Il nostro Paese si è accorto che esistono i fuori sede. Quelli che subito dopo le scuole superiori fanno le valigie, lasciano casa e famiglia, per andare a studiare fuori e a rimpinzare con sacrifici le casse di uno Stato – e non solo – che non gli garantisce un lavoro, una volta laureati. Quelli che pagano cifre esorbitanti per stanze minuscole e case che cadono a pezzi. Che tra un esame e l’altro lavorano. Quelli che in alcune realtà, diciamolo, non vengono visti di buon occhio dai residenti nonostante siano tasselli fondamentali dell’economia cittadina, nonché valore aggiunto per la vivibilità delle città che scelgono.
Il voto aperto agli studenti
L’Italia ha aperto gli occhi. Per ora vede solo gli studenti, poi un giorno forse vedrà anche il loro upgrade: i lavoratori. Vede loro, ma soprattutto vede anche il suo profitto personale fino ad ora scioccamente ignorato (anche se forse la destra non avrà così tanto da guadagnare, ma questo si vedrà) riconoscendogli finalmente il diritto al voto nella città dove vivono.
Freniamo l’entusiasmo, va bene. E’ una svolta storica, è vero, ma è limitata e sperimentale. Vale -come detto già – solo per alcuni studenti (quasi tutti visto che si voterà a giugno e a quel punto anche le matricole avranno superato il limite minimo di tre mesi del nuovo domicilio) e solo per le prossime elezioni europee. Ma considerando che i precedenti tentativi di aprire il voto a questa fetta di popolazione sono finiti tutti su un binario morto, possiamo quantomeno concederci un timido “evviva”.
I lavoratori no, ma è comunque una vittoria
Me lo concedo anche io. Che comunque ho abbandonato ormai da tempo gli abiti da studentessa, entrando di diritto nel mondo degli adulti, ma rimango ancora fortemente attaccata a quelli di fuori sede. Dopo 16 anni in Toscana non ho ancora trovato il “coraggio” di lasciare la mia regione anche sulla carta e di cambiare la residenza. Lo so, mi prendo la responsabilità e le conseguenze, come quella di non poter votare appunto. Magari lo farò prima di giugno, burocrazia permettendo. Ma in ogni caso fatemi dire evviva! per chi potrà godere di questa piccola conquista, visto che so cosa si prova.
Niente viaggi della speranza
Per una volta niente: “Tu scendi per votare?”, “Non lo so, costa troppo ed è una sfacchinata”. Per una volta niente traversate notturne, due (andata e ritorno) a distanza di 24 ore l’una dall’altra, 48 per i più fortunati, solo per il gusto di dire “Io ho votato”. Niente interminabili ore di autobus, quelle durante le quali ti condanni ad un ergastolo di cervicale e torcicollo, ma in compenso alleni la tua vescica ad arrendersi a comando: solo due/tre volte in 12/16 ore, ad orari prestabiliti. Niente voce registrata che ti avvisa di burloni cambi repentini di binari o di simpatici ritardi che ti fanno perdere quella rara coincidenza trovata per uno strano colpo di fortuna e che non ritroverai, perché la fortuna non è un treno ad alta velocità, è un regionale e non passa spesso.
Niente cari, carissimi (e non solo in senso affettivo) voli da una parte all’altra dello stivale che, vedendo i prezzi, è un capo di alta moda. E, infine, niente rincorsa ai partiti per farsi nominare rappresentante di lista e quindi votare. Per una volta, niente di tutto ciò. Almeno per gli studenti che, questa volta, si sentiranno meno fuori sede del solito.
Per i lavoratori no. E nemmeno per chi si trova fuori regione per motivi sanitari. Ci penseranno più in là. Ci vorranno altri decenni, come minimo.