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Home » Attualità » Vietnam, proteste vietate e restrizioni alla libertà. Così Hanoi nega i diritti umani degli attivisti politici

Vietnam, proteste vietate e restrizioni alla libertà. Così Hanoi nega i diritti umani degli attivisti politici

La denuncia di Human Rights Watch: "Il governo vietnamita reprime i diritti fondamentali di attivisti e dissidenti". La storia di Tạ Phong Tần

Domenico Guarino
26 Febbraio 2022
Vietnam

Vietnam

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Divieto di partecipare a proteste, processi, conferenze stampa e incontri con personale diplomatico di altri Paesi, ma anche arresti, fermi agli aeroporti e alle frontiere. Oppure  il blocco dei passaporti e dei documenti di identità, fino agli arresti domiciliari: in Vietnam la vita degli attivisti per i diritti umani e politici è sempre più difficile. Lo denuncia Human Rights Watch (HRW) che ha stilato un rapporto di 65 pagine dal titolo quanto mai significativo:  “Relegati in casa: restrizioni della libertà di movimento degli attivisti in Vietnam”.

Il dossier, che si basa sul racconto di oltre 170 attivisti, blogger, dissidenti e i loro familiari e riporta incidenti avvenuti tra il 2004 e il 2021, analizza le violenze quotidiane subite, a partire dalle fortissime limitazioni alla libertà di movimento e all’agibilità dei diritti politici. Limitazioni solo apparentemente meno gravi  – e per questo spesso trascurate nei dossier internazionali sui diritti umani –  che tuttavia ledono pesantemente la libertà personale.

“Il governo vietnamita reprime i diritti fondamentali di queste persone e li espone a rischi costanti”, afferma Phil Robertson, vice direttore della sezione Asia di HRW.  Che aggiunge: “tattiche come detenzione domestica, proibizioni e restrizioni alla libertà di espatrio per motivi fittizi sono utilizzate quotidianamente dalle forze nazionali e rappresentano gravi abusi dei diritti umani”.

L’attivista Nguyen Thuy Hanh (Foto di Amnesty International)

Vietnam, ecco come si realizza la negazione dei diritti umani

La repressione e le limitazioni al movimento degli attivisti raggiunge l’apice in occasione di celebrazioni ed eventi importanti, o quando si verifica la visita di un dignitario straniero. Le pratiche vanno dallo stazionamento di agenti in borghese davanti alle abitazioni, al blocco delle serrature, fino all’erezione di vere e proprie barriere fisiche davanti alle case dei dissidenti per impedire alle persone di uscire di casa.

Ad esempio, nel gennaio del 2021, l’attivista Nguyen Thuy Hanh, è stata agli arresti domiciliari per 10 giorni, giusto il tempo delle celebrazioni del Congresso del Partito comunista vietnamita.  Mentre nel  maggio del 2016, Nguyen Quang  è stato bruscamente spinto dentro un’automobile e portato lontano dall’incontro programmato con Barack Obama, allora presidente degli Stati Uniti.

Secondo il dossier, particolare attenzione viene riservata dal Governo vietnamita al contatto con dissidenti in esilio. Per evitare che questo accada ci si nasconde dietro la motivazione tanto vaga quanto inquietante di “ragioni di sicurezza nazionale”.

“Gli attivisti incorrono in sanzioni e rappresaglie per il solo fatto di partecipare a certi eventi o semplicemente per volersi spostare. I partner commerciali del Vietnam, così come gli investitori, dovrebbero riconoscere e condannare queste quotidiane violazioni e fare pressione sul governo” conclude Robertson.

“Torture ai dissidenti nelle prigioni vietnamite”

Negli scorsi anni Amnesty International aveva puntato l’attenzione sulle torture ed i trattamenti inumani cui erano sottoposti i dissidenti nelle prigioni vietnamite (Prisons within Prisons: Torture and ill-treatment of prisoners of conscience in Viet Nam il titolo del report) . Nonostante infatti il Paese asiatico abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura nel 2015, nel dossier che si basa, su un anno di ricerche che includono più di 150 ore di interviste con 18 ex prigionieri di coscienza che hanno trascorso da un mese a decenni in detenzione, sono frequenti le testimonianze di pestaggi, violenze se non  vere e proprie torture,  lunghi periodi in isolamento, al buio, in celle sporche senza alcun accesso all’aria fresca, all’acqua e ai servizi igienici.

