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Home » Spettacolo » Un filo contro la discriminazione: con l’arte Luna De Rosa vuole rompere il pregiudizio sui Rom

Un filo contro la discriminazione: con l’arte Luna De Rosa vuole rompere il pregiudizio sui Rom

L'opera composita, multimediale, "La struttura dell’antiziganismo", a Villa Romana spezza le catene della rappresentazione stereotipata della comunità

Domenico Guarino
5 Novembre 2022
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Resistere al razzismo è un’arte. Soprattutto se sei una donna Rom, costretta per questo stesso fatto a dover fare continuamente i conti con stereotipi tanto pesanti da sopportare quanto radicati nella società. Luna De Rosa lo sa benissimo. Abruzzese di nascita, vive tra Berlino e Milano, e con la sua arte fatta di performance, lecture e dipinti, porta avanti la sua missione che è di testimonianza e provocazione. Un’arte tesa a sobillare le coscienze di fronte all’abominio della discriminazione e della violenza xenofoba, e ad istillare nell’animo e nella mente di chi guarda/assiste alle sue opere un modo diverso di vedere e pensare le cose. Un’angolazione nuova e sorprendente, che restituisca il senso della realtà in forma inedita, andando spesso a confliggere con i convincimenti più radicati. I pre-giudizi, appunto. Quelle catene, quei fili invisibili ma allo stesso tempo inesorabili, che cuciono addosso alle persone la loro identità sociale, frutto come sempre di una cultura, di una storia, di un assetto di potere che determina le relazioni e le costruisce secondo cliché dati.

Luna ha recentemente svolto una residenza artistica a Villa Romana, a Firenze, che si è conclusa con una performance ideata proprio nel soggiorno fiorentino, intitolata “La struttura dell’antiziganismo“. “È un’opera che si compone di vari pezzi. Una performance, una lecture, ed un collage dipinto in cui ho cercato di esprimere come si è costruito il pregiudizio nei confronti dei Rom, come si determina concretamente nella vita di tutti i giorni, quali conseguenze comporta, e come si può destrutturare, a partire dall’elemento femminile delle Romnia (le donne Rom, ndr) che subiscono una doppia discriminazione: fuori e dentro le comunità” dice De Rosa.

Luna De Rosa
Luna De Rosa con l’opera “La struttura dell’antiziganismo” ideata ed esposta a Villa Romana (Firenze)

Come come si definirebbe?
“Io sono un’artista multimediale, attivista Romni. Lavoro su tematiche che riguardano le discriminazioni sulle varie minoranze etniche, in particolare quella dei Rom. Il progetto su cui sto lavorando adesso è proprio centrato sul ruolo dell’identità delle donne Rom, per cui vado ad indagare sulle multiple identità, sui valori multipli che le rappresentano”.

Vista l’immagine pubblica che hanno, uno potrebbe chiedersi: ma perché esistono anche dei Rom artisti?
“Ebbene sì. Esistono Rom artisti, giornalisti, accademici, questori di polizia. I Rom sono integrati assolutamente in tutti gli abiti sociali. Quella che è sbagliata è la rappresentazione dei Rom, che costruisce un immaginario distorto alimentato dai libri, dai media, dalla comunicazione di massa. Basti pensare alla questione dei campi Rom che, diversamente da quanto si crede, sono una creazione tutta italiana. Nella considerazione generale i Rom sono quelli, generalmente ‘brutti, sporchi e cattivi’, che vivono nei campi. Ma in realtà ci vivono – non per scelta loro ma perché ci sono stati messi – solo il 20% dei Rom italiani. Il resto vive nelle case, come tutti. Io ad esempio ho sempre vissuto in casa, i miei genitori anche, i miei nonni pure e così via. I campi li ho visti solo negli articoli di stampo razzista, propinati dai media, nel racconto, nella propaganda”.

Luna De Rosa
Luna De Rosa

Quando ha capito di essere un’artista?
“Nel momento in cui ho abbandonato l’Abruzzo. Sono andata via perché l’etichetta di essere ‘una Rom’, cominciava a pesarmi. A Milano ho cominciato l’Accademia di Belle Arti e, confrontandomi con i professori e gli altri studenti, ho capito come l’arte possa avere un ruolo importantissimo per destrutturare gli stereotipi, per dar forma a ideali, pensieri, per dar voce alla creazione e alla rappresentazione di mondi alternativi, e soprattutto a una visione che ha a che fare col sentirsi ‘diversi’. Da lì ho cominciato a sviluppare questa passione, che comunque avevo nutrito sin da piccola, dando vita a performance che dessero corpo al mio background, rappresentando queste identità complesse di cui ero imbevuta ma che nemmeno io riuscivo a capire fino in fondo”.

