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Luisa Bagnoli, il 'medico' dell'azienda che scommette su robot e sul talento unico dei giovani: "È il ritorno al Rinascimento"

di MARIANNA GRAZI -
2 giugno 2021
LuisaBagnoli

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È entrata a far parte del comitato scientifico di Luce!: una scelta sentita e voluta perché, come racconta, "credo che dobbiamo imparare a vedere le ombre con la consapevolezza che c’è anche la luce". "Luce vuol dire che, invece di guardare sempre in basso e vedere le ombre, stare nel giudizio, stare nella tristezza del difetto, della mancanza, devo alzare gli occhi, guardare in su e vedere cos’è che genera quell’ombra –aggiunge– È tutto un'alternanza tra dare e avere, tra essere e fare, maschile e femminile. Siamo circolari e opposti, facciamo parte di un cerchio che inizia con l’ombra e finisce con la luce".

Insomma, con le sue parole Luisa Bagnoli restituisce l'immagine di quello che è lo spirito del nostro sito, che punta sul far uscire le persone dal buio del pregiudizio per guardare verso un mondo all'insegna dell'inclusione e della valorizzazione della diversità.

  Diplomata al Liceo classico e poi passa a studiare e ad occuparsi di economia. Come mai questa scelta? "Ho fatto il classico a Siena e poi volevo fare medicina. Però mio padre era professore a medicina e io non volevo dare adito all’idea che non fossi brava ma solo 'la figlia di'. Siccome ho sempre voluto essere molto indipendente ci ho ragionato tanto. E lì per lì, con dolore, ho scelto economia. Mi ricorderò benissimo un giorno, avevo circa 18 anni, stavo aspettando mio padre per andare a pranzo e una paziente appena uscita dal suo studio mi chiese che università avrei scelto da lì a un anno, finito il liceo. Io dissi "o economia o medicina" e lei rispose "ma sono due cose differentissime". Io ribattei che in realtà non era affatto in quel modo, perché puoi essere sia il medico di una persona che il medico di un’azienda che è fatta da quelle persone. L’approccio per me non cambia". Che vuol dire fare il "medico" dell'azienda? "Non so come mi uscì questa cosa, però me la sono ricordata nel 2015 quando mi sono resa conto che quello che avevo detto allora era quello che stavo effettivamente facendo. Stavo dietro alle aziende, su più fronti, e ho cambiato varie volte approccio e modo di lavorarci. Dalla Ricerca del talento alla valutazione più complessa, ai suggerimenti su processi e metodi, fino ad occuparmi di telepresenza robotica (prima della pandemia, in tempi non sospetti). È stato tutto un percorso molto variegato fino ad oggi, però c’è sempre stata clinica dell’azienda. Prima ero più sul concetto di innovazione manageriale, ora sull’innovazione d’impresa tout court, nel senso che voglio veramente far sì che le tecnologie possano diventare il volano per questo Paese". All’estero tutto ciò che riguarda la robotica e l’innovazione digitale è entrato nella vita comune. "Sono comuni davvero. Double Robotics (startup tecnologica che produce robot per telepresenza basati su iPad chiamati Double e Double2, ndr) è un'azienda che ha già venduto più di 20mila pezzi. In Germania, solo nel 2020, sono stati venduti circa 600 Cobot (o co-robot, concepiti per interagire fisicamente con l’uomo in uno spazio di lavoro)". In Italia, invece, sembra qualcosa di avveniristico. "Esatto, noi siamo veramente indietro. Ora lo dico con ancora più contezza e consapevolezza. Da quando sono partner di Double Robotics – ormai più di un anno – parlo con tutti di innovation director, di Ceo, di innovazione e digitalizzazione, e faccio il confronto con i miei colleghi all’estero. Mi rendo conto che siamo indietro. È inutile dire di no. Qui  le persone iniziano ora a capire, domandare. Poi si spaventano, qualcuno fa domande assurde sui Cobot tipo "è ma se non ha le mani…". Non riescono nemmeno dopo averlo provato. C’è una mancanza di pensiero critico, innovativo, che è alle basi". Quali sono i progetti futuri a cui si vorrebbe dedicare? "Vorrei chiudere il cerchio, in un certo senso, aiutando la sanità e gli ospedali. È ancora presto ma mi piacerebbe anche insegnare la comunicazione medico paziente, magari proprio attraverso il Cobot". Oltre ai robot ci sono altri “soggetti” che segue con attenzione? "Certo, seguo con passione le tematiche giovanile e femminile. E questo Paese deve dare spazio a giovani e donne. La pandemia ha dimostrato quello che in finanza si chiama “window dressing”, una vetrina. Le donne qua, le donne là, poi è arrivato il covid e ha spazzato via tutto: le chiamate al 1522 (il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking) sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, con picchi fino al 182% nel mese di maggio 2020; i professori universitari uomini hanno prodotto il