Main Partner
Partner
Luce
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • 8 marzo
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
Luce
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • 8 marzo
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
Luce

Home » Attualità » Sfila con gli abiti che aveva quando un uomo provò a stuprarla: “Non è colpa di come ti vesti”

Sfila con gli abiti che aveva quando un uomo provò a stuprarla: “Non è colpa di come ti vesti”

Martina Evatore, 20enne padovana finalista al concorso "Miss Venice Beach" di Jesolo sfida gli stereotipi sulla violenza di genere

Marianna Grazi
11 Luglio 2022
Martina Evatore

Martina Evatore, 20 anni di Padova, sfila a Jesolo per per MissVeniceBeach (foto Daniele dalla Vecchia)

Share on FacebookShare on Twitter

“Vestita così, te le cerchi”. Quante volte ancora, in Italia, le donne, le ragazze, dovranno sentirsi ripetere questa frase, questa crudele sentenza? Che poi, tradotta, significa che “Se sei vittima di violenza la colpa è anche tua, per quello che indossavi”. Per dire basta a questa credenza assurda, che è alla base della cosiddetta ‘cultura dello stupro‘ che colpevolizza le vittime e crea insulse attenuanti per gli stupratori, una ragazza ha scelto di esporsi in prima persona, sfilando davanti ad un pubblico gremito con gli stessi abiti che indossava la notte in cui un uomo tentò di violentarla. Che sono, guarda un po’, vestiti normali, non ‘provocanti’ o ‘succinti’ (ma anche se fosse?).

Martina Evatore: “Non è l’abbigliamento che istiga alla violenza”

Martina Evatore a MissVeniceBeach con gli abiti che indossava tre anni fa quando un uomo tentò di stuprarla

Lei è Martina Evatore, 20 anni di Padova. Sabato sera, in piazza Milano a Jesolo, ha sfilato in passerella durante “MissVeniceBeach” (ideato 12 anni fa da Elisa Bagordo), convincendo i giudici che l’hanno mandata alla finale di settembre del concorso organizzato in collaborazione con il quotidiano il Gazzettino. Martina è salita in passerella con una T-shirt nera, pantaloni dello stesso colore, larghi, sneakers ai piedi e sopra una giacca stile militare. Doveva ‘vestirsi’ come il suo idolo e mentre le altre hanno scelto personaggi del calibro di Rondo, Megan Fox o Taylor Mega lei ha scelto se stessa. Non per vantarsi, anzi. Quegli abiti erano quelli che “indossavo il 29 luglio 2019, a mezzanotte e cinque, quando sono stata aggredita da un uomo”, racconta. La 20enne padovana, tre anni dopo, è tornata allora a indossarli per lanciare un messaggio: “Non conta come ti vesti, non sei mai tu che te la sei andata a cercare. Se ti molestano, il problema è di chi ti guarda“.

La tentata violenza e l’accusa: “Te le cerchi”

Era l’estate del 2019 e Martina, che abita nel tranquillo quartiere Sacro Cuore a Padova, stava andando ad una festa di compleanno. Come racconta al Corriere della Sera mentre attraversa un sottopasso nota un uomo che la fissa, ma riesce ad evitarlo. “Poi, quando stavo per arrivare, me lo sono trovato dietro”. La spinge contro un cancello, ma la ragazza ha i riflessi pronti, il suo papà le ha insegnato a difendersi: inizia a tirare calci e pugni contro quell’uomo, che nel frattempo tenta di infilarle le mani sotto la giacca. Quella militare. “Per fortuna delle auto si sono fermate per chiedere se fosse tutto a posto e l’uomo è scappato. Quando sono arrivata a casa dei miei amici ero molto scossa, loro hanno provato a cercarlo con i motorini, ma si era dileguato”, ricorda la 20enne. Che il giorno successivo, accompagnata dalla madre, ha sporto denuncia. Di lui, però, non ha saputo più niente. Non si è mai posta la domanda se quel tentativo di stupro fosse stato causato da qualcosa che aveva fatto, da quello che indossava. Finché recentemente un’amica, che “mi vuole molto bene”, non l’ha gelata: “Mi ha suggerito di coprirmi un po’ di più altrimenti, ha detto, me la cercavo“, ha dichiarato al quotidiano.

