Disabilità, Elena: "La giustizia non si accanisca sulle famiglie già messe a dura prova"

La madre di Mario continua la sua battaglia per ottenere maggiori tutele e supporto a livello istituzionale per il 'dopo di noi' e scrive alla ministra Locatelli

di MARIANNA GRAZI
29 luglio 2023

Elena Improta

La voce è stanca, per il lungo sciopero della fame e non solo. Elena Improta, la mamma di Mario, 34enne tetraplegico, e presidente dell'Associazione Oltre lo sguardo APS è ormai al 15° giorno di manifestazione contro la condanna a pagare quasi 300mila euro di spese legali alla clinica Villa Mafalda.

La battaglia di Elena

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Elena Improta, 60 anni, con il figlio Mario, 34

Ma quello che si percepisce dalla sua voce è anche la delusione: "Solo due firme… 15 giorni di attenzione mediatica e circa 26.376 firme per la petizione al Presidente Mattarella e alla Presidente Giorgia Meloni su change.org e nessun parlamentare che firma?", si chiede in un lungo post su Facebook. L'amarezza non la ferma. La battaglia di civiltà che porta avanti non è conclusa. La sessantenne continua a lottare e continuerà a farlo con ogni briciolo di forza che la lega a questa vita, spesa per gli altri, per suo figlio, per i tanti ragazzi e ragazze disabili che, ad oggi, difficilmente possono immaginare un futuro. Elena intanto come sta? “Oggi è stata un po’ più dura, la pressione massima è sempre sui 100. Però piano piano mi riprendo, adesso ho difficoltà a ingerire e a bere, per cui ricomincio lentamente la mia vita normale perché la dottoressa è preoccupata. Devo ricominciare assolutamente a nutrirmi perché vedo anche i ragazzi e gli operatori della Casa di Mario che sono spaventati. E non voglio ulteriormente turbarli”.
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Elena Improta ha superato i 15 giorni di sciopero della fame, una manifestazione non violenta per portare avanti la sua battaglia di dignità

In un comunicato, proprio gli operatori le esprimono la loro vicinanza e solidarietà, ribadendo che la struttura per il ‘dopo di noi’ rappresenta per loro un posto di lavoro, “ma anche una famiglia in cui nessuno viene mai lasciato solo”. “Sono loro il vero ‘dopo di noi’, sono gli operatori. Quindi trasferire loro l’importanza di un progetto e dei sacrifici che le famiglie fanno ogni giorno per garantire la loro prosecuzione, visto che lo Stato non riesce a farlo pienamente è fondamentale. Le famiglie si sostituiscono alle associazioni proprio per colmare il vuoto istituzionali”. La vostra è però un’esperienza unica nel suo genere, essendo privata. Cosa comporta l’enorme cifra che siete stati condannati a pagare a Villa Mafalda? “Noi abbiamo dato, in comodato d’uso gratuito, due appartamenti ai servizi sociali della Asl ma ovviamente siamo in perdita continua. Quindi, dovendo anche far fronte a livello privato delle spese processuali, la mia preoccupazione è che per il prossimo futuro dovremmo fare un piano di rientro e non potremmo metterci a disposizione degli enti locali. Perché Mario una casa ce l’ha, l’associazione continuerà a operare privatamente, ma si toglie l’opportunità ad altri ragazzi in carico ai servizi sociali di fare questa esperienza”.
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I ragazzi che abitano alla Casa di Mario al mare (Facebook/Oltre lo sguardo)

Un’esperienza di autonomia fondamentale per loro e per sensibilizzare anche la società a una loro piena inclusione. Com’è stata l’accoglienza nei confronti della Casa di Mario? “Da tre anni è nata questa realtà e fin da subito è stata oggetto di attenzione da parte di tanti, anche da parte di persone cosiddette ‘normodotate’ che hanno potuto accedere liberamente, venirci a trovare, partecipare e condividere con i ragazzi momenti di vita. È questa in fondo l’inclusione, cosa che in un istituto, in una Rsa o Rsd non avviene”. Ci parla della Casa di Mario? “Si tratta di un’esperienza di vita comune, in co-housing, dove c’è una famiglia con un figlio disabile che ospita in altri due appartamenti contigui persone le cui famiglie scelgono di farli partecipare. In forma mista, perché in questi anni abbiamo lavorato in questa modalità con la Asl ai tavoli di co-progettazione dando l’opportunità a altre ragazze e ragazzi con disabilità che non se lo sarebbero potute permettere a livello privato. Siamo sempre aperti, non abbiamo mai chiuso. Lavoriamo con un turnover di operatori e quando non arriviamo con i soldi o i turni, le notti di supervisione e controllo le faccio io. La nostra compartecipazione è totale ma è ovvio che questo lo facciamo perché lavoriamo con la Asl e qualora dovessimo riprendere a operare autonomamente dovremmo chiedere di più per il rientro alla luce di questa forte spesa che dovremmo andare a sostenere”.
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Mario con un'operatrice (Facebook/Oltre lo sguardo)

