Venticinque anni, 24 operazioni alla colonna vertebrale subite, oltre 300 concorsi di poesia vinti in pochi anni. Sono questi i numeri con cui Ilaria Parlanti, una giovane donna di Chiesina Uzzanese (in provincia di Pistoia), si presenta mentre ci racconta la storia della sua vita segnata da una patologia rara ma anche dall'infinita passione per la letteratura. Una passione che per anni le ha permesso di volare con la fantasia, lontano dalla sofferenze dei troppi giorni difficili che hanno segnato la sua infanzia. “Ho la sindrome di Jarcho Levin, una patologia genetica rara di cui ho avuto diagnosi certa solo poco tempo fa. Nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza ho subito 24 interventi alla colonna vertebrale, per poter sopravvivere. I difetti del mio scheletro avrebbero dovuto essere stati riscontrati già in fase di gestazione, ma per errore degli ecografisti non fu notato nulla. I medici se ne accorsero solo alla nascita, allora l'Ospedale Pediatrico Meyer presentò ai miei genitori una prognosi di morte certa entro tre 3 giorni. Ma mio padre e mia madre non si arresero: vedendo che il quarto giorno ero ancora viva iniziarono un pellegrinaggio verso molti ospedali d'Italia, fino a che ottennero un nome, quello del chirurgo francese Jean Dubousset”. Ilaria è ancora in fasce quando, con la sua famiglia, si reca per la prima volta a Parigi, per iniziare il lungo percorso di cura che si protrarrà per tutta l'infanzia e l'adolescenza, ma che alla fine le salverà la vita. Nel suo primo romanzo, "La verità delle cose negate" (Arsenio Edizioni), racconta la storia di Isabella, un giovane chirurgo affetto dalla sua stessa patologia.
Ilaria, possiamo parlare di un libro autobiogrfico? “In parte sicuramente lo è, nel senso che ho scelto di raccontare un personaggio portatore di una disabilità identica alla mia. Però le nostre vite sono diverse, lei è un medico, io una scrittrice e sceneggiatrice. Il luogo di ambientazione è Parigi, lo stesso dove io ho potuto curarmi ed essere salvata, gli ho solo cambiato il nome per una questione di privacy”. Cosa ha significato la vita in ospedale per una bambina piccola come eri tu al momento della prima operazione? “Per me era un luogo ignoto e spaventoso, visto che vengo da una piccola provincia. Ero estranea a tutto, persino alla lingua. Ma a livello professionale mi sono trovata bene, i medici francesi mi hanno salvato la vita e per quanto riguarda la chirurgia alla colonna vertebrale sono i migliori al mondo. Col tempo la sensazione di straniamento è diminuita, mano a mano che imparavo a riconoscere luoghi e persone mi sono sentita un po' più a casa”. Perché hai dovuto affrontare ben 24 operazioni chirurgiche? “Si è trattato di un percorso sperimentale, visto che 25 anni fa non avevo ancora una diagnosi certa. La prima operazione venne eseguita quando avevo 7 mesi, poi le altre via via nel corso degli anni. I medici dovevano accompagnare tutta la mia crescita con l'innesto di protesi che venivano allungate mano a mano, fino alla fine dell'adolescenza, di modo da assicurarsi che la curva della scoliosi non andasse ad intaccare nuovamente il mio cuore e i miei polmoni. La ventiquattresima operazione in realtà l'ho fatta più tardi rispetto alle altre, per motivi di dolore cronico dovuto alla postura scorretta, poiché non essendo una postura naturale ma chirurgica, costruita sotto i ferri, provoca contratture muscolari, squilibri posturali e la compressione dei nervi che la scoliosi esercita sulla colonna”. L'ospedale come luogo di disperazione, ma anche di nuova speranza per il futuro, dunque? “Proprio così. Finché ero bambina non riuscivo a concepire questa dicotomia. Per sette o otto volte l'anno mi toccava interrompere la mia vita normale in