
Rajae Bezzaz
“Ribelle”: è questa la parola che Rajae Bezzaz ripete più spesso per raccontare se stessa e la sua vita, che somiglia più a un film. La sua storia comincia nella calda estate libica, a Tripoli, il 20 luglio 1989. Rajae nasce da padre marocchino-amazigh (in lingua berbera “uomo libero”: con questo termine si indicano quelle popolazioni berbere che non sono state arabizzate e che costituiscono una vasta minoranza nel Maghreb) e da madre marocchina, in un’epoca in cui le unioni tra un berbero e un’araba non erano ben viste. “Praticamente sono nata già emigrata, nello stesso anno della caduta del muro di Berlino: forse era un segno di quello che sarebbe stato il mio destino, un po’ off-limits”, scherza.
Lei ha trascorso parte della sua infanzia a Tripoli, poi i suoi genitori hanno deciso di emigrare per tentare fortuna, prima in Svizzera e poi in Italia…
“Sì, volevano dare a me e a mia sorella un futuro migliore. Nel frattempo, noi siamo rimaste in Marocco, coccolate dall’affetto della famiglia materna. Poi, le strade dei miei genitori si sono separate: mia madre ha continuato la sua vita con un altro uomo, mentre mio padre si è risposato con una donna amazigh. Così, quando avevo 9 anni e mia sorella 11, ci siamo trasferite in Italia da mia madre. Quel passaggio non è stato difficile tanto per la cultura, quanto per lo strappo familiare: in Marocco ci imboccavano il cous cous con le mani da quanto eravamo accudite in tutto e per tutto. In Italia, mia madre faceva tre lavori e capitava spesso che dovessimo scaldarci il cibo da sole al microonde, ad esempio. E poi, ero abituata a stare fino a tardi per strada con gli altri bambini, in un mondo dove il vicino di casa dava un’occhiata anche per te: questo in Italia non si poteva fare”.
Prima di trovare una sua stabilità, sono passati molti anni…
“Arrivata in Italia, non riconoscevo più l’autorità di mia madre. Quando avevo 13 anni, lei decise di tornare in Marocco e portò anche me. Ma non ne potevo più di questo “ping-pong”. Dopo un anno in Marocco, tornai da mio padre, che viveva a Catanzaro. Poi ho vissuto praticamente da sola: prima con mia sorella a Bologna, poi a Roma. Ora vivo a Milano. Tutti questi spostamenti non sono stati una passeggiata, ma mi hanno permesso di conoscere tanti posti d’Italia. Penso alla Toscana: la prima città italiana in cui ho vissuto è stata Lucca. Dal Marocco avevamo preso un volo per Roma, e da lì io e mia sorella siamo atterrate a Pisa. Mi ricordo ancora le luci di Natale, sembrava un luna park. Ho visitato tante volte Firenze: la frequentavo per via del Tribunale dei Minori, perché inizialmente mio padre non accettava l’affidamento a mia madre. È stato difficile fare pace con tutto e con tutti, ma oggi sono felice di aver vissuto in tanti luoghi: è stato bellissimo”.
E come è arrivata alla tv?
“Ho sempre voluto lavorare nello spettacolo. Quando io e mia sorella eravamo piccole, nostra nonna ci iscrisse in una compagnia teatrale: lì è nata la mia passione. A 15 anni volevo studiare e condurre, ma non avevo il sostegno dei miei parenti, che non vedevano di buon occhio il mio avvicinamento a quel mondo, mentre mia madre aveva paura. Ma quello ormai è un capitolo lontano: oggi sono molto fieri e felici per me. Hanno capito che i loro insegnamenti non sono andati persi. È capitato che per sette anni non parlassi con la mia famiglia e non tornassi in Marocco. Ho avuto un carattere che ha messo in difficoltà le figure femminili più importanti della mia vita, mia madre e mia nonna, nonostante sia cresciuta in un matriarcato assoluto. Un matriarcato spesso criticato dai miei zii, che pensavano che la mia ‘follia’ derivasse proprio dal fatto di essere stata cresciuta da altre donne”.
