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Home » Spettacolo » Shadya, “una lettera d’amore alle madri, alla figlie e alle donne coraggiose dell’Iran”

Shadya, “una lettera d’amore alle madri, alla figlie e alle donne coraggiose dell’Iran”

La regista Noora Niasari sul film: "Parla dell’esperienza personale di trovare il coraggio, di cercare la luce nei momenti più bui"

Giovanni Bogani
27 Gennaio 2023
La regista iraniana Noora Niasari

La regista iraniana Noora Niasari

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Al Sundance Film Festival, il più grande festival di cinema indipendente degli Stati Uniti – quello che ha fatto scoprire i talenti di Quentin Tarantino, Jim Jarmusch, Steven Soderbergh e Damien Chazelle, solo per dirne alcuni – in questi giorni uno dei film più applauditi è stato “Shadya“, opera prima della cineasta iraniana Noora Niasari.

“Questo film è una lettera d’amore alle madri e alle figlie, alla cultura, alle ragazze e alle donne coraggiose dell’Iran”, ha detto la regista, nata in Iran e cresciuta in Australia, dove si trova una numerosa comunità iraniana. “Non avrei mai immaginato che il mio film debuttasse mentre in Iran è in corso una rivoluzione guidata dalle donne”, dice la regista. E aggiunge: “Spero che ‘Shadya’ possa far brillare una luce sulla battaglia per la libertà, sulle donne iraniane e su tutte le donne”.

 

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Un post condiviso da Noora Niasari | نورا نیاسری (@nooraniasari)

 

“Shadya” è il nome della protagonista del film, interpretata da Zar Amir-Ebrahimi, vincitrice l’anno scorso della Palma d’oro come miglior attrice a Cannes per “Holy Spider”. Siamo nel 1995. Shadya, madre di una bimba di sei anni, trova il coraggio di lasciare il marito violento, chiede il divorzio e trova rifugio in una casa per donne vittime di maltrattamenti. Non sarà un percorso facile: madre e figlia dovranno nascondersi, e la donna entrerà in conflitto anche con la propria famiglia in Iran, che si schiera contro di lei, la colpevolizza e la spinge a perdonare il marito, che dopo tutto “è un brav’uomo”. Per la donna tornerà la paura, quando il tribunale concede al padre il diritto di vedere la figlia: la madre ha il terrore che lui tenti di rapirla, e tornare con lei in Iran.

 

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Poteva diventare un dramma ricattatorio, ma la regista racconta la sua storia con semplicità, con onestà, resistendo alla tentazione di creare scene madri, o momenti strappalacrime. Al contrario, riesce a concentrarsi sui momenti di tenerezza fra madre e figlia, senza mai dimenticare la tensione: quella tenerezza, quell’armonia possono essere distrutti in un attimo dall’arrivo del marito. La storia è in parte autobiografica: a confermarlo, frammenti di super8 familiari che ritraggono la regista, bambina, inseriti nei titoli di coda. La storia della bimba del film è quella della regista. “Io sono nata in Iran e cresciuta in Australia con mia madre”, dice la regista. “Quando avevo cinque anni, lei ha sacrificato tutto per proteggerci, per vivere la vita in libertà. Alcuni anni fa, ho chiesto a mia madre di scrivere i suoi ricordi: da lì è nato il film. Ma spero che, per quanto sia ispirato a una storia personale, questo film parli a tutte le donne. ‘Shayda’ parla dell’esperienza personale di trovare il coraggio, di trovare la luce nei momenti più bui” sono ancora le parole della regista.

Il film vede, in veste di produttrice esecutiva, l’attrice due volte premio Oscar Cate Blanchett. Le prime recensioni sono state entusiastiche, e il film – che viene presentato mentre cresce l’attenzione sul movimento per i diritti delle donne in Iran – non dovrebbe faticare a catturare l’attenzione del pubblico internazionale.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
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