Italia per andare a Parici a fare visite di controllo, predisporre bustini ecc. Lo vedevo come luogo di dolore e sofferenza e basta. Crescendo ho capito dell'enorme regalo che invece mi hanno fatto i medici francesi, ho imparato a percepire le sfumature di grigio che esistono tra il bianco e il nero e a vedere l'ospedale come un luogo certamente di sofferenza, ma anche di vita e di speranza. Ho imparato, insomma, che l'esistenza è una cosa davvero preziosa”. L'amore per la letteratura quando è sbocciato? “Nei corridoi dell'ospedale, quando ero bambina. Mi ritrovavo in un paese straniero, a disposizione dei piccoli pazienti c'erano alcuni giochi ma soprattutto la televisione, che ovviamente trasmetteva programmi in francese. I miei genitori provarono ad avvicinarmi allora alla lettura. Per me fu una scoperta, una rivelazione. Leggendo potevo incontrare personaggi che poi sarebbero diventati degli amici per me, e riuscivo ad evadere dalla mia realtà visitando luoghi fantastici. Da quando ho cominciato non ho più smesso di leggere”. Invece la passione per la scrittura? “A scrivere ho cominciato un po' più tardi, come conseguenza dell'amore profondo che nutrivo per la lettura. Iniziai a 11 anni, scrivendo poesie. Riversavo nella pagina bianca tutto lo sconforto che mi portavo dentro. La scrittura è stata terapeutica per me, perché mi ha permesso di capire chi ero e soprattutto chi volevo diventare”. Qual è il messaggio che intendi mandare col tuo libro? “Mi impegno a sensibilizzare le persone, far conoscere la realtà dei portatori di disabilità, scuotere le coscienze. Perché in Italia di disabilità si parla sempre troppo poco e troppo male, ma i pregiudizi nel 2022 non sono più accettabili. Nel libro parlo di disabilità, ma non è un libro sulla disabilità. Piuttosto sull'accettazione di se stessi. C'è stato un tempo in cui volevo negare verità evidenti, in cui avevo paura di portarmi incollata addosso l'etichetta di disabile, e mi vedevo estromessa dalla società. Poi ho capito che la mia storia poteva diventare un mezzo di riflessione per altri, per trovare quel coraggio e quella tenacia che invece avrebbero potuto mancare. Credo che tutti dovrebbero abbracciare se stessi, accettando le proprie debolezze e i propri limiti. Tutti dovrebbero imparare ad amarsi senza riserve e senza giudizi, per diventare finalmente le persone che vogliamo diventare”. Quali sono stati i commenti al libro che ti hanno maggiormente colpito? “Alcuni che sicuramente non mi aspettavo di ricevere, considerando che si toccano tematiche difficili come la disabilità e l'accettazione del sé. “Nel libro non c'è nessuna pagina inutile”, mi è stato detto, “Nelle tue pagine si evocano e si provocano grandi emozioni”. Oppure “Mi hai aiutato a riflettere su me stesso e accettarmi”. Qualcuno mi ha detto persino “Grazie alle tue parole ho superato un momento un po' difficile”. Ecco, credo che quest'ultimo sia il commento migliore che potessi sperare per il mio libro”. Hai mai pensato di fondare un'Associazione dedicata alla tua patologia? “No, perché ho ricevuto la diagnosi certa solo poco tempo fa, ma collaboro con molte associazioni dedicate alle varie disabilità. Molte organizzano presentazioni del mio libro, ed io destino i proventi dell'evento alle loro attività a sostegno dei malati”. Quali saranno i prossimi eventi culturali che ti vedranno protagonista? “In primis la presentazione del 23 settembre alle 18 nella Libreria dei Sogni di Ceparana, la prima gestita da persone diversamente abili. Inoltre il mio romanzo, che è già stato presentato al Salone Internazionale del libro di Torino e all'interno del programma di Rai 2 “O anche no”, sarà protagonista di Casa Sanremo, la rassegna culturale del prossimo Festival di Sanremo”.