Tạ Phong Tần, incarcerata secondo Amnesty International per la sua attività di blogger e attivista

La storia dell’attivista Tạ Phong Tần

Spesso gli attivisti vengono condannati in assenza di rappresentanti legali, e, una volta  in carcere, per lunghi periodi viene vietato loro di contattare un avvocato, dei professionisti della salute e membri della propria famiglia. Tạ Phong Tần, incarcerata per la sua attività di blogger e attivista, ha detto a Amnesty International che durante i quattro anni di detenzione solo sua sorella ha ottenuto il permesso di visitarla. Dopo essersi vista negare il permesso di visita due volte, il 30 luglio 2012, sua madre Đặng Thị Kim Liêng si è immolata davanti agli uffici statali in segno di protesta ed è morta a causa delle ustioni.

Infine Phạm Văn Trội, un altro ex prigioniero di coscienza, ha raccontato di  stato tenuto in isolamento per oltre sei mesi dopo essersi lamentato per i fumi esalati da un vicino forno per mattoni. Ha raccontato ad Amnesty International di essere tormentato dal pensiero che altre persone possano essere morte nella cella dove dormiva. Quando è stato portato dal medico della prigione ha aperto la bocca per spiegare a gesti che non poteva parlare. “Il dottore mi ha picchiato nella bocca con un pezzo di plastica dura, rotondo. Ho perso dei denti, tra i quali anche un dente del giudizio. Ho perso così tanto sangue che sono svenuto un’altra volta.”

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  • Sono tre, per il momento, gli istituti superiori che si sono candidati ad accogliere Nina Rosa Sorrentino, la studentessa disabile di 19 anni che non può sostenere la maturità al liceo Sabin di Bologna (indirizzo Scienze umane) e che i genitori hanno per questo motivo ritirato da scuola.

La storia è nota: la studentessa ha cominciato il suo percorso di studi nel liceo di via Matteotti seguendo il programma differenziato. Già al terzo anno i genitori avevano chiesto di passare al programma degli obiettivi minimi che si può concludere con l’Esame di Stato, mentre quello differenziato ha solo la "certificazione delle competenze".

Il Consiglio di classe aveva respinto la richiesta della famiglia, anche perché passare agli obiettivi minimi avrebbe implicato esami integrativi. Da qui la decisione della famiglia, avvenuta giusto una settimana fa, di ritirare Nina da scuola – esattamente un giorno prima che i giorni di frequenza potessero essere tali da farle comunque ottenere la "certificazione delle competenze" – in modo tale che possa provare a sostenere la Maturità in un altro istituto del capoluogo emiliano.

Sulla storia di Nina, ieri, è tornata anche la ministra per la Disabilità, Alessandra Locatelli, che alla Camera ha risposto, durante il question time, a una domanda sulle iniziative volte a garantire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone con sindrome di Down presentata dal capogruppo di FdI, Tommaso Foti.

"C’è ancora un po’ di strada da fare se una ragazza con la sindrome di Down non viene ammessa all’esame di maturità – ha detto la ministra –. Se non si è stati in grado di usare tutte le strategie possibili e l’accomodamento ragionevole, come previsto dalla Convenzione Onu per i diritti delle persone disabili che in Italia è legge; se non si è stati in grado di valorizzare i punti di forza dei ragazzi che non chiedono di essere promossi automaticamente ma di avere un’occasione e un’opportunità."

#lucenews #lucelanazione #ninasorentino #disabilityinclusion #bologna
  • “Ho fatto la storia”. Con queste parole Alex Roca Campillo ha postato sul suo account Twitter il video degli ultimi, emozionanti, metri della maratona di Barcellona.

Ed effettivamente un record Alex l’ha scritto: è la prima persona al mondo con una disabilità al 76 per cento a riuscire a percorrere la distanza di 42 km e 195 metri.
Alex ha concluso la sua gara in 5 ore 50 minuti e 51 secondi, ma il cronometro in questa situazione è passato decisamente in secondo piano. “tutto questo è stato possibile grazie alle mia squadra. Grazie a tutti quelli che dal bordo della strada mi hanno spinto fino al traguardo. Non ho parole”.

