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Greenwashing, 6 aziende su 10 sono classificabili a rischio elevato

Dall'indagine di InfluenceMap emerge che il 58% delle 293 corporation analizzate presentano "un profondo divario tra obiettivi climatici e azioni concrete"

di DOMENICO GUARINO -
29 novembre 2023
greenwashing

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Dire di fare ma non fare. Camuffare. Far finta di impegnarsi. Gettare fumo negli occhi. Darsi una patina di positività salvo poi procedere come sempre. In una parola greenwashing.

Il 58% delle aziende a rischio elevato

Un pericolo che, secondo un’analisi di InfluenceMap, riguarda ben il 58% delle gran di aziende che, stando al rapporto realizzato dall’Ong, presenterebbero un “profondo divario tra obiettivi climatici e azioni concrete per influenzare le politiche degli Stati”.

Delle 293 corporation analizzate infatti, quasi 6 su 10 sono classificabili come a rischio di greenwashing moderato o alto. Tanto che, secondo Will Aitchison, autore principale dello studio e direttore di InfluenceMap, "i governi non riescono a portare avanti la politica climatica alla velocità necessaria, e l’influenza delle imprese è una delle ragioni principali".

L'indagine di InfluencingMap evidenzia come il 58% delle grandi aziende presenta un profondo divario tra "obiettivi climatici e azioni concrete per influenzare le politiche degli Stati"

L’analisi di InfluenceMap conferma a livello globale quello che, ad esempio, uno studio della Commissione europea aveva verificato nel 2020, quando era stato rilevato che il 53.3% delle asserzioni ambientali esaminate nell’UE erano vaghe, fuorvianti o infondate, e che il 40% era del tutto infondato.

Il fenomeno greenwashing

Va detto che il greenwashing non è un fenomeno nuovo: a citarlo per la prima volta fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che lo adoperò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione economica (relativa a un taglio nei costi di gestione).

Da allora, con l’aumento dell’attenzione globale verso le problematiche ambientali legate al cambiamento climatico, la pratica del greenwashing è diventata sempre più diffusa, in quanto le aziende lo usano per dare prestigio al brand e lucrare su una fama che spesso, però, è solo ingannevole.

I piani per raggiungere la neutralità climatica: poco più che slogan

Il rapporto del think tank indipendente passa al vaglio  aziende che fanno parte dell’elenco Forbes 2000, quindi tra le maggiori al mondo.

Spulciando i loro piani per raggiungere la neutralità climatica o obiettivi analoghi e confrontandoli con il modo in cui influenzano la politica climatica - attraverso input diretti ai politici, documenti di sintesi e altre comunicazioni di sostegno, nonché l'impegno condotto dalle rispettive associazioni di settore - viene fuori che, in concreto, al di là delle parole e degli slogan, poco o pochissimo viene fatto.

Al di là degli slogan gli impegni rimangono molto vaghi

Alla fine, si nota come se il 93% delle aziende usa “net zero” o termini simili nelle proprie pagine web, sono davvero  pochissime quelle che adottano comportamenti e azioni concrete coerenti.

Tanto che, stando alla sintesi finale che associa ciascuna azienda a una fascia di “rischio”,  il 21.5% delle aziende è a “rischio significativo” e il 36.5% delle aziende è a “rischio moderato” di greenwashing.

Le peggiori in classifica

Per fare solo alcuni esempi, tratti dal comportamento delle le peggiori in classifica, compagnie come Chevron, Delta Air Lines, Glencore International e ExxonMobil pur professando di tendere verso l’obiettivo di emissioni nette zero, concretamente “sostengono l’espansione dell’industria dei combustibili fossili, cercano di indebolire le soglie emissive dei veicoli, combattono tramite lobbisti contro il Green Deal europeo, o si oppongono all’introduzione di tasse sul carbonio".

 “A meno che le aziende non corrispondano ai loro impegni climatici, con un sostegno ambizioso all'azione politica guidata dal governo, gli obiettivi dell’Accordo di Parigi saranno impossibili da raggiungere” afferma dunque Aitchison.

Per contrastare queste pratiche, le istituzioni internazionali stanno affinando strumenti legislativi ad hoc. Ad esempio, nel marzo 2023, la Commissione europea ha proposto nuovi criteri comuni per le asserzioni ambientali ingannevoli, che sono stati poi approvati dal Parlamento a maggio 2023.

La proposta più recente della Commissione integra quella del marzo 2022 sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde” stabilendo norme più specifiche in materia di asserzioni ambientali, oltre a un divieto generale di pubblicità ingannevole.