Quindi l’arte è stato anche un mezzo per riscoprire le sue origini?
“Sì. L’arte mi ha rivelato a ma stessa. (Uno strumento per) investigare, capire e scoprire le mie origini”.

Luna De Rosa
Luna De Rosa a Villa Romana

Come si combatte contro gli stereotipi?
“Bisogna partire dall’inizio, dalle radici della discriminazione nei confronti dei Rom. Capire la struttura dell’antiziganismo, da dove arriva. Conoscere la storia, la schiavitù, la sterilizzazione di molte donne rom e riconoscere che, al di là di tutto, le differenze portano a qualcosa in più e non in meno. Il lavoro che sto facendo, ad esempio, fa parte di una serie che si chiama ‘cosa vuol dire essere Romnia’. È cominciata agli inizi dell’anno con un dipinto e poi si è sviluppata attraverso interviste a ragazze Romnia di diverso background, di diversi Paesi, circa il loro ruolo all’interno delle comunità e della società, dei contesti pubblici in cui erano inserite. Il modo in cui sono rappresentate e quello in cui vorrebbero esserlo. Ho collezionato tutte queste storie, per poi rappresentarle a mia volta con letture, performance, scritture, dando forma ad una narrazione su quelle che sono identità politiche delle Romnia”.

Ci descrive l’opera che hai realizzato per Villa Romana?
“È un’opera composita, una performance multimediale composta da voci, pannelli, movimento nello spazio e da un dipinto/collage, che poi andrà al museo di Marsiglia. Il tutto con al centro, appunto, il concetto di antiziganismo. Attraverso l’uso del filo sono andata cucire questo tessuto dove ci sono varie scritte, come ad esempio quelle delle identità multiple, sessuali, l’uso degli hashtag, perché nel mondo social non esiste più un’individualità ma siamo tutti chiamati ad appartenere a qualcosa. L’idea del filo nasce dalla riflessione sul fatto che siamo sempre alle prese con quello che ci ‘cuciono addosso’: un’etichetta, un’identità, una scrittura invisibile ma inesorabile che ci viene data dagli altri, dall’opinione pubblica. Il marchio della socializzazione. Ho usato il filo rosso e nero perché il rosso è il colore della violenza verso le donne e il nero è quello del razzismo, delle discriminazioni. Attraverso il mio movimento nello spazio, i fili si sono andati a perdere in direzioni diverse mentre io vestivo il mio corpo, cucendolo a partire dalle trame intessute dalle diverse persone che erano parte della performance”.

La struttura dell’antiziganismo
“La struttura dell’antiziganismo” l’opera composita di De Rosa a Villa Romana

Cosa ha voluto rappresentare in questo modo?
“Il mio lavoro si basa sul modo in cui il corpo si lega con i contesti pubblici, sociali, in cui veniamo governati, definiti, chiamando le persone del pubblico ad interagire e a farlo entrare nelle mie performance. Oltre a questo poi c’è un’installazione composta da pezzi di stoffa che richiamano gli striscioni di protesta in un’epoca in cui la gente è tornata a scendere in piazza. Ho usato la seta perché è un materiale fragile ma anche molto resistente, richiama all’erotismo ma anche a qualcosa attraverso cui si possa vedere, un velo che copre ma non nasconde. Le scritte richiamano invece al manifesto delle Donne Rom che ho composto e letto per l’occasione, ispirandomi al manifesto del cyberfemminismo di Donna Haraway (1991), attraverso le frasi che sono state narrate da diverse femministe Rom”.

Come è stato il soggiorno a Villa Romana? Che esiti ha portato nello sviluppo della sua creatività, del suo percorso artistico?
“È stata un’esperienza importantissima. Ho innanzitutto imparato a relazionarmi ancora di più con altre culture. Poi Villa Romana è proprio un posto magico: un paradiso a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla città assediata dal turismo di massa. Un’oasi di pace e di riflessione con un giardino meraviglioso dove ho potuto trascorrere intere giornate pensando ai miei prossimi progetti”.

