Una giovane donna a bordo di una Deux Chevaux, reflex al collo, scatta alla chetichella per le strade e i vicoli di Napoli e Aversa. Motivo della segretezza? Il soggetto delle foto: manifesti incollati sui muri, locandine di film a luci rosse. No, non si tratta di una strana perversione, ma di una ‘missione’ antropologica che in quel momento non era forse chiara nemmeno alla stessa autrice del singolare reportage urbano.
Marialba Russo, napoletana classe 1947, donna battagliera, fotografa con un bagaglio di esposizioni in mezzo mondo; è stata capace di fare della settima arte uno strumento di analisi sociale, lavorando in collaborazione con antropologi per raccontare le contraddizioni e i cambiamenti dell’Italia dagli anni’70. Nello specifico, quella liberazione sessuale partita con il Sessantotto per riscattare la donna dalla sua immagine obsoleta e sottomessa da un lato, e dall’altro le immagini di corpi mercificati, schiavizzati, trasformati in oggetti di piacere, delle protagoniste di film dai titoli fin troppo espliciti: L’insaziabile, I porno desideri di una studentessa, La moglie in calore, Fantasie di una tredicenne, Spermula.
Titoli più che eloquenti, a corredo di immagini che parlano da sole: spinte, spintissime ma, per un lungo periodo neanche troppo lontano, esposte agli occhi di adulti e piccini sui muri e nelle bacheche dei cinema. A distanza di quasi mezzo secolo, quei poster erotici – che un tempo tappezzavano le strade delle città italiane – sono al centro della mostra fotografica “Cult fiction”, curata dalla direttrice Cristiana Perrella e allestita dall’architetto Anna Fresa in uno dei musei più attenti all’avanguardia d’Italia, il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino all’8 giugno, www.centropecci.it).
Noi di Luce! abbiamo intervistato l’artista Marialba Russo, autrice degli scatti in mostra.
Sessanta locandine di film a luci rosse scattate tra marzo 1978 e dicembre ’79, tra Napoli e Aversa: come nasce l’idea?
“Casualmente. Comincia con il primo manifesto: mi colpì quell’immagine fortemente erotica inserita nel caos del contesto urbano. Una scossa elettrica, il disegno di quei corpi femminili sottomessi, incatenati, ritratti in posizioni esplicite e offerti a chi li guarda come carne da consumare, strideva in un momento storico legato alle lotte di liberalizzazione della donna. Anni di battaglie per l’emancipazione: divorzio, aborto, leggi contro la violenza, consultori, diritto di famiglia, lavoro”.
L’obiettivo?
“Indagare sul rituale tutto maschile del cinema porno, quello crudo da caserma, individuando i segni di una società in trasformazione, capace di assistere a una nuova tolleranza nei confronti della fortissima richiesta di sesso esplicito. Donne disposte a farsi filmare e a farsi guardare, ma anche a condividere la rivoluzione dei costumi in atto. Durò poco, però. Ancora non sapevamo che questa tipologia di manifesti era destinata a cadere nell’oblio. E non per scelta”.
Nel senso che è finito il richiamo del genere?
“Assolutamente no, anzi, il mercato dell’eros è fiorentissimo tutt’ora. Solo che poco dopo l’apertura dei cinema a luci rosse, quasi dei ‘ghetti’ per adulti, l’arrivo di vere e proprie star del porno come Moana Pozzi e Cicciolina, e soprattutto l’avvento dell’homevideo, con la possibilità di consumare i film erotici nell’intimità delle proprie case, portarono alla chiusura delle sale. Non alla fine del fenomeno”.
Per non parlare dell’avvento di internet e dei siti porno…
“Che hanno definitivamente spazzato via i cinema hardcore, rendendo superflua la spesa per la stampa delle locandine per pubblicizzare le pellicole”.
Le protagoniste dei film a luci rosse degli anni ’70 erano attrici dai nomi esotici: Dayle Haddon, Alice Arno, Francoise Zizi. Eppure la presenza, su alcuni di questi manifesti, di star della commedia sexy all’italiana, da Gloria Guida a Lory Del Santo (ancora chiamata Loredana) a Edwige Fenech, evidenzia quanto fosse sottile il confine tra sexy, soft porn e hardcore.
“È vero. All’epoca in cui scattai quelle immagini, mi stupiva veder apparire due volte la locandina dello stesso film nell’arco di poco tempo. Poi, l’illuminazione: si trattava di titoli che passavano alla censura e che venivano poi riproposti, in un secondo tempo, in forma integrale. Erano gli anni del ‘vietatissimo’, ‘supersexy’, ‘superporno’, ‘senza censura’: superlativi che amplificavano il messaggio di titoli dai contenuti già fin troppo espliciti, quasi grotteschi”.
Quando è nato il suo amore per la fotografia?
“A Parigi, da studentessa, nel 1968: mi ritrovai nel pieno delle manifestazioni mosse dall’Accademie des Beaux Arts e rimpiansi di non avere in mano lo strumento per riprendere quello che stava accadendo. Rientrata a Napoli comprai la mia prima macchina fotografica e non l’ho più abbandonata”.
Cosa ricorda di quei servizi? Com’è stato passare dai reportage su temi di lotta sociale a fotografare locandine di film porno?
“È stato altrettanto difficile. Ricordo che scattavo fugacemente, a distanza di sicurezza. A volte sbucando dal tettuccio aperto della mia auto, fingendo di stare riprendendo altro. Perché poteva sembrare strano che una giovane donna volesse immortalare quei poster scabrosi”.
Che effetto le hanno fatto, come donna, quelle immagini di altre donne esposte, diciamo così, più che all’ammirazione (di cui è piena l’arte) a un desiderio da caserma? Donne libere o donne oggetto?
“Inevitabilmente è un senso di fastidio quello che posso dichiarare e che ben ricordo, anche a distanza di tanto tempo”.
Lei, che pare laicamente disinvolta su questi temi, che ne pensa dei ‘consumatori’ del genere? Li disprezza, li compatisce o sorride della difficoltà a convivere con determinati impulsi?
“La volgarità esplicita mi ha sempre fatto pensare a un desiderio di sottomissione della donna da parte dell’uomo-consumatore del prodotto pornografico. Sicuramente l’argomento ha sempre suscitato un grande interesse e andrebbe studiato e approfondito. Di questo periodo si è detto molto poco… Tornando al mio giudizio, la piena assoluzione non è possibile”.
Solo di recente ha deciso di stampare questo eccezionale materiale rimasto inedito per oltre quarant’anni. Qual è stata la spinta?
“Ho finalmente metabolizzato il valore di quelle foto come documento storico di in periodo epico e la loro capacità di parlare dal passato mettendo in discussione il nostro presente”.