La storia di Pietro, in comunità psichiatrica, e la ricerca disperata di un centro per l’autismo

Il giovane, quasi 30 anni, da 13 vive nella struttura che però non è adeguata alla sua condizione. Mamma Assunta: “Sta peggiorando, non c’è rispetto per i diritti delle persone. Ma io e suo padre in sei anni non abbiamo trovato un posto che lo accolga”

di GIAMBATTISTA ANASTASIO
20 dicembre 2024
Assunta Aiello e il figlio Pietro

Assunta Aiello e il figlio Pietro

Lomazzo (Como), 20 dicembre 2024 – Pietro è nello spettro autistico. Eppure vive in una comunità psichiatrica in provincia di Como. Ci si potrebbe fermare qui: è noto che l’autismo non è una malattia, tantomeno mentale. Eppure Pietro passa tutte le sue giornate in una comunità psichiatrica. E non da oggi: è letteralmente cresciuto in comunità, ci vive da 13 anni, quando vi è entrato aveva 17 anni. A gennaio ne compirà 30.

Sei anni fa ecco la svolta: il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST Lariana fa sapere ai genitori di Pietro che la comunità psichiatrica non è il posto migliore per lui. Quasi mai lo è per una persona nello spettro autistico. “Dal Dipartimento ci hanno detto che la struttura in cui ancora oggi si trova nostro figlio non è in grado di riabilitarlo – racconta Assunta Aiello, sua madre –. Così ci hanno chiesto di trovare un’altra soluzione, meglio se un centro per l’autismo”.

Già, alla famiglia l’onere. Assunta si è immediatamente attivata ma in 6 anni non ha trovato alcun centro che possa aprire le porte al figlio. Nemmeno fuori provincia: “Ho provato pure nel cremonese”, fa sapere. Invano. “Pietro è in lista d’attesa da 6 anni perché di centri che possano accoglierlo non ce n’è. Intanto continua a stare in comunità”.

Ora Assunta non ne può più, vuol capire come sia possibile che una famiglia sia lasciata sola di fronte ad una scelta tanto importante, vuole capire perché il Dipartimento di Salute Mentale, la stessa ASST, l’ATS di Como, i Servizi Sociali del Comune di Lomazzo, dove risiede con il marito, non si attivino per una soluzione, non se ne assumano la responsabilità. "Io e mio marito siamo completamente soli”. Né si può attendere oltre. “Pietro sta peggiorando di giorno in giorno, passa il suo tempo chiuso in camera dal lunedì al sabato. Esce solo la domenica pomeriggio, quando io e suo padre possiamo andare a fargli visita. Si sta completamente disabituando agli stimoli esterni, riesce a stare solo in zone naturali in cui non c’è quasi nulla”.

Nell’attesa che si trovi la soluzione migliore per lui, Assunta chiede che in comunità Pietro possa avere almeno un educatore “col quale ricominciare un percorso di riabilitazione”. “Fino a qualche anno fa c’era un operatore, ma da un po’ di tempo a questa parte non più – spiega –. Ce ne sono due per 6 ospiti e siccome Pietro ha meno bisogno di altri, non è aggressivo, si trova spesso a dover badare a se stesso. Io non riesco più a saperlo tutti i giorni chiuso in quella stanza: ha 30 anni, non può e non deve fare questa vita, questo non è rispetto dei diritti delle persone con disabilità”.

Secondo quanto raccontato da Assunta, Pietro ha frequentato un centro per l’autismo fino ai 17 anni. Lo ha dovuto lasciare perché l’allora direttrice del centro non tollerava le frizioni con i suoi genitori che a loro volta, a torto o a ragione, non tolleravano “di non poter entrare nella stanza di Pietro e non poter sapere con puntualità che gli accadesse”. Adesso quello che conta è altro: “È stato quando siamo stati costretti a lasciare il centro per l’autismo che l’ATS di Como ci ha proposto la comunità psichiatrica dove vive nostro figlio. Ci fu detto che sarebbe stato garantito il rapporto uno a uno tra ospiti ed educatori. Per un certo periodo è stato così. Ma negli ultimi 3 anni è diverso. Non ce l’ho con la comunità e i suoi operatori, che cercano di fare il massimo – precisa questa madre – ma a mio figlio serve altro, come ha stabilito il Dipartimento di Salute Mentale e come constatiamo ogni domenica. Ho scritto pure all'assessorato regionale alla Disabilità”.