La storia dell'Hikikomori Giuseppe per la Giornata internazionale dell'omofobia

Nel suo libro Marco Termenana racconta la drammatica storia del figlio che a soli 21 anni si è tolto la vita. In occasione del 17 maggio l'incontro di sensibilizzazione con gli studenti dell'IISS Laporta Falcone Borsellino di Galatina

di CATERINA CECCUTI -
17 maggio 2023
giuseppe hikikomori suicidio

giuseppe hikikomori suicidio

Si chiamano "Hikikomori", sono soprattutto ragazzi di età compresa tra i 14 e i 30 anni, maschi nel 70-90% dei casi. Gli Hikikomori - termine giapponese che significa "stare in disparte" - sono persone che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, a volte anni, a volte per l'esistenza intera, senza contatti con il mondo esterno, neanche con i propri familiari. C'è anche chi, come è successo a Giuseppe, dalla propria stanza purtroppo non riesce ad uscire più. In una notte di marzo del 2014, ad appena 21 anni, apre la finestra della sua camera da letto all'ottavo piano di un palazzo milanese, e si lancia nel vuoto.

La 'questione' Hikikomori

In Italia, soprattutto a seguito della pandemia che ha estremizzato il problema, l'attenzione nei confronti del fenomeno Hikikomori sta aumentando. Benché non esistano ancora dati ufficiali, si stima che nel nostro Paese esistano circa 100.000 casi. I motivi che scatenano la volontà di estraniarsi completamente dal mondo possono essere diversi. Nel caso di Giuseppe sono state caratteristiche caratteriali dimostrate fino da bambino e, in seguito, la mancanza o la paura di un'identità sessuale definita.

La storia di Giuseppe raccontata dal papà

La sua vicenda è racchiusa nelle pagine che suo padre ha voluto dedicare alla memoria di un figlio affetto da mal di vivere, un figlio che si è sentito sin dall'adolescenza intrappolato nel proprio corpo. "La storia di Giuseppe - spiega Marco Termenana, pseudonimo adottato per preservare la privacy della famiglia - è infatti anche la storia di Noemi, suo alter ego femminile, che assume contorni definiti nella vita di noi genitori solo nel momento in cui nostro figlio si toglie la vita".
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Marco Termenana, pseudonimo adottato per preservare la privacy, ha raccontato la storia di suo figlio Giuseppe, hikikomori, morto suicida a 21 anni

Il libro si intitola "Mio figlio. L'amore che non ho fatto in tempo a dirgli", e questa mattina sarà presentato e dibattuto insieme agli studenti dell'IISS Laporta Falcone Borsellino di Galatina (in provincia di Lecce), che quest’anno ha scelto di celebrare in questo modo la Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Bifobia e la Transfobia. Signor Termenana, che tipo era Giuseppe? "Era un ragazzo molto difficile, il primo di tre figli. Amatissimo ma molto chiuso e turbato. Aveva sempre avuto paura di tutto fino dall'infanzia. Da bambino, quando già sapeva camminare bene, non voleva mai che io gli lasciassi la mano. Giuseppe aveva paura del mondo. Ciò che lo ha ucciso, alla fine, è stato questo, l'Hikikomori... non l'identità di genere come invece si potrebbe pensare". Dunque voi genitori eravate consapevoli del suo modo di essere... “Era impossibile non rendersene conto. Quando Giuseppe aveva 5 o 6 anni la pediatra ci consigliò di portarlo al Centro per l'età evolutiva Uonpia di Milano, dove siamo residenti. Lo portammo prima lì e, in seguito, anche da specialisti privati, nella speranza di rispondere alle sue necessità. Ma purtroppo né noi genitori né tutti gli specialisti del mondo ci sono riusciti”. Quando vi siete accorti che Giuseppe aveva incertezze sulla propria identità di genere? "Solo quando aveva 16 anni, perché prima non aveva mai dato cenno di essere omosessuale o, più precisamente, di voler diventare una donna. Una mattina si mise a fare una ricerca a computer sui transessuali, stampò i risultati e infilò i fogli nella borsa della madre, scrivendoci sopra 'Io sono così'.  Aveva trovato questo modo per esprimere il suo desiderio di diventare donna. Da lì in avanti cominciò ad assottigliare le sopracciglia, indossare abiti unisex, portare unghie e capelli lunghi, frequentare una scuola per truccatori ed estetisti con il nome di Noemi”. Come l'avete presa? "Emotivamente l'abbiamo presa malissimo. Non avendo mai ricevuto alcun segnale in tal senso, era stato difficile da capire e da credere. Tra di noi ci interrogavamo, ma davanti a Giuseppe non abbiamo mai esternato le nostre angosce. Appartengo ad una famiglia del profondo Sud d'Italia, mia moglie è la classica mamma chioccia, ma nonostante la cultura che ci portiamo sulle spalle, non abbiamo mai impedito a nostro figlio di esprimersi, né lo abbiamo in alcun modo soffocato. Purtroppo però, era lui stesso ad avere paura, soprattutto temeva il giudizio degli altri".
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Giuseppe ha manifestato fin da piccolo il disagio per il proprio corpo maschile, esprimendo la volontà di diventare una donna intorno ai 16 anni

