Benessere mentale al lavoro: settimana corta e complicità fra colleghi possono fare la differenza

L'importanza del supporto psicologico sul posto di lavoro: "Solo il 15% dei dipendenti si sente parte della realtà aziendale per cui lavora"

di CATERINA CECCUTI -
22 dicembre 2023

Non è solo una questione di stress dovuto all’eccessiva mole di lavoro. I disagi psicologici che possono minare il benessere dei lavoratori dipendenti di un’azienda sono il risultato di una serie di fattori che includono non solo caratteristiche individuali - come la capacità di gestire le proprie emozioni e le relazioni con gli altri -, ma anche fattori sociali, culturali, economici, politici e ambientali.

In termini di rendimento, un dipendente infelice produce meno rispetto ad uno sereno. In termini umani, un dipendente infelice sta correndo dei rischi per la propria salute mentale ed è questo che sopra ogni altra cosa dovrebbe stare a cuore alla leadership di un’azienda.

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Supporto psicologico sul lavoro

La buona notizia è che in Italia disponiamo di ottimi psicologi aziendali dotati di tutte le competenze necessarie per identificare tempestivamente un’ipotesi di malessere o disagio mentale prima che sia troppo tardi, di modo da poter studiare e porre in essere strategie di intervento pratico.

Le cattive notizie sono almeno due: in Italia, ma non solo, la cultura del supporto psicologico aziendale è poco diffusa (anche se sembra che le cose sitano lentamente migliorando), a dispetto di un sempre crescente calo del benessere dei dipendenti che, come la maggior parte dei lavoratori del nostro tempo, è stressato dai mille input di una società frenetica, impietosa, senza sosta, che non rispetta i tempi – rigorosamente diversi – di cui ciascun essere umano ha bisogno per esprimere se stesso.

Altro problema riguarda il pregiudizio, la confusione e l’ignoranza che aleggiano intorno alla figura dello psicologo, cui in molti casi ancora ci riferiamo col dispregiativo di “strizzacervelli”.

Il parere dell'esperta

Di questo e di molto altro ancora abbiamo parlato con la dottoressa Roberta Prato Previde, consulente di management, formatrice e business coach, che ci ha aiutato a capire cosa stiano effettivamente facendo le aziende italiane per prevenire l’instabilità psicologica dei propri dipendenti.

In una società complessa come quella attuale le aziende si stanno rendendo sempre più conto che negli uffici delle risorse umane non deve esserci posto solo per i tecnici che fanno le buste paga o i contratti. Occorrono persone formate nella gestione delle risorse umane anche a livello psicologico. Perché lo psicologo in azienda può fare prevenzione ed intervenire in situazioni disfunzionali come i conflitti o problematiche comportamentali legate, per esempio, alla sicurezza.

Insomma, lo psicologo del lavoro in azienda opera sulla cultura organizzativa che guida ed indirizza comportamenti più appropriati e può esercitare sia all’interno che all’esterno di un’azienda.

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Roberta Prato Previde, consulente di management, formatrice e business coach

Psicologo/a del lavoro, cosa fa

Dottoressa può spiegarci la differenza?

Il consulente esterno potrebbe accorgersi con maggior facilità di certe dinamiche disfunzionali che stando all’interno non si riescono a percepire. Ha le competenze per impostare degli interventi correttivi, di cui ovviamente sarà l'azienda ad avere la responsabilità operativa. Questo tipo di lavoro però non va confuso con l'aiuto psicologico.

Lo psicologo del lavoro è in grado di valutare lo stress correlato all’impegno professionale e il livello di salute o mancata salute” - quindi benessere o malessere organizzativo all’interno di un’azienda - per progettare poi interventi correttivi sia con il titolare, sia con il consiglio di amministrazione. Insomma, se si trova all’interno dell’azienda, deve individuare il problema ed intervenire prima che le cose peggiorino.

Se invece opera da fuori ha le competenze per vedere quanto non stiano andando bene le cose e di quale intensità debba essere l’intervento, indirizzando dipendenti e collaboratori dell’organizzazione ai colleghi psicoterapeuti: non bisogna mai dimenticare infatti che esistono competenze distintive e professionali specifiche.

Cosa influisce maggiormente sulla salute mentale dei dipendenti e come si dovrebbe comportare l'azienda in caso di instabilità psicologica?

Parafrasando quanto si trova anche sul sito del Ministero della Salute, la salute mentale è parte integrante della salute generale e del benessere di un individuo. La definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità recita: "La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia o di infermità". Dunque può essere influenzata da diversi fattori socio-economici sui quali è necessario agire con strategie globali di promozione, prevenzione, trattamento e recovery, in un approccio di government sistemico.