Poi è arrivata Striscia la Notizia…
“Sì, ho iniziato nel 2015, in punta di piedi. Ho iniziato parlando di temi che mi stanno profondamente a cuore: l’equilibrio tra culture, la risoluzione dei conflitti, la condizione giovanile, il femminismo. Era anche un modo per raccontare me stessa e le tante sfaccettature della mia identità. Tutto ciò che ho vissuto mi ha resa più sensibile, più consapevole. Quando si parla di razzismo o di discriminazioni sul lavoro in quanto donna, io posso dire “l’ho provato sulla mia pelle”. Ma se non hai vissuto certe esperienze, se non hai empatia, è difficile comprendere. Io vorrei offrire strumenti per capire, per entrare nei panni degli altri. Solo così possiamo davvero imparare ad avere empatia”.

A Striscia usate spesso un tono ironico anche per temi seri: come si trova l’equilibrio tra leggerezza e denuncia?
“L’ironia – e soprattutto l’autoironia – è la chiave per far arrivare i messaggi senza snaturarli. Li rende più accessibili, più “masticabili” da tutti. È anche un modo per coinvolgere chi altrimenti si sentirebbe distante o stanco di sentir parlare solo di cose negative. Con un po’ di leggerezza, tutto diventa più affrontabile. Perché i problemi degli altri sono anche i nostri: non si può vivere da ricchi in un mondo di poveri, o essere felici in un mondo pieno di infelici. Siamo cellule di un’unica macchina. Purtroppo, tanti oggi sono esausti, disillusi. Antonio (Ricci, ndr) ha trovato la chiave giusta per raccontare i tempi che viviamo. Io, da parte mia, ho imparato ad allenare il senso della leggerezza. Striscia è una palestra perfetta: ci ricorda che dietro ogni telecamera ci sono persone in carne e ossa, e che un po’ di leggerezza può farci respirare, soprattutto quando tutto sembra troppo pesante”.
Lei inizia sempre i suoi servizi con il saluto “Cari amici italiani”…
“Per me, “cari amici italiani” sono tutti quelli che ci guardano e sono interessati a quello che racconto. È una provocazione, detta da una persona che ha dovuto soffrire 25 anni per ottenere la cittadinanza italiana. Quando comunichi, la responsabilità è enorme: quello che dici può essere facilmente travisato. Io cerco sempre di stare attenta alla sostanza e alla struttura del messaggio… ma non ne faccio un’ossessione. E per fortuna, se ci sono fraintendimenti, c’è sempre la possibilità di spiegare e chiarire”.
Utilizza spesso i suoi canali social per raccontare temi che le stanno a cuore e che, magari, non tutti conoscono a pieno. Uno di questi è il Ramadan...
“Rispetto a qualche anno fa, le cose stanno cambiando: oggi, durante il Ramadan, cerco di fare divulgazione sui miei canali social. Creo contenuti semplici, diretti, e poi li lascio in evidenza, così che chiunque possa accedervi in qualsiasi momento e gratuitamente. Per me, è un modo per avvicinare le persone alla conoscenza dell’altro e di ciò che spesso si ignora. Anch’io seguo creator marocchini sparsi nel mondo: è così che scopro nuove culture, nuove prospettive. Questo tipo di divulgazione, se fatta in modo leggero ma consapevole, è potentissima. I social possono essere una risorsa incredibile, se usati bene: cerco di creare un dialogo con la community, di informare e anche di informarmi. Viva i social, se diventano strumenti per conoscere e capirsi di più”.
Nel 2021 ha pubblicato la sua autobiografia, “L’araba felice”...
“L’ho sempre detto: la mia famiglia mi regala perle incredibili, e mia madre è un concentrato di sorprese. È autonoma, piena di iniziativa, con una forza contagiosa. Dicevo sempre che se mai avessi scritto un libro, sapevo che si sarebbe chiamato “Tutta colpa di mia madre”. Durante la pandemia ho finalmente avuto il tempo di mettermi a scrivere: ci ho messo nove mesi, come una gravidanza. È stato un viaggio emotivo enorme, ho pianto tanto rileggendo certi passaggi. Non ho inventato nulla, niente è stato romanzato, eppure in molti mi hanno chiesto se alcune storie fossero vere. Il prossimo libro si intitolerà “Lo giuro”, perché è tutto assolutamente autentico. Mi ha colpito che tante coppie miste si siano riconosciute nella mia storia: sapere che il mio racconto può essere uno specchio per altri mi riempie di orgoglio. E spero davvero che chi ha letto “L’Araba felice” si sia anche fatto qualche risata, nonostante i temi forti che tocca”.