“La colpa è solo dell’aggressore, non di come siamo vestite”

Un abito troppo attillato o scollato inviterebbe quei ragazzi che, “tante volte ci fischiano dietro quando camminiamo. Ma credo che non sia colpa dell’abbigliamento, è un problema loro” afferma Martina. Che è stata seccata anche nel leggere la sentenza con cui i giudici della corte d’appello di Torino hanno assolto l’uomo che ha stuprato una ragazza perché questa aveva lasciato la porta del bagno semi aperta. “Non esistono gesti o abiti incoraggianti, esistono solo uomini che si sentono autorizzati a molestarti senza motivo, perché si fanno i film nella loro testa”. Ed è così. Basta pensare ai suoi, di vestiti, che ha indossato ancora una volta, sfilando a Jesolo. Le donne vengono violentate sia che abbiano la tuta sia con la minigonna. Con o senza trucco. Con la felpa, con i jeans, con la divisa di lavoro o con un vestitino da serata. Con i tacchi oppure senza. Il motivo, però, potrebbe sconvolgervi, vista la mentalità comune ancora diffusa: perché la colpa di uno stupro non è mai di chi ne è vittima, di chi lo subisce o ne scampa miracolosamente, ma solo e soltanto di chi lo commette. E il gesto di Martina Evatore, appena 20 anni, di Padova, deve servirci a capire proprio questo: “La differenza la fa la mente dell’aggressore, è lui che ha dei problemi, non chi si veste in un modo piuttosto che in un altro”. Perché solo così si può salvare il mondo.

Potrebbe interessarti anche

Maternità surrogata: a che punto siamo in Italia
Attualità

Maternità surrogata: reato universale o “atto di generosità”?

25 Marzo 2023
Il 25 e 26 marzo a Roma va in scena la decima edizione della marcia pacifica per la consapevolezza sull'endometriosi
Attualità

Endometriosi, Roma diventa capitale della consapevolezza

24 Marzo 2023
Ragazze Neet, il triste record europeo delle italiane
Economia

Ragazze Neet, il triste record europeo delle italiane. Tutta colpa degli stereotipi

19 Marzo 2023

Instagram

  • "Ora dobbiamo fare di meno, per il futuro".

Torna anche quest’anno l
  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
“Vestita così, te le cerchi”. Quante volte ancora, in Italia, le donne, le ragazze, dovranno sentirsi ripetere questa frase, questa crudele sentenza? Che poi, tradotta, significa che "Se sei vittima di violenza la colpa è anche tua, per quello che indossavi". Per dire basta a questa credenza assurda, che è alla base della cosiddetta 'cultura dello stupro' che colpevolizza le vittime e crea insulse attenuanti per gli stupratori, una ragazza ha scelto di esporsi in prima persona, sfilando davanti ad un pubblico gremito con gli stessi abiti che indossava la notte in cui un uomo tentò di violentarla. Che sono, guarda un po', vestiti normali, non 'provocanti' o 'succinti' (ma anche se fosse?).

Martina Evatore: "Non è l’abbigliamento che istiga alla violenza"

Martina Evatore a MissVeniceBeach con gli abiti che indossava tre anni fa quando un uomo tentò di stuprarla
Lei è Martina Evatore, 20 anni di Padova. Sabato sera, in piazza Milano a Jesolo, ha sfilato in passerella durante "MissVeniceBeach" (ideato 12 anni fa da Elisa Bagordo), convincendo i giudici che l'hanno mandata alla finale di settembre del concorso organizzato in collaborazione con il quotidiano il Gazzettino. Martina è salita in passerella con una T-shirt nera, pantaloni dello stesso colore, larghi, sneakers ai piedi e sopra una giacca stile militare. Doveva 'vestirsi' come il suo idolo e mentre le altre hanno scelto personaggi del calibro di Rondo, Megan Fox o Taylor Mega lei ha scelto se stessa. Non per vantarsi, anzi. Quegli abiti erano quelli che "indossavo il 29 luglio 2019, a mezzanotte e cinque, quando sono stata aggredita da un uomo", racconta. La 20enne padovana, tre anni dopo, è tornata allora a indossarli per lanciare un messaggio: "Non conta come ti vesti, non sei mai tu che te la sei andata a cercare. Se ti molestano, il problema è di chi ti guarda".

