Rivoluzione lavoro, fra smart working e spettro licenziamenti "Soluzioni? Ridurre l'orario e scegliere settori senza robot"

di PIERO CECCATELLI
1 maggio 2021

IntervistaDeMasi

La festa di chi il lavoro lo ha appena ritrovato. La festa di chi il lavoro lo ha mantenuto ma rischia di perderlo fra qualche mese. È un primo maggio di aspettative sospese, quello dell’Anno Secondo dell’Era Covid. Cuochi, camerieri, ristoratori hanno appena ricominciato e la vera festa sarà trascorrerlo lavorando. Riposeranno i lavoratori dipendenti delle imprese private, che rischiano un riposo dal lavoro molto più lungo, forse definitivo, quando fra pochi mesi sarà soppresso il divieto dei licenziamenti che potrebbe creare almeno quattro milioni di disoccupati. Con Domenico De Masi, sociologo, docente emerito di sociologia del lavoro alla Sapienza e ispiratore delle politiche del lavoro e del welfare del M5S, leggiamo il significato di questa festa dei lavoratori. De Masi, la pandemia cambierà per sempre le nostre vite? “Durante l'emergenza sono cambiati gli stili di vita, fra mille contraddizioni. Consumiamo di meno, è vero, ma intanto Arnaud, re del lusso con marchi come Louis Vuitton, ha chiuso il primo trimestre 2021 con 17 miliardi di ricavi e nelle classifiche della ricchezza stilate da Bloomberg era salito al terzo posto a fine 2020. La vendita di beni di lusso è esplosa nella parte finale dello scorso anno in Cina e negli Stati Uniti. E’ il segnale che, come dopo tutti i cataclismi, anche stavolta si tornerà alle abitudini di un tempo”. E il lavoro? “La pandemia lo ha ridotto nella quantità, lo ha modificato nella qualità. introducendo con la forza di un ciclone ciò che era maturo da tempo ma tutti i dirigenti, tutti i capi si ostinavano a rifiutare”.  

Una mamma lavora in smartworking durante il lockdown

  Cioè? “Lo smart working: dal 2007 quando fu lanciato lo smartphone, tutti abbiamo lavorato da casa, dalle vacanze, dal treno o dall'aereo e non solo dai luoghi deputati. Ma chi aveva in mano le leve dell’organizzazione continuava a non vedere. Al 1° marzo 2020 il telelavoro era esercitato da 570.000 persone in Italia con aumento di 19.000 unità all’anno. Il 4 marzo 2020 fu emanato il decreto che obbligava allo smart working e il 10 marzo c’erano 7 milioni di postazioni. Se avessimo tenuto la media, saremmo arrivati a 7 milioni nel 2389, fra 368 anni”. Perché tanta resistenza? “Conservatorismo, assuefazione alla ritualità dello spostarsi, della scrivania, dei colleghi. D’un tratto 700.000 capi hanno accettato ciò che non avrebbero mai voluto, né accettato, senza la pandemia”. Come per i consumi, a emergenza finita, anche nel lavoro torneremo alle vecchie abitudini? “Credo che resteranno moltissimi lavoratori in smart working. Non i 7 milioni di adesso, ma non torneremo al 570.000 di allora. Penso che 4-5 milioni sopravviveranno. Il problema però non è se resteranno i posti in smart working, ma se sopravviveranno i posti. Non importa se a casa, in ufficio, o in fabbrica”. Lo spettro licenziamenti, con lo stop al divieto. “Non solo. Sul lavoro in Italia sta per scatenarsi la tempesta perfetta, con sei forze che convergeranno contemporaneamente e in maniera negativa sull’occupazione”. Quali sono? “In primis i fallimenti, le chiusure conseguenti la pandemia. Quindi, appunto, la fine del divieto legale di licenziare per riduzione di personale. Gli esuberi saranno frutto anche di tre fattori che con il covid si sono ampiamente manifestati: anzitutto il ricorso alla tecnologia, che con l'emegenza è stato giocoforza incrementato, anche nel lavoro manuale. Quindi, risentiremo della delocalizzazione con aziende italiane che hanno trasferito la produzione in luoghi dove il lavoro costa meno e con la fuga di gruppi stranieri, come Whirlpool, che non trovano più conveniente produrre qui. Inoltre, il recovery plan prevede investimenti per 40 miliardi destinati alla digitalizzazione che significa trasferimento alle macchine di lavoro oggi effettuato da esseri umani. Infine, si risentirà degli effetti che lo smart working farà mancare all’indotto”. Quali effetti? “Si toglierà linfa ai consumi: dalla ristorazione ai carburanti, dai trasporti all’abbigliamento. In casa si lavora in tuta, mentre al lavoro si ha il piacere di presentarsi in ordine”.