Si definirebbe un’artista impegnata?
“Sì. Perché penso che comunque l’arte sia una piattaforma per un cambio sociale”.

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L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet
Resistere al razzismo è un’arte. Soprattutto se sei una donna Rom, costretta per questo stesso fatto a dover fare continuamente i conti con stereotipi tanto pesanti da sopportare quanto radicati nella società. Luna De Rosa lo sa benissimo. Abruzzese di nascita, vive tra Berlino e Milano, e con la sua arte fatta di performance, lecture e dipinti, porta avanti la sua missione che è di testimonianza e provocazione. Un'arte tesa a sobillare le coscienze di fronte all'abominio della discriminazione e della violenza xenofoba, e ad istillare nell’animo e nella mente di chi guarda/assiste alle sue opere un modo diverso di vedere e pensare le cose. Un’angolazione nuova e sorprendente, che restituisca il senso della realtà in forma inedita, andando spesso a confliggere con i convincimenti più radicati. I pre-giudizi, appunto. Quelle catene, quei fili invisibili ma allo stesso tempo inesorabili, che cuciono addosso alle persone la loro identità sociale, frutto come sempre di una cultura, di una storia, di un assetto di potere che determina le relazioni e le costruisce secondo cliché dati. Luna ha recentemente svolto una residenza artistica a Villa Romana, a Firenze, che si è conclusa con una performance ideata proprio nel soggiorno fiorentino, intitolata "La struttura dell’antiziganismo". "È un’opera che si compone di vari pezzi. Una performance, una lecture, ed un collage dipinto in cui ho cercato di esprimere come si è costruito il pregiudizio nei confronti dei Rom, come si determina concretamente nella vita di tutti i giorni, quali conseguenze comporta, e come si può destrutturare, a partire dall’elemento femminile delle Romnia (le donne Rom, ndr) che subiscono una doppia discriminazione: fuori e dentro le comunità” dice De Rosa.
Luna De Rosa
Luna De Rosa con l'opera "La struttura dell’antiziganismo" ideata ed esposta a Villa Romana (Firenze)
Come come si definirebbe? "Io sono un’artista multimediale, attivista Romni. Lavoro su tematiche che riguardano le discriminazioni sulle varie minoranze etniche, in particolare quella dei Rom. Il progetto su cui sto lavorando adesso è proprio centrato sul ruolo dell’identità delle donne Rom, per cui vado ad indagare sulle multiple identità, sui valori multipli che le rappresentano". Vista l’immagine pubblica che hanno, uno potrebbe chiedersi: ma perché esistono anche dei Rom artisti? "Ebbene sì. Esistono Rom artisti, giornalisti, accademici, questori di polizia. I Rom sono integrati assolutamente in tutti gli abiti sociali. Quella che è sbagliata è la rappresentazione dei Rom, che costruisce un immaginario distorto alimentato dai libri, dai media, dalla comunicazione di massa. Basti pensare alla questione dei campi Rom che, diversamente da quanto si crede, sono una creazione tutta italiana. Nella considerazione generale i Rom sono quelli, generalmente ‘brutti, sporchi e cattivi’, che vivono nei campi. Ma in realtà ci vivono – non per scelta loro ma perché ci sono stati messi – solo il 20% dei Rom italiani. Il resto vive nelle case, come tutti. Io ad esempio ho sempre vissuto in casa, i miei genitori anche, i miei nonni pure e così via. I campi li ho visti solo negli articoli di stampo razzista, propinati dai media, nel racconto, nella propaganda".
Luna De Rosa
Luna De Rosa
Quando ha capito di essere un’artista? "Nel momento in cui ho abbandonato l’Abruzzo. Sono andata via perché l’etichetta di essere 'una Rom', cominciava a pesarmi. A Milano ho cominciato l’Accademia di Belle Arti e, confrontandomi con i professori e gli altri studenti, ho capito come l’arte possa avere un ruolo importantissimo per destrutturare gli stereotipi, per dar forma a ideali, pensieri, per dar voce alla creazione e alla rappresentazione di mondi alternativi, e soprattutto a una visione che ha a che fare col sentirsi 'diversi'. Da lì ho cominciato a sviluppare questa passione, che comunque avevo nutrito sin da piccola, dando vita a performance che dessero corpo al mio background, rappresentando queste identità complesse di cui ero imbevuta ma che nemmeno io riuscivo a capire fino in fondo". Quindi l’arte è stato anche un mezzo per riscoprire le sue origini? "Sì. L’arte mi ha rivelato a ma stessa. (Uno strumento per) investigare, capire e scoprire le mie origini".
