La professoressa Carla Bassu (classe 1979), studia e insegna Diritto Pubblico Comparato. Di se stessa dice che è “figlia, sorella, moglie e mamma devota, inseparabile dal fedele Fiji (cioè il suo cocker spaniel, ndr.)” e che è “una globe-trotter precoce e una lettrice vorace. Militante delle libertà fondamentali e appassionata sostenitrice delle battaglie per la parità di genere, spiega che “aspiro a crescere mia figlia libera dagli stereotipi e consapevole che tutto si può fare”. Rigorista nel lavoro, ma consapevole che non bisogna mai “prendersi troppo sul serio” è, ovviamente, orgogliosa delle sue radici sarde e sassaresi (è del quartiere san Giuseppe e liceo Azuni, dove suo nonno, Tonino, fu compagno di banco di Enrico Berlinguer). Lettrice e sportiva compulsiva (nuota, corre, giocava a tennis, il marito è un Triathleta), ha una bambina di sei anni, che si chiama Caterina e “che te lo dico a fà, è la luce dei miei occhi”. Il suo libro- “Il diritto all’identità anagrafica” (Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, 246pp.) che si occupa del “diritto alla trasmissione del cognome materno come espressione del principio di uguaglianza”–“è dedicato a lei, Caterina, che porta il doppio cognome”, chiosa la Bassu. Professoressa Bassu, mi scusi. Ma con tutti i problemi che ha questo Paese, urge davvero fare una battaglia per il ‘doppio cognome'? “Sì! Una cosa non esclude l’altra e anche le discriminazioni meno appariscenti devono essere eliminate dall’ordinamento. L’attenzione verso tutte le forme di lesione del principio di uguaglianza è importante perché proprio dalle pieghe del sistema traspare la resistenza di residui patriarcali che devono essere messi in luce ed eliminati. Imponendo il cognome paterno si invia un messaggio preciso alla società: è quello che merita di essere trasmesso e ricordato, ergo è quello che vale di più. Non è vero, non è giusto, non è compatibile con il nostro impianto costituzionale, basato sulla parità. Le nostre figlie e i nostri figli devono sapere che il genere di appartenenza non può essere un criterio di prevalenza accettabile in nessun ambito. Oltre al diritto della donna a non essere discriminata nella possibilità di trasmettere il proprio cognome alla prole, rileva anche il diritto dei figli a essere riconosciuti dall’ordinamento e nell’ambito della comunità di appartenenza come discendenti della madre al pari che del padre”. Lei ci ha scritto un libro sopra. Specifichiamo meglio, dunque, il senso della sua proposta. “Nome e cognome sono parte integrante della identità personale, ci identificano nella società già dai primissimi giorni di vita, ben prima che le caratteristiche fisiche e caratteriali ci rendano riconoscibili come individui. Il meccanismo di assegnazione del “nome di famiglia”, che tradizionalmente prevede l’imposizione della linea paterna, non è casuale bensì frutto di una particolare visione della società. L’apposizione del cognome paterno riflette una struttura sociale in cui il ruolo pubblico era riservato agli uomini “capifamiglia” e le donne passavano dalla tutela del padre a quella dello sposo del quale assumevano, a dimostrazione della “cessione” avvenuta, anche il cognome. Formalmente, questo tipo di visione è stato spazzato via dalla Costituzione Repubblicana che sancisce il principio di uguaglianza e professa, tra l’altro, la parità morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.). Sorprende, a più di settanta anni dall’entrata in vigore della nostra Carta fondamentale, scoprire la resistenza di retaggi anacronistici e incoerenti rispetto alla impostazione costituzionale”. Per la politica, quella sul doppio cognome, è diventato “un impegno trasversale”, come dice la presidente del Senato, Elisabetta Maria Alberti Casellati. Il tema, rilanciato da molte senatrici donne, in particolare democratiche, potrebbe persino diventare legge. Ma c’è speranza, entro la fine della legislatura?