I fattori determinanti della salute mentale o dei suoi disturbi includono non solo caratteristiche individuali come la capacità di gestire i propri pensieri, le emozioni, i comportamenti e le relazioni con gli altri, ma anche fattori sociali, culturali, economici, politici e ambientali, tra cui le politiche adottate a livello nazionale, la protezione sociale, lo standard di vita, le condizioni lavorative e il supporto sociale offerto dalla comunità.

Secondo i dati Gallup (2017), però, solo il 15% della forza lavoro mondiale è “ingaggiata”, ossia si sente parte della realtà aziendale per cui lavora, ne condivide i valori e la visione, prova un sentimento d'affezione. Negli Stati Uniti il dato è di circa il 30%, migliore ma comunque deprimente, visto che passiamo così tanto tempo al lavoro.”

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Sindrome da burnout

Perché è così importante la prevenzione?

“Perché le persone con disturbi mentali sperimentano tassi di disabilità e di mortalità più elevati rispetto alla media. Nel 2019, l'OMS ha finalmente incluso il burnout nella sua Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10), descrivendolo come "una sindrome concettualizzata risultante dallo stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo".

È caratterizzato da tre dimensioni: sensazione di esaurimento energetico o di stanchezza, distanza dal proprio lavoro (negativismo e cinismo), diminuzione dell’efficacia professionale.

Dunque il burnout non è solo un problema dei dipendenti, piuttosto richiede una soluzione organizzativa che tenga conto delle sei cause che possono scatenarlo: carico di lavoro, percezione del non avere controllo, mancanza di gratificazioni o di riconoscimenti, scarse relazioni, mancanza di equità, disallineamento dei valori. Ciò invita a pensare che il fenomeno possa essere contenuto, se solo la leadership promuovesse adeguate strategie di prevenzione molto più a monte.

Quali possono essere i segnali cui i dirigenti dovrebbero prestare attenzione?

“Sicuramente il cambiamento delle abitudini lavorative e dei comportamenti (ad esempio ansia e irritabilità), assenteismo o presenteismo (esserci senza essere connessi con ciò che si fa), sintomi fisici quali insonnia, mal di testa, variazioni di peso, forte affaticamento.

Nel concreto potremmo osservare fasi come un iniziale entusiasmo- anche idealizzazione del proprio lavoro -, seguito da stagnazione, quindi da frustrazione e disimpegno.

Le organizzazioni devono dunque cercare di creare quella “sicurezza psicologica” che si traduce in un clima in cui si abbia la libertà di parlare delle proprie difficoltà, senza sentirsi minacciati. Spesso i manager non hanno gli strumenti o non si sentono equipaggiati per affrontare certi temi. Ecco perché è importante sapere a chi bisogna rivolgersi.

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Cosa può e deve fare l'azienda per il benessere dei dipendenti

Ma allora, dottoressa, quali possono essere gli strumenti utili di intervento per migliorare la situazione?

Se pensiamo al carico di lavoro, per esempio, una soluzione valida potrebbe essere la settimana corta – ma solo in parte, se i compiti e le attività da svolgere restano comunque invariati -. Al contempo si è visto che il rischio di burnout aumenta quando si raggiungono o superano le 60 ore di lavoro settimanali. Per quanto riguarda le relazioni, pensiamo come l’aumento della solitudine, dell’individualismo e della polarizzazione impattino sul nostro benessere: Gallup da anni inserisce un itema nelle proprie ricerche che riguarda l’avere un “best friend al lavoro”.

Anche il disallineamento tra i valori del dipendente e quelli dell’organizzazione per cui si lavora può generare forti scompensi. Alla fine, dunque, le cause principali del burnout non risiedono realmente nell'individuo, e possono essere evitate.

Eppure la figura dello psicologo in azienda è ancora ben poco diffusa…

“È necessario superare la confusione che esiste intorno alla figura di questo professionista… a volte persino l’idiosincrasia. Al contempo - sebbene possano essere molte le iniziative di benessere non necessariamente implementate da psicologi - va ricordato che, in particolare, la fase di ipotesi diagnostica e di riconoscimento di una difficoltà o addirittura di un disagio rappresenta una specialità esclusiva dello psicologo.

Esistono eventi di sensibilizzazione/formazione in materia di benessere mentale aziendale?

“Sì. Pensiamo ad esempio alla figura del manager della felicità, agli uffici di wellness aziendale e alle politiche di welfare. Ma esistono anche la Settimana delle Wellbeing a metà ottobre e la Giornata della Salute mentale il 10 ottobre. E ancora iniziative informative/formative, webinar sul benessere, sulla gestione delle emozioni, sul work-life balance.

Alcune aziende stanno facendo delle convenzioni con degli psicologi clinici esterni per le quali, sostanzialmente, pagano lo psicologo/psicoterapeuta al loro dipendente, senza però violarne la privacy. In questo caso gli ambiti di intervento dello specialista possono interessare sia tematiche professionali che personali.