Luna De Rosa
Luna De Rosa a Villa Romana
Come si combatte contro gli stereotipi? "Bisogna partire dall’inizio, dalle radici della discriminazione nei confronti dei Rom. Capire la struttura dell’antiziganismo, da dove arriva. Conoscere la storia, la schiavitù, la sterilizzazione di molte donne rom e riconoscere che, al di là di tutto, le differenze portano a qualcosa in più e non in meno. Il lavoro che sto facendo, ad esempio, fa parte di una serie che si chiama 'cosa vuol dire essere Romnia'. È cominciata agli inizi dell’anno con un dipinto e poi si è sviluppata attraverso interviste a ragazze Romnia di diverso background, di diversi Paesi, circa il loro ruolo all’interno delle comunità e della società, dei contesti pubblici in cui erano inserite. Il modo in cui sono rappresentate e quello in cui vorrebbero esserlo. Ho collezionato tutte queste storie, per poi rappresentarle a mia volta con letture, performance, scritture, dando forma ad una narrazione su quelle che sono identità politiche delle Romnia". Ci descrive l’opera che hai realizzato per Villa Romana? "È un’opera composita, una performance multimediale composta da voci, pannelli, movimento nello spazio e da un dipinto/collage, che poi andrà al museo di Marsiglia. Il tutto con al centro, appunto, il concetto di antiziganismo. Attraverso l’uso del filo sono andata cucire questo tessuto dove ci sono varie scritte, come ad esempio quelle delle identità multiple, sessuali, l’uso degli hashtag, perché nel mondo social non esiste più un’individualità ma siamo tutti chiamati ad appartenere a qualcosa. L’idea del filo nasce dalla riflessione sul fatto che siamo sempre alle prese con quello che ci 'cuciono addosso': un'etichetta, un'identità, una scrittura invisibile ma inesorabile che ci viene data dagli altri, dall’opinione pubblica. Il marchio della socializzazione. Ho usato il filo rosso e nero perché il rosso è il colore della violenza verso le donne e il nero è quello del razzismo, delle discriminazioni. Attraverso il mio movimento nello spazio, i fili si sono andati a perdere in direzioni diverse mentre io vestivo il mio corpo, cucendolo a partire dalle trame intessute dalle diverse persone che erano parte della performance".
La struttura dell’antiziganismo
"La struttura dell’antiziganismo" l'opera composita di De Rosa a Villa Romana
Cosa ha voluto rappresentare in questo modo? "Il mio lavoro si basa sul modo in cui il corpo si lega con i contesti pubblici, sociali, in cui veniamo governati, definiti, chiamando le persone del pubblico ad interagire e a farlo entrare nelle mie performance. Oltre a questo poi c’è un'installazione composta da pezzi di stoffa che richiamano gli striscioni di protesta in un’epoca in cui la gente è tornata a scendere in piazza. Ho usato la seta perché è un materiale fragile ma anche molto resistente, richiama all’erotismo ma anche a qualcosa attraverso cui si possa vedere, un velo che copre ma non nasconde. Le scritte richiamano invece al manifesto delle Donne Rom che ho composto e letto per l’occasione, ispirandomi al manifesto del cyberfemminismo di Donna Haraway (1991), attraverso le frasi che sono state narrate da diverse femministe Rom". Come è stato il soggiorno a Villa Romana? Che esiti ha portato nello sviluppo della sua creatività, del suo percorso artistico? "È stata un’esperienza importantissima. Ho innanzitutto imparato a relazionarmi ancora di più con altre culture. Poi Villa Romana è proprio un posto magico: un paradiso a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla città assediata dal turismo di massa. Un’oasi di pace e di riflessione con un giardino meraviglioso dove ho potuto trascorrere intere giornate pensando ai miei prossimi progetti". Si definirebbe un’artista impegnata? "Sì. Perché penso che comunque l’arte sia una piattaforma per un cambio sociale".
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