Dalla pelle al cuore: cinque storie di persone con malattie della pelle

Nel suo libro "Pelle" Federico Bonati invita a non giudicare: "Una malattia non è un marchio, ma una lotta"

di CATERINA CECCUTI -
11 settembre 2023
Federico Bonati

Federico Bonati

La pelle e le sue storie. La pelle che riveste i nostri corpi e che è la prima presentazione di noi stessi al mondo. Qualche volta il “vestito di carne” che indossiamo può essere difettoso, e in questo caso incrociare lo sguardo e il giudizio delle persone che ci incontrano per strada o nella vita diventa difficile, doloroso.

Come nasce il libro "Pelle"

Cinque rare malattie della pelle, cinque storie di malati e delle loro famiglie, cinque associazioni che si impegnano ogni giorno per essere al fianco dei pazienti nel loro percorso di cura e guarigione, cercando al tempo stesso di promuovere la conoscenza di queste patologie nell’opinione pubblica, perché a nessuno – diciamocelo chiaramente – piace essere giudicati per l'apparenza.
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Federico Bonati insieme a Rita De Marco, presidente Uniti

Attraverso l’utilizzo dello storytelling, il libro “Pelle” (Augh Edizioni) di Federico Bonati, classe 1988, racconta il rapporto tra la malattia e le persone che ne sono affette, come riescano a portare avanti la loro vita nonostante la propria condizione, dalla quotidianità agli aspetti più profondi. Dottor Bonati, come nasce l'idea di scrivere “Pelle”? “Da una frase del film ‘Da zero a dieci’ in cui uno dei personaggi, riferendosi in terza persona alla sua malattia, dice: ‘Hai una pelle che fa schifo’. È stata una folgorazione, mi si è aperto un mondo. Ero d’accordo con la casa editrice di realizzare un libro su storie di vita di persone malate; avevo tante idee ma confuse. E quella frase mi ha chiarito il tutto. Ho pensato a cosa potesse provare una persona con una malattia della pelle guardandosi allo specchio. E non sapevo che stavo entrando in quella che sarebbe divenuta una sorta di ‘tana del Bianconiglio”. Perché dice questo? Quali sono state le principali difficoltà (anche emotive) che ha incontrato nel raccogliere le testimonianze e come ha fatto per entrare in contatto con persone con patologie rare differenti tra loro? “Io, come narratore, cresco con Matteo Caccia, Domenico Iannacone e Mauro Pescio. I loro insegnamenti, seppur indiretti, mi hanno aiutato a entrare in contatto con le vite ‘degli altri’. Coglierne le sfumature, essere autentico quando racconto, complice seppur distaccato del racconto di qualcuno. Non è sempre facile. Credo che le principali difficoltà siano state quando, ripensando a certe situazioni, mi sono dovuto fermare per fare i conti con la paura del ‘E se capitasse a me o a un mio caro?’. Entrare in contatto con le varie persone è stato un intenso lavoro di ricerca, ma qui le associazioni mi hanno dato una gran mano. Nello specifico ringrazio l'associazione Lisclea (Lichen Scleroatrofico), l'Associazione Sturge Weber Italia (per la Sindrome di Sturge Weber); l'Associazione Italiana per la Sindrome di Ehlers-Danlos e il Disturbo dello spettro della mobilità; l'Associazione Debra Onlus che mi ha messo in contatto con una paziente affetta da Epidermolisi Bollosa e l'Associazione Nazionale Pemfigo Pemfigoide Italy”.

Le storie protagoniste

Quale delle storie l'ha sconvolto di più? “Come nel mio secondo libro, ‘Post’, io mi lascio trascinare dalle storie. Mi portano dove vogliono loro, nel bene e nel male. Ma la storia che mi ha sconvolto di più è quella che non ho raccontato, quella degli sguardi di chi guarda – ma non vede – le persone con malattie della pelle. Li giudica e si fa spaventare dal loro aspetto, guarda il dito e non la luna, ovvero le loro vite, meravigliosamente straordinarie. Li ho notati, in alcune delle interviste, quegli sguardi. Ho provato vergogna”. Attraverso la narrazione emerge la figura dei caregiver familiari. Come definirebbe le persone che scelgono di dedicare l'intera esistenza al proprio caro malato? “Normali. Non li definisco supereroi, seppur da fuori appaiano così. La normalità del dedicarsi a chi si ama è la cosa più straordinaria che possa accadere, ma vista dall’interno è naturale come respirare”. Cosa spera che possa accadere alle persone leggendo il libro? “Le faccio un esempio. Qualche anno fa sono stato a Napoli. Sa, io cresco al Nord, e qualche pregiudizio purtroppo ce l’ho avuto come retaggio culturale, ahimè, in particolar modo su questa città. Ebbene, ventiquattro ore a Napoli hanno sgretolato tutto. Perché l’ho vista e me ne sono innamorato. Non parlo solo di arte e cultura, ovviamente. Ecco, spero che chi avrà voglia di leggere questo libro impari a vedere i malati per ciò che sono, persone con pregi, difetti e, soprattutto, con una storia; non a guardarli con paura o peggio pietà, magari dicendo ‘Poverini’. Mi fa orrore quella parola”. Parlando con i suoi protagonisti ha toccato con mano la loro condizione di isolamento. Cosa sarebbe davvero utile ed efficace affinché la società si accorga dei malati rari? “Fermarsi e imparare a conoscerli. So che sembra un’impresa nella società dello scroll su Instagram alla velocità della luce, in cui guardiamo cento storie in un minuto sui social, in cui tutto e subito sono una costante. Fermarsi e conoscere è rivoluzione, è apprendimento. È capire che una malattia non è un marchio, ma una particolarità, una lotta, un qualcosa che valga la pena conoscere. Nel mio caso, raccontare”.