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Home » Sport » No alle cuffie inclusive per “le chiome voluminose”: dopo le accuse di razzismo la Fina (forse) ci ripensa

No alle cuffie inclusive per “le chiome voluminose”: dopo le accuse di razzismo la Fina (forse) ci ripensa

Pensata per chi ha capelli molto voluminosi, come nuotatori e nuotatrici di colore o di gruppi 'ai margini' del panorama natatorio internazionale, è stata vietata per le competizioni, ma la federazione ne incoraggia l'uso in allenamento

Marianna Grazi
7 Luglio 2021
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Se si parla di razzismo, nello sport, difficilmente capita di riferirsi al nuoto. Visto e percepito come uno sport inclusivo, aperto a tutti, tanto che molto spesso proprio in questa disciplina troviamo persone che provengono da Paesi poveri o in via di sviluppo anche nelle “grandi occasioni“, all’apparenza rende fede alla propria fama. Ma non manca qualche ‘scivolone’ a bordo vasca. La federazione internazionale di nuoto (Fina) ha recentemente vietato di partecipare alle competizioni ufficiali con la Soul Cap, una cuffia “extra-large creato per i nuotatori che lottano con i loro capelli”.

Insomma per tutti i giovani che per ragioni identitarie o culturali hanno chiome molto voluminose. Pensata dai creatori come strumento di inclusione per un gruppo storicamente ‘escluso’ nelle competizioni è diventata così il simbolo di un razzismo sistemico, che fa fatica a essere estirpato anche in settori che di solito non vengono associati a questi sentimenti. Le cuffie in questione sono state realizzate da un brand attento alle esigenze di tutti i nuotatori e le nuotatrici, come dimostra ad esempio la collaborazione con Alice Dearing, prima nuotatrice di colore che rappresenterà il Team del Regno Unito alle prossime Olimpiadi. Soul Cap, produce infatti dei capi più larghi, pensati apposta per i capelli ‘Afro’ più spessi e voluminosi, che non danno alcun tipo di vantaggio in gara.

Il co-fondatore dell’azienda, Toks Ahmed, vede la proibizione della Soul Cap come un altro ostacolo per i nuotatori di colore da affrontare mentre perseguono lo sport. “Sentiamo che questo rifiuto viene dalla mancanza di pensiero, senza piena considerazione per la diversità e le diverse esigenze che gli atleti ‘non bianchi’ possono avere – ha detto – Sentiamo che c’è sempre spazio per migliorare e che anche i piccoli marchi possono fare qualcosa, ma abbiamo bisogno che ‘chi sta sopra’, chi decide, sia ricettivo al cambiamento positivo“.

Un cambiamento verso un mondo più inclusivo e egualitario che però stenta a farsi strada, date anche le motivazioni date dalla Fina per giustificare il divieto. Per la federazione le cuffie non si adattano “alla naturale forma della testa” e “gli atleti che gareggiano agli eventi internazionali non hanno mai usato, né richiedono cuffie di tali dimensioni e configurazione”. Quindi, viene da chiedersi, “naturale” vuol dire “bianco”?.

Dopo la decisione si è scatenato un tale tumulto internazionale, con accuse di discriminazione e razzismo che si mescolavano ai commenti a favore di questa scelta, anch’essi intrisi dal bias razzista, che la Fina stessa è stata costretta a tornare (parzialmente) sui propri passi. Il divieto resta per le competizioni, ma le cuffie possono essere usate in allenamento. E si incoraggia a farlo. Quasi a volersi lavare la coscienza: nella piscina di casa o comunque non in gara va bene, ma non potete ‘distinguervi’ durante la competizione. Nemmeno se questo significa essere messi a pari condizioni e avere le stesse possibilità degli avversari. Nemmeno quando la diversità diventa sinonimo di inclusione.

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  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Se si parla di razzismo, nello sport, difficilmente capita di riferirsi al nuoto. Visto e percepito come uno sport inclusivo, aperto a tutti, tanto che molto spesso proprio in questa disciplina troviamo persone che provengono da Paesi poveri o in via di sviluppo anche nelle "grandi occasioni", all'apparenza rende fede alla propria fama. Ma non manca qualche 'scivolone' a bordo vasca. La federazione internazionale di nuoto (Fina) ha recentemente vietato di partecipare alle competizioni ufficiali con la Soul Cap, una cuffia "extra-large creato per i nuotatori che lottano con i loro capelli". Insomma per tutti i giovani che per ragioni identitarie o culturali hanno chiome molto voluminose. Pensata dai creatori come strumento di inclusione per un gruppo storicamente 'escluso' nelle competizioni è diventata così il simbolo di un razzismo sistemico, che fa fatica a essere estirpato anche in settori che di solito non vengono associati a questi sentimenti. Le cuffie in questione sono state realizzate da un brand attento alle esigenze di tutti i nuotatori e le nuotatrici, come dimostra ad esempio la collaborazione con Alice Dearing, prima nuotatrice di colore che rappresenterà il Team del Regno Unito alle prossime Olimpiadi. Soul Cap, produce infatti dei capi più larghi, pensati apposta per i capelli 'Afro' più spessi e voluminosi, che non danno alcun tipo di vantaggio in gara. Il co-fondatore dell'azienda, Toks Ahmed, vede la proibizione della Soul Cap come un altro ostacolo per i nuotatori di colore da affrontare mentre perseguono lo sport. "Sentiamo che questo rifiuto viene dalla mancanza di pensiero, senza piena considerazione per la diversità e le diverse esigenze che gli atleti 'non bianchi' possono avere - ha detto - Sentiamo che c'è sempre spazio per migliorare e che anche i piccoli marchi possono fare qualcosa, ma abbiamo bisogno che 'chi sta sopra', chi decide, sia ricettivo al cambiamento positivo". Un cambiamento verso un mondo più inclusivo e egualitario che però stenta a farsi strada, date anche le motivazioni date dalla Fina per giustificare il divieto. Per la federazione le cuffie non si adattano "alla naturale forma della testa" e "gli atleti che gareggiano agli eventi internazionali non hanno mai usato, né richiedono cuffie di tali dimensioni e configurazione". Quindi, viene da chiedersi, "naturale" vuol dire "bianco"?. Dopo la decisione si è scatenato un tale tumulto internazionale, con accuse di discriminazione e razzismo che si mescolavano ai commenti a favore di questa scelta, anch'essi intrisi dal bias razzista, che la Fina stessa è stata costretta a tornare (parzialmente) sui propri passi. Il divieto resta per le competizioni, ma le cuffie possono essere usate in allenamento. E si incoraggia a farlo. Quasi a volersi lavare la coscienza: nella piscina di casa o comunque non in gara va bene, ma non potete 'distinguervi' durante la competizione. Nemmeno se questo significa essere messi a pari condizioni e avere le stesse possibilità degli avversari. Nemmeno quando la diversità diventa sinonimo di inclusione.
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