Quante persone ospita? “In questo momento dobbiamo necessariamente ruotare 8 ragazzi in quanto alcuni di loro hanno necessità di tornare a casa e poi tornate qui per motivi legati al tipo di disabilità che vivono. In forma permanente ci sono quattro persone, di cui un’emergenza (diamo disponibilità anche all’associazione contro la violenza sulle donne e abbiamo un caso che stiamo tutelando). Privata non vuol dire che noi chiediamo chissà quali cifre alle famiglie, chiediamo 10 euro al giorno. C’è un ragionamento diverso caso per caso, in base alla condizione e al contesto di provenienza. Inoltre siamo un’associazione che si mette a disposizione anche solo per l’ascolto, per fare un lavoro di counseling per famiglie che difficilmente trovano supporto in questo senso. I servizi sociali non riescono a rispondere a tutte le domande, che a volte sono legate solo al sentirsi parte di una comunità, a incontrare un altro sguardo di un genitore che racconta la sua storia e la mette a disposizione di tutti”. Un po’ quello che sta facendo lei, Elena, pur in un momento drammatico come quello che si trova a vivere… “Non è facile mettersi a nudo e raccontare le proprie fragilità, le proprie paure. Va fatto con dignità ma è sempre uno sforzo che mette psicologicamente anche a rischio l’equilibrio. È più facile vivere pensando solo a se stessi. Non tutti lo capiscono, non tutti giustamente farebbero quello che sto facendo. Ma allo stesso tempo vedo che gran parte delle mamme e delle associazioni ci seguono con attenzione ed è emerso quanto poi viene ripreso nella bozza di interrogazione affidata all’onorevole Marco Simiani in Parlamento”.
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Alcuni ospiti della struttura di co-housing creata tre anni fa a Orbetello da Elena e la sua famiglia (Facebook/Oltre lo sguardo)

Cioè? “Che c’è un’ingiustizia di base legata al fatto che, pur nella consapevolezza che ‘pari diritti e pari dignità per tutti’, chi intraprende un procedimento legale deve tenere conto del fatto che possa o meno permetterselo. Chiediamo che la giustizia tenga conto del fatto che tutti hanno diritto di cercare la verità ma questo non vuol dire poi essere condannati a spese così gravose, quando già la vita ci ha messo di fronte a una prova dura e soprattutto molto costosa. Quindi è necessario che diventi strutturale attivare dei procedimenti che siano o pro bono o parzialmente tali, che ci siano sconti di pena in caso di perdita del processo Quello che si chiede alla Ministra Locatelli è però innanzitutto di ragionare su maggiori fondi a livello nazionale per il ‘dopo di noi’, di permettere al Terzo Settore di fornire servizi senza dispersione di risorse e senza dover incidere così tanto sulla famiglia". Da qui la sua scelta dello sciopero della fame? “Sappiamo che senza una manifestazione forte, anche se non violenta, è difficile avere l’attenzione dei media. Perché parlare di queste cose continua a essere recapito dalla comunità come un fatto esclusivamente privato, senza comprendere che invece è una battaglia di civiltà che nell’arco di una vita potrà essere utile a tanti”.

La lettera alla ministra per le Disabilità Locatelli

Cosa che, nel suo caso, non è successa. Cosa pensa dell’atteggiamento tenuto dalla clinica Villa Mafalda che, ricordiamo, ha rifiutato qualsiasi proposta di mediazione? “Ci appare quantomeno particolare la posizione di una casa di cura gestita da persone che sicuramente non hanno bisogno dei soldi di Mario. C’è accanimento nel dire che non fanno un passo indietro, quasi vendicativo, quando non dovrebbe essere così. Hanno vinto, perché pretendere di stravincere? Hanno ottenuto il loro obiettivo, che noi non stiamo contestando nonostante il dramma esistenziale mio e di mio figlio che comunque abbiamo la nostra verità”. Tornasse indietro, a quando aveva 26 anni e ha dato alla luce suo figlio, rifarebbe tutto quello che ha fatto? E, invece, per quanto riguarda la causa legale? “Per quanto riguarda la prima domanda assolutamente sì. Invece se avessi saputo i rischi economici del perdere una causa mi sarei fermata ed è quello che noi denunciamo nella lettera alla ministra Locatelli. Non ci si ferma perché non si crede nella possibilità che ci sia una giustizia che riconosca negligenze a livello sanitario ma per la paura di non farcela economicamente perché i nostri figli costano tanto, per assisterli, perché non esiste un sistema a livello sociale che ci garantisca un futuro per loro”. E cosa augura a suo figlio? “Un suo collega mi ha chiesto se non ho mai avuto paura di morire, nel fare queste azioni non violente come lo sciopero della fame. Io ho risposto che l'esperienza di questi 34 anni mi ha insegnato che a volte bisogna aver paura di vivere e non tanto di morire. Quando ti accorgi della crudeltà di alcuni sistemi io ho più paura di vivere. La domanda che ci facciamo noi è se c'è vita dopo il caregiver. E non lo so, sulla base degli avvenimenti di oggi mi viene da pensare che non ci sia. Quindi quello che auguro a mio figlio è di soffrire il meno possibile dopo di me e a volte mi auguro che venga via con me, quando io non ci sarò più che lui venga via con me. È una questione esistenziale, non c'entra la fede ma il toccare con mano, ogni giorno, le difficoltà”.