La tentata violenza e l'accusa: "Te le cerchi"

Era l'estate del 2019 e Martina, che abita nel tranquillo quartiere Sacro Cuore a Padova, stava andando ad una festa di compleanno. Come racconta al Corriere della Sera mentre attraversa un sottopasso nota un uomo che la fissa, ma riesce ad evitarlo. "Poi, quando stavo per arrivare, me lo sono trovato dietro". La spinge contro un cancello, ma la ragazza ha i riflessi pronti, il suo papà le ha insegnato a difendersi: inizia a tirare calci e pugni contro quell'uomo, che nel frattempo tenta di infilarle le mani sotto la giacca. Quella militare. "Per fortuna delle auto si sono fermate per chiedere se fosse tutto a posto e l’uomo è scappato. Quando sono arrivata a casa dei miei amici ero molto scossa, loro hanno provato a cercarlo con i motorini, ma si era dileguato", ricorda la 20enne. Che il giorno successivo, accompagnata dalla madre, ha sporto denuncia. Di lui, però, non ha saputo più niente. Non si è mai posta la domanda se quel tentativo di stupro fosse stato causato da qualcosa che aveva fatto, da quello che indossava. Finché recentemente un'amica, che "mi vuole molto bene", non l'ha gelata: "Mi ha suggerito di coprirmi un po’ di più altrimenti, ha detto, me la cercavo", ha dichiarato al quotidiano.

"La colpa è solo dell'aggressore, non di come siamo vestite"

Un abito troppo attillato o scollato inviterebbe quei ragazzi che, "tante volte ci fischiano dietro quando camminiamo. Ma credo che non sia colpa dell’abbigliamento, è un problema loro" afferma Martina. Che è stata seccata anche nel leggere la sentenza con cui i giudici della corte d'appello di Torino hanno assolto l'uomo che ha stuprato una ragazza perché questa aveva lasciato la porta del bagno semi aperta. "Non esistono gesti o abiti incoraggianti, esistono solo uomini che si sentono autorizzati a molestarti senza motivo, perché si fanno i film nella loro testa". Ed è così. Basta pensare ai suoi, di vestiti, che ha indossato ancora una volta, sfilando a Jesolo. Le donne vengono violentate sia che abbiano la tuta sia con la minigonna. Con o senza trucco. Con la felpa, con i jeans, con la divisa di lavoro o con un vestitino da serata. Con i tacchi oppure senza. Il motivo, però, potrebbe sconvolgervi, vista la mentalità comune ancora diffusa: perché la colpa di uno stupro non è mai di chi ne è vittima, di chi lo subisce o ne scampa miracolosamente, ma solo e soltanto di chi lo commette. E il gesto di Martina Evatore, appena 20 anni, di Padova, deve servirci a capire proprio questo: "La differenza la fa la mente dell’aggressore, è lui che ha dei problemi, non chi si veste in un modo piuttosto che in un altro". Perché solo così si può salvare il mondo.
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • Cos’è Luce!
  • Redazione
  • Board
  • Contattaci
  • 8 marzo

Robin Srl
Società soggetta a direzione e coordinamento di Monrif
Dati societariISSNPrivacyImpostazioni privacy

Copyright© 2023 - P.Iva 12741650159

CATEGORIE
  • Contatti
  • Lavora con noi
  • Concorsi
ABBONAMENTI
  • Digitale
  • Cartaceo
  • Offerte promozionali
PUBBLICITÀ
  • Speed ADV
  • Network
  • Annunci
  • Aste E Gare
  • Codici Sconto