triplo dei paper, le donne la metà; c’è il drammatico dato Istat che parla di 99mila donne (solo partite iva e contratti a termine) su 101mila persone che a dicembre 2020 hanno perso il lavoro. Appena riprenderanno i licenziamenti poi, più che altro nelle piccole e medie imprese, saranno loro le prime ad essere mandate a casa. Se si parla di giovani è un sistema più circolare. È il tema che mi piace più di tutti, devo dire. La speranza più grande ce l’ho sui ragazzi tra i 15 e i 20 anni. Io spero nelle ragazzine e nei giovanissimi, come Greta (Thunberg) che ha fatto 'casino', è scesa in piazza, si è fatta sentire". E per quanto riguarda invece i diversi orientamenti sessuali? "Ho anche una sensibilità in termini di temi LGBTQ, anche se gli altri temi sono quelli che seguo maggiormente e sento più vicini. Però ecco, tutto ciò che è sessualità e tradizionalità comunque dà alle persone una piccola zona di comfort. Un recinto dove stare, dove si sono adattati, all’inizio lamentandosi poi imponendo questo recinto agli altri. Chiunque non voglia starci provoca spavento, sgomento, e di conseguenza violenza. Insomma fa risuonare dentro quella voce che dice che anche tu potevi uscire da quel recinto. E allora diventi violento/a". Un po’ come quando si dice che le donne 'si combattono' tra loro?  "Sì, e non è affatto vero. Noi donne ci vogliamo gran bene, non è assolutamente vero che ci odiamo. Succede, quello sì, ad esempio nelle grandi aziende c’è il 'divide et impera' in campo maschile. E alcuni manager uomini non se ne rendono nemmeno conto: assumono certi tipi di donna, vogliono essere adorati e poi le fanno inevitabilmente litigare tra loro. Parlo dei board ad altissimi livelli. E poi quando, come donna, ti sei adattata, hai rinunciato, non trovi più un lavoro perché magari te l’ha chiesto tuo marito, hai avuto figli, e vedi un’altra che ha fatto tutto quello che voleva fare, indipendente, tu che non puoi più a quel punto 'devi' odiarla per non rimetterti in discussione, per non soffrire. È più facile, a quel punto, dire che la pensi come gli uomini, che sei per la famiglia tradizionale, che la donna in carriera è sbagliata. Sarebbe triste dire "potevo esserlo anche io". Un altro tema assurdamente folle è che tuttora il 30% delle donne non ha un conto corrente personale, non sono indipendenti nemmeno se lavorano". Secondo lei, su questi temi, cosa dovrebbe cambiare? E come? "È la visione del talento, in un certo senso. Dovremmo accettare che siamo unici e questo, per fortuna, è un trend che i ragazzi hanno. Io ho scritto il libro di favole “La lupa blu”, che è legato al tema del bambino interiore dento ognuno di noi; il mio sogno sarebbe che lo leggesse qualche adulto ai figli anche molto piccoli. Dare fiducia ai bambini e al nostro bambino interiore, comprendere che tutti noi abbiamo un talento. Tutti nasciamo con una 'missione di vita' se si vuole. Non è tutto casuale, come crediamo e come io stessa ho creduto nei miei primi 40 anni. È proprio apprezzare la vera natura delle persone, la bellezza interiore di ognuno. Allora avremmo anche meno paura dei robot, ci aiuterebbero a liberare la nostra creatività. Se c’è più intelligenza artificiale – è per questo la seguo e la voglio seguire – avremo più libertà e più tempo". Anche da dedicare ad altri progetti, come lei con Luce? "Sì, tempo da dedicare a progetti di vero valore, belli, fatti da gente incredibile, come Luce. Per questo ho voluto farne parte. Perché bisogna fare in modo che le persone, questo tempo della loro vita, lo sappiano occupare. Rimanendo in un contesto ipotetico, se le persone quando un robot farà un lavoro meglio di loro non saranno preparate a far leva su questi, non faranno parte di quello che potremmo definire un ritorno al Rinascimento." Che significa? "Avere tanti piccoli imprenditori, come le piccole botteghe dell’arte del Rinascimento, non lavorare a nero. Oggi un uomo ha uno, due, tre lavori a nero ed è anche quello che non trovi mai quando serve. Pensiamo all’idraulico: non si trova, quando è disponibile l’appuntamento non lo fissa alle 9 ma tra le 9 e le 13, quando può lui, magari non fattura. Ne diventi schiavo, non cliente. Però poi arriverà una ditta straniera, con tanti robot, che ti manderà una persona all’ora esatta in cui vuoi. E il privato sparirà e si lamenterà. Vogliamo tornare al Rinascimento, allora facciamo in modo che i figli di chi oggi lavora, i giovani, non imparino solo dai genitori, ma che vedano nelle istituzioni qualcosa di istruttivo. E credo che anche l’azienda oggi debba esserlo, visto che quelle ufficiali non ce la fanno. Quindi vedere il talento in un’altra maniera e non rinchiudendosi nella propria comfort zone creata dagli altri, odiando chi ne evade perché ha avuto il coraggio di farlo e io no". Cosa consiglia ai giovani? "Di