“Lo sport ha sempre fatto parte della mia vita, fin da bambina. E ho capito, sperimentandolo di persona, che lo sport paralimpico non è solo questione di recupero, ma è vero agonismo, che non ha nulla da invidiare alle discipline per normodotati”.
Elisa Spediacci è nata il 12 luglio 1990 a Massa (MS). Nel 2015, a causa del meningococco di tipo C, le è stato amputato il piede sinistro e ha perso alcune falangi della mano. Competitiva per natura, Elisa è una che non si lascia certo sopraffare e nonostante sia costretta a passare un anno in ospedale, una volta uscita vuole riprendere subito le redini della sua giovane vita.
Inizia a praticare sitting volley nel ruolo di libero: “All’inizio ero scarsissima – dice ridendo quando la raggiungiamo in call –, ma proprio per indole ho fatto di tutto per raggiungere il prima possibile il livello delle mie compagne di squadra.
Mi allenavo sempre, anche con la palestra chiusa, e oggi sono arrivata a sperare di essere convocata per le mie prime Paralimpiadi”.
Ha vinto gli ultimi 4 (di 6) scudetti e la Champions League con il club Dream Volley Pisa, e l'Europeo con la Nazionale, che è già qualificata per Parigi. Manca ancora l’ufficialità, ma Elisa spera nella convocazione e da atleta della onlus art4sport fa parte del progetto fly2paris, per sognare in grande.
Elisa la sua passione per lo sport arriva da lontano: che discipline ha praticato?
“Ho i nonni materni a Bolzano quindi a 3 anni ho messo per la prima volta gli sci ai piedi. Poi più o meno alla stessa età ho iniziato anche a nuotare, ho fatto 10 anni di nuoto agonistico. Lo sport mi ha sempre aiutato tanto, mi ha fatto vivere esperienze bellissime in un ambiente pulito, costruttivo. Mi ha dato quella competitività, quella voglia di vincere e non arrendermi che poi anche nella malattia sicuramente mi è servita. L’estate poi la trascorrevo in Sicilia, ho fatto corsi di windsurf, per anni quando ho smesso di nuotare ho giocato a tennis e facevo trekking in montagna”.
Poi è arrivata la malattia e l’amputazione. È cambiato qualcosa nel suo approccio allo sport?
“Era già qualche anno che non praticavo attività agonistica, e lì per lì non ero intenzionata a ri-iniziare. Quando mi parlavano di sport paralimpico ero molto scettica, è brutto da dire ma pensavo che fosse qualcosa che facessero fare alle persone che si erano trovate a fare i conti con la disabilità più che altro per un recupero psicologico. Non ero interessata, ecco".
Cos’è cambiato dopo? Come si è avvicinata al sitting volley?
“Durante la malattia ho cercato su internet e ho scoperto Bebe Vio: ho provato a scriverle su Facebook, non sperando nemmeno in una risposta. In quel periodo ero ricoverata a Padova e il caso ha voluto che invece mi rispondessero dall’associazione e qualche giorno dopo mi sono trovata Teresa e Ruggero (mamma e papà di Bebe) in ospedale. È stato un momento di grande sostegno per la mia famiglia, per i miei genitori. Mi hanno consigliato il centro protesi e messa in contatto con una ragazza che praticava sitting volley”.
È stato amore a prima vista?
“Non ho iniziato subito ma quando mi sono lasciata col mio ex. Sono andata a vedere la squadra della città dove abitavo, Pisa. Una volta in palestra sono rimasta subito affascinata, il livello tecnico era altissimo e tutti erano bravissimi. Ho provato, ma non sapevo fare nulla. Altro che recupero psicologico! Mi sono innamorata subito e ho iniziato con la massima dedizione a cercare di raggiungere il livello del resto della squadra. All’inizio ero scarsissima, avevo molta ansia perché avevo sempre solo fatto sport a livello individuale e quindi quando sbagliavo mi veniva l’angoscia di aver danneggiato i miei compagni tanto da farmi star male”.
Eppure è riuscita a raggiungere risultati notevoli in poco tempo: come c’è riuscita?
“Era un pensiero che ribaltava il mio asset come sportiva: sono sempre stata una che in gara riusciva a dare di più che in allenamento; invece in questo sport non mi riusciva e questa cosa da un lato mi spaventava, dall’altro mi spronava. Mi ha fatto sentire viva, mi ha fatto sentire la voglia di superare ancora una volta un limite. Grazie all’aiuto delle mie compagne sono migliorata, mi sono allenata tanto e ho imparato che il bello dello sport di squadra è che alla fine non sei un io ma diventi un noi”.
Parliamo di sitting volley: non è semplicemente pallavolo da seduti?
“No, la versione paralimpica del volley è stata adattata in modo meraviglioso. Senza ipocrisia ognuno adatta il suo modo di giocare alla sua disabilità e punta ai deficit degli altri. Ed è questo il bello, non c’è alcun pietismo, giochiamo per vincere”.
Com’è stato l’ingresso nella squadra di art4sport?
“Mi sono avvicinata all’associazione quando Teresa e Ruggero sono venuti a trovarmi in ospedale e poco dopo la mia uscita c’è stato un compleanno di art4sport a cui mi avevano invitata. Ho sempre vissuto bene quello che mi era successo ma, da ragazzina, non avevo la disinvoltura di adesso nel mostrarmi così come sono. Quindi mi presento alla festa ad Abano con le protesi, tutta agghindata. Lì però mi sono accorta che tra di loro c’era chi non le aveva, chi se la toglieva, che era una cosa assolutamente normale e naturale. Con questi ragazzi mi sono subito sentita a mio agio, mi sentivo inserita in un contesto in cui avevamo tutti vissuto qualcosa di simile, eravamo accomunati da qualcosa, compresa la passione per lo sport e il sogno di tutti, quello delle Paralimpiadi”.
C’è una persona con cui ha legato di più all’interno dell’associazione?
“Con Sara Baldo, snowboarder. Anche lei ha avuto la meningite e come età siamo tra le più grandi del gruppo (io sono la più vecchia – ride), quindi con lei mi sono trovata ad affrontare anche discorsi più personali, stando in camera insieme nei ritiri”.
Ci racconta dell’esperienza con la Nazionale?
“Se dovessi essere convocata per Parigi 2024 sarebbe la mia prima Paralimpiade. Infatti ho iniziato a giocare in nazionale poco prima di quelle di Tokyo, dove la squadra di sitting si era qualificata. Con il club nel frattempo abbiamo vinto la prima edizione in assoluto della Champions League”.
Ha un idolo sportivo?
“Il tennista Rafa Nadal! Io non sono una che fisicamente ha delle doti particolari, e guardando a Nadal tecnicamente lui non è il migliore; però ho sempre ammirato la determinazione e l’impegno che mette in campo. Ammiro tantissimo chi arriva grazie a quel qualcosa in più che viene da dentro. Il crederci, il volercela fare a tutti i costi, a volte paga”.
Finita la carriera da agonista, come si vede?
“Ci penso spesso e ancora non lo so. Sono un po’ confusa, mi piacerebbe riuscire in qualche modo a continuare ad essere legata al mondo della disabilità, nel senso di poterne parlare rimanendo a contatto con persone che stanno vivendo problemi. È una cosa che a livello umano mi dà ancora tanto, perché chi vive con una disabilità a volte si domanda: ‘Perché è successo proprio a me?’. E quando riesco a dare una speranza alle persone, tramite la mia esperienza, mi rendo conto che non è successo invano”.