Claudia, perfettamente imperfetta: "La mia vita con la epidermolisi bollosa"

Malata dalla nascita, la giovane donna sarda dalla pelle di farfalla racconta la sua storia di coraggio: “Non chiamatemi poverina, detesto la commiserazione”

di CATERINA CECCUTI -
27 agosto 2023
Claudia Campus racconta la sua vita con la epidermolisi bollosa

Claudia Campus racconta la sua vita con la epidermolisi bollosa

Claudia ha la pelle di farfalla e racconta la sua vita con la epidermolisi bollosa. Non guardatela con commiserazione. Non avvicinatevi a lei pensando di esprimerle la vostra pietà e, soprattutto, non chiamatela “poverina”. Perché Claudia, una bellissima donna di quarant'anni nata a Berchidda e affetta da una patologia rara, quando esce di casa e spinge la sua carrozzina in spiaggia o in mezzo alla gente, ha solo voglia di chiacchierare e distrarsi, non di elucubrare sulla sua malattia.

Claudia e l'epidermolisi bolllosa

“Mi piacerebbe che le persone riuscissero ad andare oltre l'apparenza del mio corpo e si ricordassero che dentro sono fatta esattamente come chiunque altro. Questo per me significa inclusione: andare veramente oltre l'apparenza.”

claudia-pelle-farfalla-epidermolisi

Claudia, una bellissima donna di quarant'anni nata a Berchidda e affetta da epidermolisi bollosa

Claudia, cosa comporta l'epidermolisi bollosa e come ha scoperto di averla?

“E' la malattia dei così detti “bambini farfalla”, perché la loro pelle è fragile come le ali di questo insetto bellissimo ma altrettanto delicato. Sull'epidermide si generano delle bolle che potremmo paragonare a un'ustione e che poi si trasformano in ferite da medicare obbligatoriamente ogni giorno, attraverso un procedimento doloroso che dura delle ore.

claudia-pelle-farfalla-epidermolisi

E' la malattia dei così detti “bambini farfalla”, perché la loro pelle è fragile come le ali di questo insetto bellissimo ma altrettanto delicato

La malattia mi è stata diagnosticata alla nascita. Nel 1983 in Sardegna non se ne sapeva molto, i medici non capivano cosa potessi avere. Mi diedero un paio di mesi di vita e dissero ai miei genitori di battezzarmi in fretta. Fino ai tredici anni di età le medicazioni non erano quotidiane, me le facevo solo quando cadevo, benché avessi mani e ginocchia sempre provati dalla malattia.

Poi purtroppo, non si sa come, a quattordici anni presi la scabbia, una brutta infezione della pelle, e mi ritrovai ricoperta di ferite dalla testa ai piedi. Iniziai le medicazioni, al tempo non avevo neanche un piano terapeutico e riuscire a farle con regolarità era molto complicato. Per diagnosticare la scabbia fui costretta a recarmi a Roma.

Oggi per fortuna sono seguita dall'Ospedale Bambin Gesù. Comunque, la scabbia peggiorò la mia malattia e da allora non ho più potuto smettere di medicarmi. Ogni minimo trauma aggrava le condizioni della mia pelle.

Per esempio, anni fa ebbi un incidente che lise l'epidermide del mio braccio e da allora la pelle si è molto infragilita. Inoltre, la malattia che ho prende anche l'esofago, per cui saltuariamente devo sottopormi a dilatazioni esofagee.

Come se non bastasse può causare carcinomi, come quello che ebbi alla gamba sinistra e che, sfortunatamente, mi fu diagnosticato tardi. Quel carcinoma mi è costato l'amputazione dell'arto. Poiché le mie condizioni di fragilità mi impediscono di indossare una protesi, da allora vivo sulla carrozzina.”

Cosa significa per lei “inclusività”?

“Significa essere accettata da tutti. Senza fermarsi all'apparenza, a quel che gli occhi vedono, perché io sono diversa solo esternamente. Dentro sono fatta come tutti gli altri. Vorrei che le persone parlassero con me normalmente e scoprissero che non ho niente di diverso da chiunque altro.

Anni fa in Sardegna aprirono una spiaggia inclusiva che si chiama Lido del sole. Erano due anni che ormai non andavo al mare. Incuriosita mi ci recai in carrozzina, ma inizialmente non volevo mostrarmi; il primo anno indossavo sempre pantaloni lunghi e canottiera. Gradualmente, anno dopo anno, ho iniziato a mostrare sempre più parti del mio corpo e oggi, dopo sei anni, ci vado in bichini e pantaloncini.

Non pensavo che sarei rimasta, invece piano piano ho iniziato a sentirmi di casa, in famiglia. Il Lido del sole è una struttura che è cresciuta insieme a me, si può dire, perché io sono una delle prime che ha iniziato a frequentarla. Ammetto però che per me sia molto complicato mostrare le cicatrici, le ferite e le medicazioni che porto addosso, perché si tratta di parti intime di me stessa.

Mostrarle mi fa sentire nuda. Però alla fine ci sono gradualmente riuscita e anche ieri sono andata in spiaggia per giocare a bocce e a racchette”.

Cos'è invece, secondo lei, l'assenza di inclusività?

“Qualcosa che fa stare male. Quando esco voglio lasciare i problemi a casa. Ma se incrocio uno sguardo di pietà che mi ricorda quanto sono diversa, anche mentre magari in quel momento sto pensando ad altro o sto sorridendo per qualcosa, vengo subito sbalzata nella mia realtà, nei miei problemi. Invece, stando in mezzo agli altri, non mi piace parlare della malattia.

Sguardi di pietà e parole come “poverina” mi fanno soffrire. La mia malattia si vede, ha un impatto visivo molto forte, ma vorrei che le persone riuscissero ad andare oltre. Una volta cercai di spiegarlo ad un signore in spiaggia che non faceva che commiserarmi: “Guardi che io sto bene, non deve essere così in pena per me”.

claudia-pelle-farfalla-epidermolisi

“Perfettamente imperfetta” (Quiedit edizioni), è il titolo del suo primo libro

Perfettamente imperfetta” (Quiedit edizioni), è il titolo del suo primo libro. Come è nata l'idea e cosa racconta?

“Tutto è iniziato con la morte di mio padre, tre anni fa. Lui era l'unica famiglia che avessi. Era Natale e non avevo avuto voglia di andare da nessuna parte, perché dentro stavo troppo male e non avevo proprio niente da festeggiare. Mi sentivo sola, mi mancava mio padre. Allora pensai di scrivergli una lettera e, da quello che poi è diventato il primo capitolo, ho capito che volevo scrivere un intero libro.

Avrei voluto farlo già da tempo ma non ero pronta, perché non avevo ancora né la forza né la consapevolezza che invece possiedo adesso. La vita mi ha preso a schiaffi tante volte, ma se ce l'ho fatta io allora possono farcela tanti altri. Il mio libro vuole essere un messaggio positivo destinato non solo ai malati ma anche ai giovani, che si buttano giù per poco, che sentono il peso di una società che vuole imporre loro sempre troppe cose.

Io invece desidero che la gente se ne freghi degli sguardi e dei commenti. In tre mesi il libro era pronto, avevo così tanto da dire e da raccontare ed è stato emozionante come un sogno che si avvera”.