un problema, in quanto i tabu restano lì latenti, non si superano".  Quindi esistono gli eccessi linguistici?
Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010
Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010
“A me fa un po’ impressione vedere che nel nome dell’inclusione stabiliscono e introducono delle interdizioni: e a quel punto mi viene da sostenere che non è vero che le parole siano così importanti. Noi abbiamo un’idea di una parola come un’etichetta applicata a una cosa, ma non funziona così. Tutte le parole possono essere riscattate. Chiaro, dipende come si usano: nel momento in cui uno si sente offeso da un uso linguistico altrui, lì un problema c’è di sicuro. Però dobbiamo anche togliere un po’ di questa enfasi che viene fatta, anche sul vittimismo vero e proprio. A un certo punto uno deve andare anche oltre anche la questione della parola e andare a vedere il rapporto di forza. Allora lì le cose diventano quelle serie".  Occorre fare un passo in avanti? “Certamente. La mentalità cambia, non è che sia immutabile: ma non è che, se non cambiamo il linguaggio, non cambia la mentalità. Noi abbiamo degli stereotipi: l’istinto è diffidare da chi è diverso da noi. Ma esiste la ragione. Fossimo condannati a restare quello che eravamo, non potremmo vivere. Occorre accettare le trasformazioni".  Quando le parole non bastano, arrivano le sigle: da Lgbt a Lgbtqia+... “Beh, sono indicatori di nuove mentalità, di nuove sensibilità, di nuovi problemi che stanno emergendo e vengono posti alla nostra società. Noi una volta parlavamo dei diversi, degli anormali, dei devianti. Chi non era eterosessuale era considerato un diverso, come se non fosse ’normale’, perché c’era una norma. Si parlava anche di ‘invertiti’ per intendere persone che funzionano come “al contrario” di quanto decreta la natura. A un certo punto ci siamo resi conto che questi modi di dire erano del tutto inadeguati, oltre che offensivi".
Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di 'Harry Potter'
Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di 'Harry Potter'
 E allora cosa è scattato? “Queste persone, coloro che si occupano di questi argomenti, magari perché li vivono in prima persona, a un certo punto non sono più riusciti a trovare una categoria che li comprendesse e li rappresentasse. Ricordo che quando in italiano si è iniziato a parlare di gay, il termine comprendeva sia uomini sia donne. Poi è rimasto agli uomini e le donne si sono autodefinite lesbiche, parola che prima veniva usata in modo offensivo. L’obiettivo è distinguere le singole posizioni, lasciando che comunque siano accomunate. Ecco che nasce la sigla Lgbt : poi neanche quella basta, si allunga, fino a quando si arriva al punto di non mettere più un segno alfabetico ma un operatore logico, il + (plus). Soluzione efficace, ma...". Ma, professor Bartezzaghi? “Significa la rinuncia al linguaggio: si è creato un concetto che, linguisticamente parlando, non ha un nome possibile, un fatto notevole e non certo positivo. Bisognerebbe riuscire a parlare di tutto; se vengono a crearsi dei tabu, cose di cui non si riesce a parlare e a cui dobbiamo alludere neanche più con le parole, ma con un costrutto completamente artificiale rispetto alla lingua, quello è un problema serio di semiotica. Un problema diverso da quello dibattuto sui social network". Le trasformazioni richiedono tempo e creano confusione: lei come si rivolge ai suoi interlocutori? “Con gli studenti uso le formule tradizionali e da molti anni cerco di non usare indiscriminatamente il maschile sovraesteso". Termini come sindaca, ministra: cosa pensa dei casi linguistici? “Ognuno ha una sua portata, nel caso dei femminili delle professioni, ci sono degli usi tradizionali (dottoressa, professoressa, studentessa); c’è una grammatica, che consente di dire studente anche di una ragazza, così come si fa con docente. Ci sono parole che non sono mai esistite, perché non avevano chi nominare: fino a quando non c’erano ingegneri donne non c’era bisogno di chiamarle ". Le voci critiche ne fanno una questione di... suono. “Mi fa molto ridere il problema della cacofonia. Perché si tratta solamente di parole a cui non siamo abituati: ingegnera è più brutto di infermiera? No, è solo che al termine infermiera siamo più abituati. Ogni parola nuova potenzialmente ci disturba. Pensiamo: infermiera e ingegnera sono vocaboli assonanti, eppure l’uno suona bene e l’altro meno. È una questione di abitudine, ma non si parla soltanto di abitudine all’orecchio quanto di abitudine a vedere donne che fanno certe professioni, una volta riservate ai soli uomini. Noto che le persone nate negli anni ’90 tanti di questi problemi neanche li sentono. Il motivo? Hanno vissuto in una dimensione che in parte è andata oltre. Per certi aspetti è già un mondo diverso e il mio augurio è che si continui a procedere proprio in questa direzione”.
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