Domenico De Masi, sociologo

Un disastro annunciato. Si può correre ai ripari? “Il rimedio è la riduzione dell’orario di lavoro. In Germania, prima economia europea, si lavora in media 1400 ore all’anno. In Italia 1800. 400 in più. La Germania ha un tasso di occupazione del 79%, l’Italia è ferma al 58%. Uno spread di 21 punti rispetto al paese con le performances migliori e dove i manager escono dagli uffici alle 5 del pomeriggio. In Italia invece tutti fanno surplace sul posto di lavoro, anche oltre le 400 che lavorano ufficialmente in più rispetto ai tedeschi. Spesso, consenta il termine, cazzeggiando in ufficio. Andassero più a teatro, al cinema, al ristorante, invece, farebbero del bene all’economia oltre che a se stessi e alle proprie famiglie”. Meno lavoro, salari più bassi. “Nient'affatto. I salari sono rapportati alla ricchezza prodotta, non alla quantità di lavoro o al tempo dedicato. Con la tecnologia dilagante in agricoltura, ogni addetto produce molto di più di un operatore che usi la zappa. Così accade, usando il pc al posto delle procedure tradizionali. Con maggiore produttività i salari restano intatti. Lavorando meno”. Riducendo l’orario le imprese non assumeranno più. “Ma verrebbe meno il presupposto dei licenziamenti. Ed a breve termine è questo  l’obiettivo più importante". E se è così semplice, perché  non si applica, la riduzione di orario? ”Agli imprenditori sembrerebbe di pagare con soldi propri il tempo libero dei lavoratori. I sindacati ormai non studiano più, non fanno ricerca. La stampa va dietro il mainstream,  E senza questi tre soggetti, chi può cambiare il lavoro?”. Negli anni Novanta ci fu una dura battaglia,senza esito, per la riduzione dell’orario da 36 a 35 ore. Nessuno, ci ha più provato. ”Fratoianni di Sinistra Italiana presentò al governo Conte 2 una proposta di legge per le 32 ore settimanali, ma è rimasta  a poltrire in Parlamento. Sarebbe una rivoluzione, ma anche una soluzione. Altrimenti, fra 5 mesi avremo i disoccupati in piazza per la tempesta di cui ho parlato”. Teme tensioni sociali? ”Se ci fosse un partito pronto a farsi carico di tanti lavoratori che rischiano, di tante persone che vivono alle soglie della povertà pur trovandosi nel paese con l’ottavo pil mondiale, forse  non ci sarebbero pericoli. Sto parlando di una ‘poltiglia sociale’ che conta 10 milioni di persone e che rischia di non essere rappresentata da nessuno”. I Cinque stelle hanno tenuto a cuore le classi deboli. “Per fortuna hanno introdotto il reddito di cittadinanza, che ha impedito a quelle tensioni di manifestarsi, durante la pandemia. Non so però in quali condizioni sarà il Movimento fra qualche mese, se Casaleggio continuerà a tenerlo paralizzato”. I 5 Stelle sono comunque in calo. ”Lo dicono i media, quasi tutta la stampa. Sono al 16%-17% nei sondaggi dopo aver perso un punto col caso Grillo. Ricordo che Craxi, all'apice, non superò mai il 14%. Se Conte diventasse subito il loro capo, i 5 Stelle salirebbero attorno al 20% e Conte ha un serbatoio di voti personali che li farebbe lievitare al 24-25%. Altro che morti”. Sìcuro di questi calcoli? ”Le persone conoscono bene ciò che il M5S ha fatto per loro. Sono i media che hanno liquidato il reddito di cittadinanza accusando i navigator di essere inutili ed elevando a maggioranza i 10 furbetti che si sono approfittati della misura e sono stati giustamente puniti. Però, è passata l’idea che tutto il reddito di cittadinanza sia stato erogato a chi non ne aveva diritto”. I ragazzi non potranno avere il reddito di cittadinanza come unica prospettiva di vita. ”Tutte le ore che i dipendenti stabili lavorano in più, rispetto al necessario è lavoro sottratto ai giovani. Riduciamo l’orario e molte cose cambieranno”. Quale consiglio dà ai giovani? ”Individuare quali lavori nei prossimi quattro-cinque anni non saranno delegati alle macchine. E dedicarsi a quelli”.

