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Home » Sport » La leggenda del mezzofondo Mo Farah svela: “Rapito e costretto a lavorare a 9 anni”

La leggenda del mezzofondo Mo Farah svela: “Rapito e costretto a lavorare a 9 anni”

L'atleta fu portato da Gibuti al Regno Unito con una falsa identità in un traffico di bambini. L'atletica gli ha salvato la vita

Edoardo Martini
13 Luglio 2022
Mo Farah

Mo Farah

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Una storia agghiacciante quella dell’atleta Mo Farah, 4 ori olimpici, leggenda del mezzofondo e simbolo dell’integrazione. Il campione britannico sarebbe stato rapito da bambino in Africa, portato nel Regno Unito e venduto a una famiglia in cui è finito di fatto a lavorare come collaboratore domestico.

L’atleta Mo Farah, detentore di 4 ori olimpici

La sconvolgente verità dell’atleta

Le rivelazioni scioccanti sono contenute in un documentario prodotto da BBC e Red Bull Studios, di cui il sito del network d’informazione britannico ha dato una breve anticipazione. Il vero nome dell’atleta olimpico è Hussein Abdi Kahin, e non è venuto nel Regno Unito come rifugiato, al seguito della madre e alcuni fratelli per ricongiungersi al padre: nessun suo famigliare è mai stato in Gran Bretagna, e suo padre venne ucciso in Somalia nel 1987.

Quando aveva appena 8 o 9 anni, e si trovava in Gibuti con la famiglia, fu preso da una donna che non aveva mai visto, e che lo portò via aereo nel Regno Unito: gli disse che lo portava in Europa per vivere con alcuni suoi parenti, e che d’ora in avanti avrebbe dovuto chiamarsi Mohamed Farah, come indicato sui nuovi documenti che gli aveva dato.

L’uomo che finora abbiamo conosciuto come Mo Farah racconta che inizialmente era eccitato all’idea di salire sull’aereo, ma una volta in Europa si rese conto che c’era qualcosa che non andava. La donna lo condusse a Hounslow, nella zona di West London, dove prese i documenti su cui il bambino aveva segnati tutti i contatti famigliari, gli strappò e gli gettò via. “In quel momento, capii che ero nei guai”.

Fu affidato a una famiglia dove, se voleva ricevere del cibo e sopravvivere, era letteralmente costretto a lavorare come schiavo in casa. La donna che lo aveva rapito gli disse che, se voleva rivedere la sua famiglia, doveva restarsene zitto e non rivelare a nessuno la verità. Per i primi tre o quattro anni non gli fu nemmeno permesso di andare a scuola, e quando infine fu ammesso al Feltham Community College fu detto che era un rifugiato somalo.

Mo Farah con la moglie dopo aver ricevuto il titolo di baronetto a Buckingham Palace

L’atletica come veicolo di salvezza

Soltanto all’età di 12 anni gli fu concesso di frequentare una scuola. Ma l’inglese lo sapeva poco e male: “Ero un emarginato, stavo sempre solo. Non avevo amici, nessuno con cui parlare”. La svolta arrivò quando, due anni più tardi, venne finalmente affidato a un’altra famiglia, di origine somala. “Lì mi sono sentito finalmente a casa. E anche a scuola è cambiato tutto, perché gli insegnanti si sono accorti che correvo più veloce di tutti. Insomma, mi ha salvato la corsa“.

La scuola ha salvato Mo Farah, o meglio Hussein Abdi Kahin. Lì ha scoperto l’atletica, che è divenuto il suo modo per evadere da una realtà tragica e anche per integrarsi nel Regno Unito. Inoltre, gli insegnanti notarono le sue difficoltà e la carenza di attenzioni della famiglia con cui stava a Londra, e lo aiutarono a trasferirsi in un’altra famiglia di immigrati somali, che lo hanno cresciuto negli anni successivi.

Ma Farah non è solo bravo a correre, è il più bravo. Nel 2001, a 18 anni, vince i 5mila metri negli Europei juniores e non si ferma più. La vita diventa normale, quella di un atleta professionista che gira il mondo, guadagna abbastanza da permettersi una vita agiata, si innamora e poi si sposa, nel 2010, lo stesso anno in cui vince i suoi primi Europei, a Barcellona: una doppietta sui 5 e 10mila metri. Non sarà l’ultima.

