Una vita dedicata al teatro col quale si possono affrontare temi di attualità non sempre comodi: Marianella Bargilli lavora per questo, per dare voce sulla scena anche a chi è escluso, a chi deve denunciare un sopruso o deve combattere un abuso o vuole conquistare un diritto. Sta preparando due spettacoli “difficili”, ma molto interessanti e, appunto, scomodi, ma li affronta con tutto il suo entusiasmo e la voglia di raccontare anche i momenti più difficili dell’esistenza. Compresa la sua.
Il primo che andrà in scena, a partire dal 26 aprile, è “Spose. Le nozze del secolo“, una storia vera avvenuta in Spagna nel 1901 con due donne, Elisa e Marcela, che riuscirono a sposarsi in chiesa con uno stratagemma.
Marianella, a oltre un secolo si tratta di un argomento ancora tabù. Che cosa ne pensa?
“Che in una unione, chiamiamola come si vuole, l’importante è che ci sia amore. In più queste due donne hanno manifestato coraggio e sono felice di poterlo raccontare per superare tabù vetusti e perché mi trovo vicina a loro”.
In che senso?
“Che ho avuto, prima che trovassi un uomo con cui mi sono sposata (Geppy Gleieses, da cui ora è separata, ndr), una fidanzata londinese; quando eravamo in Italia e andavamo mano nella mano c’era gente che ci guardava come aliene e chi in macchina sbandava. Ci stavo male, perché sono contro le persone che giudicano la libertà degli altri“.
Come ha vissuto quella relazione?
“Benissimo, mia madre sapeva tutto e io ero serena e felice. Ne avevo parlato anche tranquillamente al Grande Fratello“.
Si continua a pensare che le coppie omosessuali non possano avere figli: lei su che posizione è?
“Che lo possano fare. Io sono figlia di una donna che ha portato avanti la prole da sola. Se avessi avuto due mamme forse sarei stata più felice”.
Che cosa rende attuale questa opera e che metafora ci regala per l’oggi?
“Che non abbiamo ancora capito quanta importanza abbia l’amore. Anche in questo 2023 assistiamo a sentimenti allo sbando. Gli uomini pensano solo alla loro virilità, due maschi insieme scandalizzano, siamo ancora indietro. Ma anche le donne vengono guardate con diffidenza soprattutto sul posto di lavoro“.
Ancora più profondo e drammatico il tema de “Il corpo della donna come campo di battaglia”, di Matei Visniec, già visto a Todi e nei prossimi mesi in tournée con la regia di Alessio Pizzec: le donne violate durante la guerra in Bosnia. I soprusi di genere sono ancora all’ordine del giorno, come mai?
“L’uomo si sente inferiore di fronte alla donna e deve mostrare la sua forza, la sua virilità, e così diventa violento. Non trovo un’altra giustificazione al fatto che la violenza sulle donne continui ad aumentare”.
Portare sulla scena queste questioni è utile?
“Si tratta di una funzione sociale altissima, oltre che un lavoro. Ci sono già richieste perché questo spettacolo scandisca le prossime giornate dedicate a combattere la violenza sulle donne”.
Che lei conosce bene…
“Sì, ho avuto un padre violento che picchiava sia mia madre sia noi figli minorenni. Non mi nascondo, ho lavorato molto su me stessa, conosco la violenza e le sue conseguenze psicologiche e fisiche. L’uomo non concepisce di essere di fronte a un essere meraviglioso, pieno di gioia, colei che crea la vita. L’uomo dovrebbe essere intelligente per comprenderlo, ma troppo spesso non lo è”.
Un argomento che viene taciuto a volte consapevolmente?
“E questo è un male, prima il tabù della violenza faceva tenere tutto dentro le mura domestiche, invece più se ne parla più si può arrivare a una soluzione. Il silenzio galvanizza le persone violente, soprattutto uomini che non stanno bene e devono essere curati”.
Come si fa a tenersi tutto dentro?
“Ci si sente allarmate, impaurite, dispiaciute. Vorremmo finisse tutto domattina, ma non è giusto, non è così. Le donne devono parlarne e chi ha il problema in casa lo dica subito. L’omertà, il perdono, sono grossi errori”.
C’è anche un bisogno di autonomia…
“Certo, la donna che vive sulle spalle di un uomo rischia di più”.
Nel dramma bosniaco la violenza avviene durante una guerra: quale la differenza?
“In questo caso ci sono varie etnie in lotta, ma chi ci rimette è sempre la donna. L’uomo violenta per dimostrare che la guerra è maschia e che quindi è degno di combatterla”.
Ci sono anche conseguenze sociali, sulla famiglia, sui bambini…
“Sì, la donna violentata vuole eliminare il bimbo che ha in grembo concepito con l’abuso sessuale, ma la psicologa cerca di farle capire che magari la sua nascita la riporterà alla vita”.
Tornando all’oggi, il movimento Me Too nato fra le donne di spettacolo ha portato qualcosa di buono?
“Ah, saperlo. Comunque ha tirato fuori degli scheletri dagli armadi e questo è servito. Dobbiamo comunque dire, con onestà, che talvolta qualche donna provoca e casca nell’inganno che se prendi quella strada è tutto più semplice”.
Lei, per il suo lavoro, ha mai subito offerte scandalose?
“No, sempre quelle forme lievi che ci stanno nel gioco della vita. Basta dire no”.