Cosa successe quella notte? "Io e mia moglie ci stavamo separando. Quella notte non ero a casa perché già risiedevo in un monolocale, comunque vicino alla casa della mia famiglia. Erano le undici di sera, avevo il cellulare spento perciò furono i miei figli minori a venirmi a cercare. Mi dissero 'Guarda che Giuseppe ha tentato il suicidio, si è buttato giù dalla finestra'. Mi misi a correre per strada. Trovai i carabinieri sotto casa che stavano interrogando mia moglie, mentre Giuseppe era stato portato all'ospedale Niguarda. Concluso il colloquio con i carabinieri lo raggiungemmo e ne constatammo il decesso". Cosa accadde dopo alla sua famiglia? "Si è sfasciata. Io cerco di stare vicino ai miei figli e a mia moglie, nonostante la separazione. È tutto complicato... dobbiamo partire dal presupposto che un dolore simile è enorme, il più grande mai provato in 64 anni di vita. Per quanto mi riguarda, ciò che mi ha salvato la vita è stato scrivere. Io sono giornalista pubblicista ma da anni non scrivevo più. Poi, dopo un mese dalla tragedia, ricominciai a mettere le mie emozioni nero su bianco. Ne parlai con il sacerdote della mia parrocchia, un giovane prete che mi incitò a continuare a scrivere. Mano mano che scrivevo il dolore si attenuava. Nelle mie presentazioni racconto sempre che nel 2012 fui operato al cuore e per la prima volta mi venne somministrata la morfina: non mi curò, ma coprì tutto il dolore del post intervento. Allo stesso modo, quando scrivo, Giuseppe non ritorna da me, ma il dolore non lo sento più. Scrissi il libro 'Giuseppe' sotto lo pseudonimo di El Grinta, 500 pagine, un fiume di parole che non riuscivo mai a concludere. Poi però, girando per le scuole, mi resi conto che gli studenti non riuscivano a leggerlo perché era troppo denso. Allora ho composto il secondo libro, usando uno pseudonimo meno di effetto. Oggi ho smesso di scrivere ma ho iniziato a raccontare, a presentare il libro per commemorare mio figlio e sentirlo vicino a me”. Come vive l'incontro con i ragazzi delle scuole che la sta portando in giro per l'Italia? “È un grande piacere incontrarli. Nel mio girovagare per l’Italia sono stato in diverse scuole ed ho potuto constatare che i ragazzi sono sempre molto interessati a Giuseppe. Ciò mi fa stare bene perché, oltre a darmi la possibilità di commemorare mio figlio, mi consente di portare del valore aggiunto ad altri. Intendiamoci, non ho la pretesa di salvare nessuno, non fosse altro che – se avessi potuto farlo, avrei salvato mio figlio- ma, se con la mia semplice testimonianza posso migliorare anche solo di poco la vita di qualcuno, che sia uno studente, un genitore o un docente, avrò dato un senso alla stupida ed inutile morte di Giuseppe.”
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Il libro "Mio figlio. L'amore che non ho fatto in tempo a dirgli" sarà presentato agli studenti dell'IISS Laporta Falcone Borsellino di Galatina

Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai ragazzi? "Mio figlio ha fatto una grandissima sciocchezza, ma qualsiasi problema abbiano i ragazzi devono parlare, parlare, parlare, perché tenersi dentro le cose porta solo all'implosione. Anche se sarebbe l'ideale, a volte non è facile riuscire a sfogarsi con i genitori, anche perché in alcuni casi non ci sono proprio. Allora i ragazzi possono parlare con un prete, con lo psicologo dello sportello ascolto della scuola, con un amico o un fratello maggiore; l'importante è non tenersi le cose dentro. Ai genitori dico invece di dedicare tempo ai propri figli, anche se sono adolescenti e per natura tendono ad allontanarsi, perché le cose che noi diciamo loro rimangono dentro, a volte rimangono dentro i nostri figli a tal punto che un giorno potrebbero persino salvargli la vita".

L'incontro coi ragazzi dell'IISS Laporta Falcone Borsellino di Galatina

Ad introdurre l'incontro di questa mattina con gli studenti sarà il dirigente scolastico Andrea Valerini, a seguire l'intervento di Francesca Corchia, psicologa e psicoterapeuta. Moderatrice la professoressa Maria Assunta Specchiarello, referente per l’inclusione scolastica e promotrice dell’iniziativa. L'autore, che utilizza uno pseudonimo per garantire la privacy della propria famiglia, ha già pubblicato “Giuseppe”, un primo romanzo ispirato al suicidio del primogenito. "Mi sono convinta attraversando le pagine di questo libro – commenta la professoressa Specchiarello – che sensazioni ed emozioni sempre più profonde prendono forma e senso, in un dialogo che diviene naturale e immediato. Intimo. La decisione di Giuseppe è la sconfitta di questa società. Abitiamo, è vero, un mondo complesso ma la nostra grande sfida è arrivare alla semplicità. In questo lungo e paziente lavoro nessuno osi giudicare. E nessuno si giudichi… Meriteremmo, però, una 'pagella nera' se paura e vergogna prevarranno ancora davanti ad una porta chiusa.”