L’anno dopo diventa per la prima volta campione del mondo, a Taegu, in Corea del Sud, nei 5mila metri (nei 10mila dovrà accontentarsi dell’argento). Arriva ai Giochi di Londra 2012 da favorito: la sua è una storia di integrazione: un rifugiato. Elegante, sorridente, disponibile: è il volto perfetto per diventare uno spot dell’integrazione. Ma solo lui sa quello che ha passato. Vince, stravince, sia sui 5 che sui 10 mila metri. Diventa uno dei nomi più importanti dell’atletica leggera. Eppure il nome non è il suo. Riceve anche l’onorificenza di Sir, come i Beatles, come Sean Connery, Alfred Hitchcock e Conan Doyle. Farà il bis olimpico nel 2016 a Rio. Nel frattempo, tramite alcune donne della comunità somala londinese ritrova la madre.

“La differenza tra me e le persone che hanno fatto il mio stesso percorso è stata che io sapevo correre. Altri sono stati meno fortunati. So di aver preso il posto di qualcun altro, mi chiedo spesso che fine abbia fatto il vero Mo Farah“, conclude l’atleta.

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Il protagonista di questa vicenda è Leonardo Lotto, studente aostano, che la mattina del 23 febbraio è rimasto vittima di un incidente in mare. Il ragazzo era a Melbourne con un gruppo di amici quando dopo un tuffo tra le onde sul bagnasciuga ha picchiato violentemente la testa contro il fondale di sabbia. In quel momento è iniziato l’incubo: prima gli amici lo hanno aiutato a uscire dall’acqua, poi la corsa disperata in ospedale. Dopo l’intervento d’urgenza, è arrivato il duro responso: “Frattura delle vertebre C3 e C5, spina dorsale danneggiata". Leonardo Lotto è paralizzato dalla testa in giù e non potrà più camminare.

"Continuerò a lottare e farò tutto il necessario. A volte cadrò, ma alla fine mi rialzerò, vivendo sempre giorno per giorno, superando i momenti più bui”.

Dopo il ricovero all’Alfred Hospital di Melbourne, in Australia, “le sue condizioni sono stabili, e ora è pronto per iniziare il suo lungo percorso riabilitativo a Milano con tutte le energie e la positività che hanno sempre caratterizzato la sua personalità”. E gli amici, proprio per sostenere le cure, hanno organizzato una raccolta fondi online.

✍ Barbara Berti 

#lucenews #lucelanazione #australia #leonardolotto
  • È quanto emerge da uno studio su 1.700 ragazzi toscani realizzato dal Meyer center for health and happiness, di cui è responsabile Manila Bonciani, insieme all’Università di Firenze, e presentato in occasione della Giornata internazionale della felicità nel corso di un evento organizzato al Meyer health campus di Firenze.

Cosa gli adolescenti pensano della felicità? Come la definiscono? Cosa li rende felici? Queste alcune domande dello studio. Dai risultati emerge che i ragazzi spesso non riescono a dare neanche una definizione della felicità. Tuttavia ne sottolineano la rilevanza e la transitorietà. 

Dalla ricerca emerge così che la manifestazione della felicità si declina in sei dimensioni:
➡ La più rilevante che emerge è quella dell’interesse sociale, data dall’importanza che viene attribuita dai ragazzi alle relazioni interpersonali.
➡ La seconda è l’espressione della soddisfazione verso la propria vita, del fare le cose che piacciono loro.
➡ La terza è vivere emozioni positive, rilevanza che si riscontra anche nelle parole dei ragazzi che esprimono in maniera importante l’idea di essere felici quando sono senza preoccupazioni o pressioni che avvertono frequentemente, come anche quella scolastica.
➡ La quarta è il senso di autorealizzazione insieme a quello di padronanza delle varie situazioni che si trovano ad affrontare.
➡ Infine in misura minore la loro felicità è legata all’ottimismo, cui gli stessi adolescenti non attribuiscono grande rilevanza, sebbene rappresenti la sesta dimensione della felicità identificata.

Gli adolescenti che risultano più felici si caratterizzano per essere più empatici, esprimere un atteggiamento cooperativo, avere maggiore autoconsapevolezza, saper gestire meglio le emozioni e risolvere le situazioni problematiche, avere una buona immagine di sé. 

Ancora i maschi risultano essere più felici delle femmine a eccezione della dimensione relazionale e sociale della felicità che non si differenzia in maniera significativa tra i due gruppi, e le fasce di età più piccole, fino ai 15 anni, esprimono maggiormente di essere felici rispetto ai ragazzi di 16-17 o maggiorenni.

#felicità #ospedalemeyer #adolescenza
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