avere questi assiomi, propri come fosse matematica. Uno: ho un talento, il mio talento è in me, devo solo agirlo. Due: non lo vedo, vado a cercare, interrogare, chi era accanto a me quando ero bambino. Tre: chiedere a chi mi sta intorno oggi. Continuare così a loop finché non mi vibrerà quella corda, e non avere giudizio su quel talento che ho". In che senso, un giudizio sul talento? "Basta guardare il calcio: tutti vogliono essere il goleador. Tutti vogliono essere il leader, tradotto in azienda. Il capo, il Ceo. Abbiamo una società che valuta il ruolo sociale, non chi sei ma cosa fai, non cosa senti o provi ma cosa ordini al mondo. Il successo viene definito in maniera canonica: soldi, donne, macchine. Una volta che l’hai trovato, il talento, lo puoi vedere se non hai assoluto giudizio su di esso. Faccio spesso l’esempio dell’acqua. C’è un bimbo che assaggia l’acqua e dice alla mamma "quest’acqua è diversa rispetto all’altra, una è più acida, una più gasata ecc". I genitori o i nonni gli dicono: "Amore dai, vai a studiare in camera che sei in ritardo col programma". A 5, 10, 12 anni questi sono l’autorità. Se loro non te lo riconoscono come talento tu penserai di essere stato sciocco. Anzi ti offenderai, perché l’autorità non ti ha ascoltato. Invece se stai su quel talento, se i genitori e i nonni e gli insegnanti invece ti dicono "interessante, raccontami", se c’è apertura, ascolto e non giudizio, allora quel talento potrà magari fiorire". Ci parlava prima del suo libro "La Lupa Blu", in cui cita anche una sua teoria di leadership. Ce la spiega? "È la leadership basata su un talento unico, 'Unique talent'. Non hai un solo talento, ne puoi avere mille. Ma sicuramente hai un talento che ti rende unico. E siamo qui per gli altri: il mio talento lo vedo anche se serve agli altri, se sono utile. Siamo tutti connessi. Prima ad esempio non facevo mai speech, ora li accetto tutti. Perché do qualcosa e nel frattempo 'mi nutro' anche io, mi dà energia. Se tutti facessimo così non penseremmo più "quella è lesbica, quello è frocio, le donne devono stare a casa per accudire i figli" e così via". Se ognuno è unico e ha un talento unico, diventa fondamentale puntare sulla diversità. "Possiamo anche smettere di parlare di Lgbtq+, diversamente abili, donne, giovani. Ma allora dovremmo parlare tutti insieme di rispetto dell’individualità. Ovvero di 'Unique talent'. Se iniziamo a fare questo sforzo, non c’è più giusto e sbagliato, ognuno nasce con uno scopo nella vita che porta valore all’altro, alla comunità. Ed è questo che genera la felicità di tutti. Se ci lasciassero liberi di essere noi stessi, di provare, di sbagliare anche, e di cercare (finché non si trova e da prestissimo) questo nostro talento senza 'prevedere' il nostro futuro. Anche sul discorso della presenza femminile nelle materie Stem sono un po' in controtendenza: quello che va fatto, secondo me, è non inibire le donne. Io ho finanziato nel 2008 la Scuola di Robotica di Genova. È stato interessante, perché si è scoperto che, spesso, le bambine erano costrette ad abbandonarla dai genitori. Nel momento in cui, invece, alle bimbe veniva dato un piccolo cachet, un premio, mamma e papà le lasciavano frequentare il corso, perché 'a 9 anni già guadagna'". Perciò basta un incentivo economico a cambiare tendenza? "È una soluzione pratica: se diamo anche un piccolissimo contributo ai bambini in realtà facciamo tantissimo. Ci vuole certamente la partecipazione dello Stato o delle fondazioni. Ma se dai dei soldi a bambini e bambine per frequentare queste Scuole, sicuramente anche le femmine resteranno. È una soluzione non di gender indication ma sana. E va a rivoluzionare con un incentivo il byas dei genitori, che altrimenti direbbero loro: "piccola hai danza e robotica, entrambe non le puoi fare. Preferisci danza vero?" e la bambina risponderebbe di sì. Che altro potrebbe dire?" L'abitudine dei genitori a prevedere, a scegliere il futuro dei figli è insita nella nostra cultura? "Siamo il Paese che ha in sé, da dopo il Rinascimento, la credenza che 'Con la cultura non si mangia'. È un virus che ha percorso i secoli. A volte me lo chiedo: quand’è che siamo diventati così spaventati, paurosi, gretti, meschini, mediocri? Non sono riuscita a capire quando sia successo. La mia generazione, ad esempio, ha ereditato la cultura dello sport come qualcosa che 'viene dopo' e di 'eventuale', un plus. Invece secondo me è importante tanto quanto la matematica, per la disciplina. Può essere fondamentale per trovare il proprio 'Unique Talent' che poi, a ruota, determina tutto il resto nella nostra vita. Proprio come i robot. I robot nel futuro ci saranno, è inevitabile. Negarlo è come negare l’elettricità. Possiamo solo decidere di farceli amici e fare un ulteriore passo avanti come esseri umani".