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Da una piccola squadra norvegese di calcio l'iniziativa sui diritti umani violati in Qatar

di MARIANNA GRAZI -
14 dicembre 2021
tromso

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Ci sono brand che sull'etichetta dei vestiti cercano di sensibilizzare l'acquirente sull'impatto della fast fashion, ovvero l'acquisto di capi a basso costo, realizzati grazie ad un'industria tutt'altro che sostenibile, magari sfruttando manodopera sottopagata e costretta ad orari di lavoro insostenibili. Altri invece, sempre attraverso un capo di abbigliamento, provano a informare il pubblico su un altro tema importantissimo, legato sempre allo sfruttamento, in questo caso dei migranti e alla violazione dei diritti umani. È il caso della squadra di calcio norvegese Tromsø IL, che il 6 dicembre scorso ha ha presentato la sua nuova terza maglia. Si tratta di qualcosa di unico, visto che sul tessuto c'è un QR code che, una volta inquadrato, rimanda ad una pagina informativa sullo sfruttamento dei lavoratori migranti impiegati nella realizzazione delle infrastrutture per la Coppa del mondo 2022 in Qatar. Ancora una volta, perché già alcuni giorni fa avevamo dato conto di una polemica legata allo Stato che ospiterà la fase fina della Fifa World Cup, i riflettori non si accendono tanto sul pallone, quanto su quello che ci sta dietro. Attraverso la maglia, realizzata in collaborazione con Amnesty International, la piccola squadra del Tromsø, comune norvegese di 77mila abitanti, vuol denunciare l’investimento da parte del Qatar di ingenti somme di denaro con cui "comprare" l’opinione pubblica occidentale e oscurare il suo carattere autoritario e il suo sistematico sfruttamento dei migranti afgani e non solo per la realizzazione delle opere che serviranno per la Coppa del Mondo. L'accusa mossa è quella di "sportswashing", ovvero una strategia usata da Stati e Governi per migliorare la propria reputazione attraverso lo sport. Come? Appunto cercando di distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani interne organizzando o sponsorizzando grandi eventi sportivi. "Il Tromsø è stato il primo club professionistico al mondo a denunciare le condizioni disumane del paese. Il club sta ora dando una nuova spinta, questa volta in collaborazione con Amnesty International e Malcolm Bidali (attivista per i diritti umani e blogger keniota, ndr)", si legge sul profilo social della squadra norvegese. "Speriamo di accendere più discussioni - dice l’ex giocatore e ora responsabile delle pubbliche relazioni Tom Hogli - vogliamo vedere più azione". In Norvegia, già dal momento della scelta della sede per la fase finale del Mondiale, si è aperto un dibattito in merito alle azioni migliori da mettere in campo per contrastare lo sfruttamento dei diritti umani, tra  le associazioni calcistiche norvegesi e i sindacati, e il tema ha coinvolto anche la nazionale. Proprio gli undici della nazionale hanno preso posizione già a marzo scorso, prima di una partita di qualificazione, quando hanno indossato una maglia con lo slogan "diritti umani sul campo e fuori". Anche se la Norvegia non si è poi qualificata per il torneo, ha deciso comunque che non boicotterà la gara, ma aderirà ai 26 punti del comitato del Qatar. Un organo che serve a monitorare e vigilare sull’operato del Paese, in modo che la competizione calcistica si svolga nel rispetto di tutti. Perché il mondiale, in un certo senso, può diventare "un’occasione d’oro", spiega il Tromsø, per spostare l’attenzione dallo sport ai diritti umani. E per farlo, oltre alla maglia con il QR code, ha lanciato una petizione per chiedere alla FIFA di combattere in prima linea a difesa dei migranti, che non sono solo afgani, ma arrivano anche dal Bangladesh, dalle Filippine, dall’India e dal Nepal. Veri e propri "schiavi" usati per costruire stadi, strade e metropolitane ma anche come guardie di sicurezza, personale addetto ai lavoratori e tassisti sottopagati. Tanto che, secondo un’inchiesta del Guardian, il numero dei migranti morti in Qatar dall’inizio dei lavori per la World Cup 2022 è di 6.500, con una media di 12 decessi a settimana dal 2011 al 2020.