“È solo una questione di volontà politica. Nonostante il richiamo reiterato della Corte Costiuzionale (che dal 1988 si è pronunciata cinque volte in materia) e della Corte Cedu, delle tante proposte di legge presentate fino a ora nessuna ha superato le forche caudine del nostro bicameralismo “perfetto”. La Consulta, pur riconoscendo che l'automatica attribuzione del cognome paterno esprime una visione iniqua dei rapporti tra uomo e donna, per anni non si è pronunciata nel merito, ritenendo che un proprio intervento avrebbe inciso in modo inopportuno sulla sfera di discrezionalità riservata al titolare del potere normativo. A fronte della perdurante inerzia legislativa, con una sentenza del 2016 è stata introdotta una soluzione transitoria che consente l’associazione del cognome materno a quello del padre, ma non basta. In assenza di un intervento normativo che stabilisca un modello chiaro, il giudice delle leggi si è trovato di nuovo a intervenire, nel gennaio 2021, in merito a una questione riferita a genitori (non sposati) che chiedevano la trasmissione al figlio del solo cognome materno (non l’aggiunta). Occorre una revisione organica del sistema che fornisca un riferimento chiaro e compatibile con l’impianto costituzionale. L’opposizione di chi dice che abbandonare il meccanismo di trasmissione patrilineare creerebbe confusione non regge. È sufficiente trovare un criterio coerente con il principio di uguaglianza come accade in tutte le democrazie stabilizzate dove l’ordine costituito non risulta affatto scalfito dalla possibilità di imporre ai figli il cognome materno, invece di quello paterno o associato a esso, con un criterio non discriminatorio per la trasmissione alle generazioni successive”. Allarghiamo il campo al più generale fronte dei diritti. Il ddl Zan ‘parce sepulto’ da poco. Lo ius soli da molto tempo. Sull’eutanasia, invece, la ‘gara’ è tra Parlamento e referendum. Quali le priorità di importanza? “Non riesco a fare una classifica. Secondo me è ben possibile lavorare su più fronti paralleli per riconoscere o rafforzare la garanzia di diritti fino a ora negati o non sufficientemente protetti. La questione degli “italiani senza cittadinanza”, ovvero figli di genitori stranieri nati o cresciuti nel nostro Paese, è per me eclatante, così come sono inaccettabili le discriminazioni o le molestie subite in ragione del genere o dell’orientamento sessuale, ma occorre anche affrontare senza indugio la materia del “fine vita”. Sono temi etici, sensibili e dunque divisivi, ma la Politica deve assumersi la responsabilità di scelte di civiltà, conformi alla cornice garantista della Costituzione Repubblicana”. Non può mancare una domanda sui diritti delle donne. A che punto è la notte? “La notte è buia e tempestosa...ma si intravedono fiammelle qua e là e una luce all’orizzonte. Certo, se è vero che il grado di tutela dei diritti delle donne, insieme con la presenza bilanciata dei generi nei ruoli strategici dell’economia, della politica e della società, può essere considerato un indicatore di salubrità di una democrazia, il quadro clinico dell’Italia non può dirsi tranquillizzante. La pandemia ha esacerbato aspetti di criticità preesistenti, esponendo un sostrato culturale in cui l’eguaglianza di genere e le pari opportunità non sono delle priorità. Negli ultimi due anni, troppe donne hanno perso il lavoro o hanno dovuto rinunciarvi: ignorare le cifre che dichiarano il calo dell’occupazione femminile imposto dalla necessità di dedicarsi alla casa e ai figli, in assenza di servizi corrispettivi, equivale a una resa rispetto agli obiettivi di parità, ma anche una rinuncia onerosa da parte del sistema paese che perde forza lavoro qualificata. Il nostro Stato costituzionale si fonda sulla uguaglianza e sulla promozione della capacità dell’individuo, a prescindere dal genere, ma si dimostra arrendevole quando si tratta di proteggere e affermare i diritti delle donne. In Italia le donne sono considerate ammortizzatori sociali, spesso non sono messe nelle condizioni di concorrere alla pari con gli uomini e per questo è importante realizzare condizioni di base per una competitività equa. Il PNRR (il piano di ripresa e resilienza del governo Draghi, ndr) è un’occasione da non perdere per investire in servizi per l’infanzia e sostegni o sgravi per gli impegni domestici, perché il carico fisico e mentale della cura familiare incombe ancora prevalentemente sulle donne. Sarebbe anche utile una rimodulazione dei tempi e delle modalità di lavoro che oggi sono ancora in gran parte definite su un prototipo da anni Cinquanta con uomini che possono dedicarsi alla carriera mentre le donne sono chiamate a conciliare lavoro e famiglia”. A una docente di diritto costituzionale, non posso non chiedere della prossima corsa al Colle. Mattarella esclude il bis, si parla di mandato ‘a tempo’ e pure di ‘semi-presidenzialismo’. Chiacchiere in libertà? “Direi proprio di sì. Sono discorsi suggestivi, ma da contenere alla riflessione intellettuale. Secondo la Costituzione (formale e materiale) la ‘fisarmonica’ dei poteri del Presidente è sì ampia ma si estende non oltre il margine della forma di Governo parlamentare che, a meno di una riforma che cambi le cose, non è in discussione. Non si contempla un mandato a tempo né un PdR che faccia le veci di capo del governo. Nel nostro ordinamento l’indirizzo politico spetta a Parlamento e Governo, il Presidente della Repubblica ha ruolo di garante: è un arbitro, non un giocatore, tenuto a intervenire in caso di crisi dei partiti e della politica. Poi, la storia repubblicana dimostra che indole e personalità dei Presidenti hanno influenzato il mandato così come il momento storico e le circostanze in cui ciascuno ha operato ma comunque nel quadro definito dalla Costituzione. Staremo a vedere...” Leggi l'inchiesta qui di LUCE! sul doppio cognome qui