Un auto teleguidata, dove la persona al posto del conducente legge tranquillamente un libro

Lei ha teorizzato la società contemporanea sempre più priva di lavoro manuale e fondata sulla produzione di beni immateriali. ”Un secolo fa il 70% degli italiani erano addetti all’agricoltura, oggi solo il 4%, ma produciamo moltissimo più di allora, perché l’agricoltura è completamente meccanizzata. Semine e disinfestazioni sono affidate addirittura ai droni. In fabbrica, ci sono i robot. Con le stampanti in 3d se serve un bicchiere, lo fabbricherò in casa. Avremo sempre più auto teleguidate, non consiglierei a nessuno di diventare autista Sono rimasti per ora i lavori legati all’informazione, all’elaborazione e allo sfruttamento di simboli e valori, all’estetica. La creatività, la bellezza della persona e delle cose sono ancora affidate all’uomo. Anche nel giornalismo di base, già ora sono le macchine a scegliere le notizie, grazie a un algoritmo”.   Meno viaggi e il mondo che arriva a casa: Netflix porta il cinema, i riders la cena e la spesa, Amazon gli abiti e i libri, i social portano i volti, i pensieri, la voce degli amici senza più incontrarli in carne e ossa. Perfino la scuola, arriva via computer. Non è una bella società, quella che si prefigura. “Dopo la pandemia, piano piano torneremo alle abitudini di prima, alla socialità. Anche se vivremo più in casa per lo smart working. Prevedo fermento sul fronte immobiliare: le case di oggi non andranno più bene. Ci vorrà una stanza da dedicare a ufficio. E uffici collettivi sorgeranno ovunque, per il coworking. Si dovranno rivedere i progetti direzionali. A MIlano sono previsti 15 nuovi grattacieli. E’ ancora il caso? La transizione ecologica serve anche a individuare e ad adeguare l’ambiente ai nuovi stili di vita”.

Catena di montaggio completamete robotizzata in una fabbrica di automobili

Lei dice ai giovani: fatevi furbi: scegliete lavori dove non sarete presto spazzati via dalle macchine. Un po’ poco, per il primo maggio. “Ho risposto a una domanda precisa: io  sollecito buonsenso, non furbizia. Il problema è che alla società italiana occorrerebbe una rivoluzione nel metodo delle relazioni sociali e industriali. Oggi dominano le forze politiche e sociali, rivolte al compromesso, al concedere qualcosa alla controparte per tenerla buona. E la stampa fa da sponda. Il paese è ripiegato, si acconenta di ciò che ottiene, ha perso la voglia di confrontarsi, di approfondire. Di lottare. Vorrei che si aprisse una stagione di confronto vero, al limite portato al conflitto, ovviamente civile, rispettoso, contenuto nelle manifestazioni. Senza conflitti, aumentano le diseguaglianze. E non è quello di cui oggi abbiamo bisogno”.