Ha molti progetti, alcuni dei quali mettono proprio il Marocco al centro.
“Sono cresciuta in mezzo a donne forti, circondata da una famiglia bellissima. Ma non tutti i bambini hanno avuto la mia stessa fortuna: tanti nascono in contesti difficili, magari da relazioni extraconiugali o in famiglie che non hanno possibilità economiche. Ho voluto creare un ponte tra mondi, qualcosa di concreto. Insieme alla Fondazione Rava stiamo lavorando per aprire una casa famiglia in Marocco: un rifugio, un punto di riferimento per mamme e bambini, costruito a partire da realtà già esistenti che difendono l'infanzia e i diritti delle donne. Abbiamo studiato il territorio, parlato con le persone, individuato le aree più vulnerabili, anche nei luoghi più turistici, spesso segnati da forti contraddizioni e abusi. Stiamo organizzando eventi per raccogliere fondi e sensibilizzare su questi temi. Il Marocco mi ha dato tutto: mi ha insegnato l’ospitalità, l’empatia, la bellezza, l’amore, la femminilità. Uno degli uomini più illuminati che abbia mai conosciuto nella mia vita era proprio mio nonno, che diceva “nessuno può dire alle proprie figlie cosa devono fare”. È stato lui a insegnarci a essere ribelli. E io, avendo ricevuto tanto, sento il dovere di restituire. L’Italia e il Marocco sono i miei due grandi amori: due anime che convivono dentro di me”.
Giovanni Caccamo l’ha coinvolta nel progetto “Manifesto per il cambiamento”, destinato ai più giovani. Da dove nasce il bisogno di raccontarsi alle nuove generazioni?
“Il Manifesto per il cambiamento è stato tradotto in più lingue ed è accessibile a tutti: è un invito a riflettere e a contribuire al cambiamento. Credo molto nel potere del confronto con i giovani: informare e informarsi è ciò che ci tiene vivi, curiosi, al passo con i tempi. Per questo vado spesso nelle scuole, per ascoltare e capire dove siamo oggi, come siamo cambiati. I giovani sono i veri protagonisti di questo tempo, ma tocca a noi accompagnarli. Abbiamo il dovere di condividere ciò che abbiamo imparato, di prenderli per mano: non esiste crescita senza dialogo tra generazioni. Ricordo un’esperienza che mi ha colpita molto: ho lavorato con un bambino egiziano, giovanissimo, nel cortometraggio “Ultima Generazione” di Andrea Castoldi. Lui si sentiva profondamente italiano, mentre le sue sorelle si identificavano di più con le origini arabe. Quando provavamo a parlare in arabo, lui scoppiava a ridere! È la prova di come l’identità possa cambiare da una generazione all’altra. Nel manifesto, la parola è “innocenza”, e da lì sono partita per raccontare passato, presente e futuro, il mio rapporto con il femminile e con la mia terra”.
La sfida del dialogo intergenerazionale la porta avanti anche in altri progetti, come l’intervista a Corinne Cléry alla Versiliana…
“Intervistare Corinne è stato un onore. Lei ha rivoluzionato la comunicazione proprio negli anni in cui io venivo al mondo. È stato uno scambio bellissimo tra due generazioni”.
Secondo lei oggi c’è davvero più inclusione verso chi viene percepito come “diverso”?
“Credo che stiamo migliorando. Anche dove la politica è miope e prova ad alzare muri, resta forte il bisogno delle persone di unirsi, di capirsi. È in atto un percorso di crescita collettiva, certo ancora pieno di paure. La noncuranza genera diffidenza: quando non conosci qualcosa, ne hai paura. Ma io sono ottimista. È un processo lento, sì, ma inarrestabile. E quando parte dal basso, non lo fermi più”.