#lucenews #alexrocacampillo #maratonadibarcellona #barcellona
  • In Uganda dirsi gay potrà costare l’ergastolo. Il Parlamento dell’Uganda ha appena approvato una legge che propone nuove e severe sanzioni per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Al termine di una sessione molto movimentata e caotica, la speaker del Parlamento Annet Anita Among, dopo il voto finale ha detto: “È stata approvata a tempo record”. La legge, che passa ora nelle mani del presidente Yoweri Museveni, che potrà scegliere se porre il veto o firmarla, propone nuove e molto dure sanzioni per le relazioni omosessuali in un Paese in cui l’omosessualità è già illegale.

La versione finale non è ancora stata pubblicata ufficialmente, ma gli elementi discussi in Parlamento includono che una persona condannata per adescamento o traffico di bambini allo scopo di coinvolgerli in attività omosessuali, rischia l’ergastolo; individui o istituzioni che sostengono o finanziano attività o organizzazioni per i diritti Lgbt, oppure pubblicano, trasmettono e distribuiscono materiale mediatico e testuale a favore degli omosessuali, rischiano di essere perseguiti e incarcerati. 

“Questa proposta di legge – ha detto Asuman Basalirwa, membro del Parlamento che l’ha presentata – è stata concepita per proteggere la nostra cultura, i valori legali, religiosi e familiari tradizionali degli ugandesi e gli atti che possono promuovere la promiscuità sessuale in questo Paese”. Il parlamentare ha poi aggiunto: “Mira anche a proteggere i nostri bambini e giovani che sono resi vulnerabili agli abusi sessuali attraverso l’omosessualità e gli atti correlati”.

Secondo la legge amici, familiari e membri della comunità avrebbero il dovere di denunciare alle autorità le persone omosessuali. Nello stesso disegno di legge, tra l’altro, si introduce la pena di morte per chi abusa dei bambini o delle persone vulnerabili. 

#lucenews #lucelanazione #uganda #lgbtrights
  • Un’altra pagina di storia del calcio femminile è stata scritta. Non tanto per il risultato della partita ma per il record di spettatori presenti. All’Olimpico di Roma andava in scena il match di andata dei quarti di finale di Champions League tra Roma e Barcellona quando si è stabilito un nuovo record: sono state 39.454 infatti le persone che hanno incoraggiato le ragazze fin dal primo minuto superando il precedente di 39.027 stabilito in Juventus-Fiorentina del 24 marzo 2019.

Era l’andata dei quarti di finale che la Roma ha raggiunto alla sua prima partecipazione alla Champions League, ottenuta grazie al secondo posto nell’ultimo campionato. Il Barcellona, campione di Spagna e d’Europa due anni fa, era favorito e in campo lo ha dimostrato, soprattutto nel primo tempo, riuscendo a vincere 1-0. La squadra di casa è stata tenuta a galla dalle parate di Ceasar, migliore in campo, ma ha provato a impensierire la corazzata spagnola nella ripresa dove più a volte ha sfiorato la rete con le conclusioni di Haavi, Giacinti e Giugliano, il primo “numero 10” a giocare all’Olimpico per la Roma dopo il ritiro di Francesco Totti.

✍ Edoardo Martini

#lucenews #lucelanazione #calciofemminile #championsleague

Divieto di partecipare a proteste, processi, conferenze stampa e incontri con personale diplomatico di altri Paesi, ma anche arresti, fermi agli aeroporti e alle frontiere. Oppure  il blocco dei passaporti e dei documenti di identità, fino agli arresti domiciliari: in Vietnam la vita degli attivisti per i diritti umani e politici è sempre più difficile. Lo denuncia Human Rights Watch (HRW) che ha stilato un rapporto di 65 pagine dal titolo quanto mai significativo:  “Relegati in casa: restrizioni della libertà di movimento degli attivisti in Vietnam”.

Il dossier, che si basa sul racconto di oltre 170 attivisti, blogger, dissidenti e i loro familiari e riporta incidenti avvenuti tra il 2004 e il 2021, analizza le violenze quotidiane subite, a partire dalle fortissime limitazioni alla libertà di movimento e all’agibilità dei diritti politici. Limitazioni solo apparentemente meno gravi  - e per questo spesso trascurate nei dossier internazionali sui diritti umani -  che tuttavia ledono pesantemente la libertà personale.

