
Da sinistra, Sara Errani e Jasmine Paolini
E se vi dicessimo che, a parità di vittoria, Jannik Sinner avrebbe guadagnato parecchio di più della bravissima Jasmine Paolini? Ebbene sì, il fatto che nel 2025 si parli ancora di gender pay gap nel tennis – e non solo nel tennis – dice moltissimo del Paese in cui viviamo. Un Paese che riesce a trasformare Sinner in un’icona nazionale, e giustamente, ma che fatica a rendere Jasmine Paolini un simbolo altrettanto potente, nonostante la sua doppia impresa a Roma: prima vittoria nel singolare, poi trionfo in coppia con Sara Errani nel doppio. È evidente che c’è un tema culturale, ancora irrisolto, che continua a mettere gli uomini al centro della narrazione e le donne sempre un passo indietro, come se il loro valore fosse “un po’ meno”. Un tema che intreccia sport, comunicazione e potere, e che ci parla del modo in cui viene ancora gerarchizzato il talento, a partire dal genere.
La disparità agli Internazionali di Roma (e non solo)
Eppure Paolini ha fatto la storia e avrebbe meritato di vedere quella storia riconosciuta anche sul piano economico. Perché sì, i numeri parlano chiaro: mentre Jasmine ha portato a casa 877.000 euro con la vittoria nel singolare, Jannik Sinner – in caso di successo – ne avrebbe intascati oltre 985.000. Un divario che diventa abissale se guardiamo altrove: a Dubai, per esempio, gli uomini ricevono oltre 400.000 euro in più rispetto alle donne. E, sia chiaro, la disparità è stata evidente in tutti i tabelloni degli Internazionali di Roma: al primo turno una tennista ha guadagnato 13.000 euro, un tennista 20.000. E così via, con un divario che cresce turno dopo turno. E non si tratta solo di cifre: si parla di visibilità, di rispetto, di riconoscimento. Di un valore simbolico che precede e condiziona quello economico.
Basta giustificazioni
Il punto è che, nel silenzio generale, continuiamo a giustificare questa situazione, magari facendo ricorso ai soliti discorsi sulla “maggiore attrattività” del tennis maschile o ai dati sulle sponsorizzazioni. Ma è proprio qui che si annida il problema: nella narrazione che precede e legittima la diseguaglianza. Nella costruzione di un immaginario collettivo in cui il corpo maschile viene considerato più performante, più spettacolare, più meritevole. Come se il valore dello sport femminile dovesse costantemente essere dimostrato, misurato, giustificato. Inutile girarci intorno: sono tutte scuse utili solo a mascherare un dato strutturale. Le donne, nello sport come altrove, continuano a dover dimostrare il doppio per ottenere la metà. È una questione sociale, politica, culturale. È una questione di equità, ma anche di giustizia narrativa.
Eppure qualcosa si muove
Eppure qualcosa si muove. Gli Slam sono finalmente arrivati alla parità dei premi: dagli US Open, pionieri dal 1973, fino a Wimbledon e Roland Garros, che ci sono arrivati solo nel 2007. La FITP promette che anche in Italia si arriverà a una piena equiparazione in tre anni. Ma non basta “annunciare”: serve una volontà politica forte, serve scardinare il sistema a partire da un cambiamento radicale di sguardo. Per prima cosa, dobbiamo parlarne. Senza paura. Senza timori. Anche quando sembra un dettaglio, anche quando la differenza è “solo” di 100.000 euro. Perché ogni euro in meno è un messaggio in più: il tuo talento vale meno, la tua vittoria è meno importante, la tua storia non sarà raccontata con la stessa enfasi. Ecco perché, oggi più che mai, dobbiamo costruire anche una Paolini-mania. Perché se non siamo capaci di esultare con la stessa intensità per una campionessa, vuol dire che il problema è molto più profondo di quanto vogliamo ammettere. È ora di cambiare gioco, e soprattutto, di riscrivere le regole.