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Stefano Bartezzaghi: "La lingua discrimina? Non è cambiando le parole che cambierà il punto di vista"

di LETIZIA CINI -
17 febbraio 2022
Stefano Bartezzaghi

Stefano Bartezzaghi

Si apre con ben sei pagine di ”fateci caso” l’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi, studioso di semiotica, docente ed enigmista di chiara fama, dal titolo Senza distinzione (People): un gioco linguistico conosciuto - ma sempre molto efficace - che esemplifica gli usi sessisti della lingua italiana, mostrando la differenza di connotazione di alcuni termini a seconda che siano declinati al maschile o al femminile. Qualche esempio: “il cortigiano/una mignotta”, “un mercenario/ una mignotta”, “un professionista/una mignotta”, "un uomo di malaffare/una mignotta", "un segretario particolare/una mignotta", "un accompagnatore/una mignotta", "un massaggiatore, una mignotta" e così via, per sei pagine. Dalla singolare classificazione linguistica Paola Cortellesi ha tratto un monologo che ha recitato in apertura della Cerimonia dei David di Donatello nel 2018, sull'onda delle denunce contro le discriminazioni e le molestie sulle donne nel mondo del lavoro.
Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport

Stefani Bartezzaghi (59 anni) è figlio di Piero, famoso enigmista, e fratello di Alessandro, condirettore della Settimana Enigmistica, e di Paolo, redattore della Gazzetta dello Sport

Quella ’barzelletta’, da lei pescata su Internet nel 2002, continua a far sorridere ma un po’ anche inquieta, non è vero professor Bartezzaghi? “Da studioso che si occupa di diversi tipi linguaggio, volevo mostrare come agiscono alcuni stereotipi all’interno della mentalità e della lingua, come avevo fatto anche in 'Non se ne può più’, libro anche scherzoso, che appartiene a un certo tipo di mie produzioni. Adesso le cose si sono fatte più serie ed è nato un dibattito molto acceso sulla questione legata all’uso dello schwa ma anche all’abolizione della parola 'razza' dalla Costituzione Italiana . Il mio obiettivo è mettere in discussione alcuni presupposti, ovvero che cambiando le parole cambierebbe anche il nostro punto di vista". Tra parole e punto di vista c’è indubbiamente una relazione: ma quanto può essere utile abolire parole considerate dispregiative come 'razza'? “Poco. Mi sono deciso a non entrare nel merito della querelle sullo schwa, inquinata da altre questioni, e allora lì nasce un dibattito che non mi piace; penso che dovremmo conoscere un po’ meglio il linguaggio, che è qualcosa che conosciamo poco ma abbastanza per sapere che le parole cambiano, anche. Parole che erano offensive un tempo, poi non lo sono state più. E non si tratta sempre e solo di parole. Faccio l’esempio dei mancini, fortemente discriminati anche fisicamente fino a due generazioni fa, bambini di 5 o 6 anni che venivano puniti, perfino picchiati finché non usavano la mano destra, in quanto la sinistra era quella del diavolo: non c’è stato il sindacato dei mancini, è stata la cultura che si è resa conto che non si trattava di una credenza religiosa, ma superstiziosa. Anche molte delle parole di quel monologo che poi ha ripreso Paola Cortellesi, sono termini che per fortuna nessuno per insultare una donna usa più: 'mondana’ era una parola che fino a qualche tempo fa era usata in accezione spregiativa, adesso no. È divertente nel contesto di quel monologo, ma io alle mie figlie ho dovuto spiegare cos’è una mondana e cosa significava in passato". Chi è che oggi dice più 'passeggiatrice’...

Sullo schwa è uscito dalle discussioni tra linguisti e socio-linguisti diventando un tema divisivo come la legge Zan

“E chi userebbe più un aggettivo come (donnina) ’allegra’. Quindi quel monologo ci dice che linguaggio può essere sessista, ma anche che cambia: soprattutto in queste zone delicate del lessico, quando le parole vengono usate per dire qualcosa di spiacevole e allora ripieghiamo su eufemismi: 'un brutto male’ , ad esempio. Bisognerebbe conoscere, capire che la parole non stanno fisse: se avessi detto 'casino’ davanti a mia madre da piccolo, avrei preso uno schiaffo, perché negli anni è diventato una brutta parola, mentre nasceva come parola gentile quando 'lupanare’ era una parola volgare. Poi è diventato volgare anche 'casino'. Quando dico che le parole non stanno fisse intendo sostenete che non è che se uno dice negro è razzista, perché fino a tutti gli anni ’80 negro si usava come termine normale". In tempi di politicamente corretto è facile incappare in qualche gaffe, non sappiamo più che parole usare... "Volendo dare retta a tutte le cose che escono, si rischierebbe di non dire più niente. Io non approvo l’epurazione del linguaggio. Se togliessimo la parola 'razza' dalla Costituzione italiana, come faremmo a dire che un delitto ha un aggravante perché causata dal razzismo? Cioè, io lo so che per la scienza la razza non esiste, ma resta il fatto che per i violenti contro qualcuno deve esistere il razzismo come aggravante. Nel mondo anglosassone hanno inventato la N-Word, dire 'negro' è un tabu. E questo è un problema, in quanto i tabu restano lì latenti, non si superano".  Quindi esistono gli eccessi linguistici?
Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010

Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più, Mondadori, Milano 2010

“A me fa un po’ impressione vedere che nel nome dell’inclusione stabiliscono e introducono delle interdizioni: e a quel punto mi viene da sostenere che non è vero che le parole siano così importanti. Noi abbiamo un’idea di una parola come un’etichetta applicata a una cosa, ma non funziona così. Tutte le parole possono essere riscattate. Chiaro, dipende come si usano: nel momento in cui uno si sente offeso da un uso linguistico altrui, lì un problema c’è di sicuro. Però dobbiamo anche togliere un po’ di questa enfasi che viene fatta, anche sul vittimismo vero e proprio. A un certo punto uno deve andare anche oltre anche la questione della parola e andare a vedere il rapporto di forza. Allora lì le cose diventano quelle serie".  Occorre fare un passo in avanti? “Certamente. La mentalità cambia, non è che sia immutabile: ma non è che, se non cambiamo il linguaggio, non cambia la mentalità. Noi abbiamo degli stereotipi: l’istinto è diffidare da chi è diverso da noi. Ma esiste la ragione. Fossimo condannati a restare quello che eravamo, non potremmo vivere. Occorre accettare le trasformazioni".  Quando le parole non bastano, arrivano le sigle: da Lgbt a Lgbtqia+... “Beh, sono indicatori di nuove mentalità, di nuove sensibilità, di nuovi problemi che stanno emergendo e vengono posti alla nostra società. Noi una volta parlavamo dei diversi, degli anormali, dei devianti. Chi non era eterosessuale era considerato un diverso, come se non fosse ’normale’, perché c’era una norma. Si parlava anche di ‘invertiti’ per intendere persone che funzionano come “al contrario” di quanto decreta la natura. A un certo punto ci siamo resi conto che questi modi di dire erano del tutto inadeguati, oltre che offensivi".
Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di 'Harry Potter'

Tra le varie attività di Stefani Bartezzaghi (59 anni), c’è anche stata la revisione della traduzione dei libri della saga di 'Harry Potter'

 E allora cosa è scattato? “Queste persone, coloro che si occupano di questi argomenti, magari perché li vivono in prima persona, a un certo punto non sono più riusciti a trovare una categoria che li comprendesse e li rappresentasse. Ricordo che quando in italiano si è iniziato a parlare di gay, il termine comprendeva sia uomini sia donne. Poi è rimasto agli uomini e le donne si sono autodefinite lesbiche, parola che prima veniva usata in modo offensivo. L’obiettivo è distinguere le singole posizioni, lasciando che comunque siano accomunate. Ecco che nasce la sigla Lgbt : poi neanche quella basta, si allunga, fino a quando si arriva al punto di non mettere più un segno alfabetico ma un operatore logico, il + (plus). Soluzione efficace, ma...". Ma, professor Bartezzaghi? “Significa la rinuncia al linguaggio: si è creato un concetto che, linguisticamente parlando, non ha un nome possibile, un fatto notevole e non certo positivo. Bisognerebbe riuscire a parlare di tutto; se vengono a crearsi dei tabu, cose di cui non si riesce a parlare e a cui dobbiamo alludere neanche più con le parole, ma con un costrutto completamente artificiale rispetto alla lingua, quello è un problema serio di semiotica. Un problema diverso da quello dibattuto sui social network". Le trasformazioni richiedono tempo e creano confusione: lei come si rivolge ai suoi interlocutori? “Con gli studenti uso le formule tradizionali e da molti anni cerco di non usare indiscriminatamente il maschile sovraesteso". Termini come sindaca, ministra: cosa pensa dei casi linguistici? “Ognuno ha una sua portata, nel caso dei femminili delle professioni, ci sono degli usi tradizionali (dottoressa, professoressa, studentessa); c’è una grammatica, che consente di dire studente anche di una ragazza, così come si fa con docente. Ci sono parole che non sono mai esistite, perché non avevano chi nominare: fino a quando non c’erano ingegneri donne non c’era bisogno di chiamarle ". Le voci critiche ne fanno una questione di... suono. “Mi fa molto ridere il problema della cacofonia. Perché si tratta solamente di parole a cui non siamo abituati: ingegnera è più brutto di infermiera? No, è solo che al termine infermiera siamo più abituati. Ogni parola nuova potenzialmente ci disturba. Pensiamo: infermiera e ingegnera sono vocaboli assonanti, eppure l’uno suona bene e l’altro meno. È una questione di abitudine, ma non si parla soltanto di abitudine all’orecchio quanto di abitudine a vedere donne che fanno certe professioni, una volta riservate ai soli uomini. Noto che le persone nate negli anni ’90 tanti di questi problemi neanche li sentono. Il motivo? Hanno vissuto in una dimensione che in parte è andata oltre. Per certi aspetti è già un mondo diverso e il mio augurio è che si continui a procedere proprio in questa direzione”.