“Il governo vietnamita reprime i diritti fondamentali di queste persone e li espone a rischi costanti”, afferma Phil Robertson, vice direttore della sezione Asia di HRW.  Che aggiunge: “tattiche come detenzione domestica, proibizioni e restrizioni alla libertà di espatrio per motivi fittizi sono utilizzate quotidianamente dalle forze nazionali e rappresentano gravi abusi dei diritti umani”.

L'attivista Nguyen Thuy Hanh (Foto di Amnesty International)

Vietnam, ecco come si realizza la negazione dei diritti umani

La repressione e le limitazioni al movimento degli attivisti raggiunge l’apice in occasione di celebrazioni ed eventi importanti, o quando si verifica la visita di un dignitario straniero. Le pratiche vanno dallo stazionamento di agenti in borghese davanti alle abitazioni, al blocco delle serrature, fino all’erezione di vere e proprie barriere fisiche davanti alle case dei dissidenti per impedire alle persone di uscire di casa.

Ad esempio, nel gennaio del 2021, l’attivista Nguyen Thuy Hanh, è stata agli arresti domiciliari per 10 giorni, giusto il tempo delle celebrazioni del Congresso del Partito comunista vietnamita.  Mentre nel  maggio del 2016, Nguyen Quang  è stato bruscamente spinto dentro un’automobile e portato lontano dall’incontro programmato con Barack Obama, allora presidente degli Stati Uniti.

Secondo il dossier, particolare attenzione viene riservata dal Governo vietnamita al contatto con dissidenti in esilio. Per evitare che questo accada ci si nasconde dietro la motivazione tanto vaga quanto inquietante di “ragioni di sicurezza nazionale”.

“Gli attivisti incorrono in sanzioni e rappresaglie per il solo fatto di partecipare a certi eventi o semplicemente per volersi spostare. I partner commerciali del Vietnam, così come gli investitori, dovrebbero riconoscere e condannare queste quotidiane violazioni e fare pressione sul governo” conclude Robertson.

"Torture ai dissidenti nelle prigioni vietnamite"

Negli scorsi anni Amnesty International aveva puntato l’attenzione sulle torture ed i trattamenti inumani cui erano sottoposti i dissidenti nelle prigioni vietnamite (Prisons within Prisons: Torture and ill-treatment of prisoners of conscience in Viet Nam il titolo del report) . Nonostante infatti il Paese asiatico abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura nel 2015, nel dossier che si basa, su un anno di ricerche che includono più di 150 ore di interviste con 18 ex prigionieri di coscienza che hanno trascorso da un mese a decenni in detenzione, sono frequenti le testimonianze di pestaggi, violenze se non  vere e proprie torture,  lunghi periodi in isolamento, al buio, in celle sporche senza alcun accesso all’aria fresca, all’acqua e ai servizi igienici.

Tạ Phong Tần, incarcerata secondo Amnesty International per la sua attività di blogger e attivista

La storia dell'attivista Tạ Phong Tần

Spesso gli attivisti vengono condannati in assenza di rappresentanti legali, e, una volta  in carcere, per lunghi periodi viene vietato loro di contattare un avvocato, dei professionisti della salute e membri della propria famiglia. Tạ Phong Tần, incarcerata per la sua attività di blogger e attivista, ha detto a Amnesty International che durante i quattro anni di detenzione solo sua sorella ha ottenuto il permesso di visitarla. Dopo essersi vista negare il permesso di visita due volte, il 30 luglio 2012, sua madre Đặng Thị Kim Liêng si è immolata davanti agli uffici statali in segno di protesta ed è morta a causa delle ustioni.

Infine Phạm Văn Trội, un altro ex prigioniero di coscienza, ha raccontato di  stato tenuto in isolamento per oltre sei mesi dopo essersi lamentato per i fumi esalati da un vicino forno per mattoni. Ha raccontato ad Amnesty International di essere tormentato dal pensiero che altre persone possano essere morte nella cella dove dormiva. Quando è stato portato dal medico della prigione ha aperto la bocca per spiegare a gesti che non poteva parlare. “Il dottore mi ha picchiato nella bocca con un pezzo di plastica dura, rotondo. Ho perso dei denti, tra i quali anche un dente del giudizio. Ho perso così tanto sangue che sono svenuto un’altra volta.”

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