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Anche nel matrimonio c'è gender gap: le donne separate devono aspettare 300 giorni per risposarsi

di FRANCESCO LOMMI -
15 luglio 2021
Anche nelle leggi matrimoniali c’è distinzione tra uomo e donna. Sembrano passati secoli dai tempi del Codice Rocco con annesso delitto d’onore e matrimonio riparatore, ma la verità è che ancora oggi esistono leggi per cui una donna, all’interno della coppia, non ha gli stessi diritti del partner. L’esempio più lampante sta nell’articolo 89 del Codice Civile: “Non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento o dall’annullamento del matrimonio precedente, eccettuato il caso in cui il matrimonio è stato dichiarato nullo ai sensi dell’art.123. Il Re o le autorità a ciò delegate possono accordare dispensa da questo divieto. Il divieto cessa dal giorno in cui la donna ha partorito” In parole semplici, una donna non può risposarsi se non dopo trecento giorni dalla fine del precedente matrimonio.  Curioso il passaggio dell’articolo in cui si dice “Il divieto cessa dal giorno in cui la donna ha partorito”, retaggio del passato (anche se ancora in vigore) dovuto all’ipotetico dubbio legato alla paternità del bimbo in grembo alla madre. Questa lettura è significativa nel tratteggio delle condizioni sociali femminili del 1942, anno in cui è stata redatto il Codice Civile, in quanto si considera il matrimonio una garanzia sufficiente alla fedeltà coniugale della donna. Ancora una volta, emerge lo svilimento della figura femminile da sempre vista semplicemente nell’ottica di generare prole, a fronte della tutela riservata alla figura maschile a cui, per ragioni d’onore, bisogna evitare l’onta di non avere la certezza della paternità dei piccoli. Un modo di ragionare che sembra preistorico ma che in realtà appartiene ancora al  nostro Codice Civile.