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Home » Politica » Cento anni dopo, si punta a far luce sul massacro di Tulsa. Viola Fletcher, 107 anni sopravvissuta, parla al Congresso

Cento anni dopo, si punta a far luce sul massacro di Tulsa. Viola Fletcher, 107 anni sopravvissuta, parla al Congresso

La giovane bianca che manovrava l'ascensore gridò di essere stata aggredita dal ragazzo nero. Tulsa, in Oklahoma diventò sede di una lotta senza quartiere fra bianchi e persone di colore con almeno 300 di queste ultime massacrate. Bombe incendiarie sganciate dagli aerei. Su il velo da un secolo di verità nascoste

Ludovica Criscitiello
22 Maggio 2021
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Viola Fletcher ha voce forte e chiara, nonostante due settimane fa abbia compiuto ben 107 anni. Accenna un mezzo sorriso quando in Commissione Giustizia alla Camera, nel Congresso degli Stati Uniti, le fanno l’applauso. Poi continua spiegando il perché lei si trovi lì insieme a Lessie Randle e Hughes Van Ellis, 100 e 106 anni rispettivamente. «Sono una dei sopravvissuti del massacro di Tulsa, è la prima volta in vita mia che vengo a Washington e vorrei chiedere al governo di far luce su quanto è avvenuto nel 1921».

L’antefatto

Siamo nello Stato dell’Oklahoma, a Tulsa, e più precisamente a Greenwood, zona nota per essere abitata prevalentemente da afroamericani, circa 11.000, e soprattutto per essere un quartiere ricco. Chi ci vive sono in gran parte uomini d’affari di colore con le loro famiglie che conducono uno stile di vita agiato. Per questo Greenwood è stato soprannominato ‘Black Wall Street’ o ‘Negro Wall Street’, con una ironia non troppo velata visto che il resto della popolazione di Tulsa, quella bianca per intenderci, secondo alcune testimonianze soffre un po’ la concorrenza del quartiere emergente, in particolare quella delle sue attività commerciali. Un clima reso ancora più incandescente dal fatto che negli Stati Uniti sono ancora in vigore le leggi di segregazione razziale.

Ed ecco che basta un niente per scatenare l’inferno. Quel ‘niente’ è un ragazzo afroamericano, che lavora come lustrascarpe, e che il 30 maggio entra nell’ edificio dove c’è l’unico bagno pubblico a cui possono accedere le persone di colore. Per salire prende l’ascensore dove c’è una ragazza bianca che fa l’operatrice, una figura lavorativa esistente all’epoca per far funzionare gli ascensori. Forse il ragazzo per sbaglio la urta o le pesta un piede. Fatto sta che poco dopo si sente la donna lanciare un grido. Accorrono delle persone e il ragazzo viene arrestato. Da qui è tutto un crescendo.

Prima il titolo di un giornale locale, ‘Negro aggredisce una ragazza’, alza il polverone e sull’onda di questo si scatena la violenza. Alcuni gruppi di bianchi decidono di radunarsi davanti al tribunale per linciare il ragazzo che nel frattempo è rinchiuso nell’edificio. Dall’altra parte ci sono poi gruppi di persone di colore che invece vogliono difenderlo. Quello che succede dopo è ancora avvolto nella nebbia, anche se è trapelato attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e dei loro parenti.

Il massacro

Sappiamo che a Greenwood più di 300 persone di colore furono uccise e almeno 10.000 rimasero senza casa, perché le loro furono bruciate o rase al suolo. Dagli scontri davanti al tribunale si arriva a massacrare, distruggere e incendiare, entrando nelle abitazioni e nei negozi e uccidendo, come raccontano molti “ogni persona nera che capita sotto tiro“. Viene dato l’allarme che a Greenwood è scoppiata una rivolta organizzata dai neri e vengono inviati aerei che sganciano bombe incendiarie sulla popolazione. Sono aerei che appartengono alla polizia, ma anche a privati che partecipano al massacro. La distruzione è totale. Case, hotel, chiese, tutte rase al suolo o date alle fiamme. Ma lo strazio prosegue anche sui cadaveri. Molti corpi vengono ammassati e sepolti insieme in alcune fosse comuni o bruciati negli inceneritori. Alcuni sono caricati su camion e gettati nel fiume. Per molti una parte di questi cadaveri è tutt’ora sepolta in un’area del cimitero della città.

Viene accettata la ricostruzione delle autorità locali, per niente veritiera, della rivolta e questa fu anche la scusa per le agenzie di assicurazione per rifiutare eventuali richieste di danni. I sopravvissuti lasciarono il quartiere, molti avevano perso casa e lavoro.

Le conseguenze

Di quello che è avvenuto a Greenwood non se n’è mai parlato neanche nei libri di storia. Vanessa Hall-Harper, afroamericana e membro del consiglio cittadino di Tulsa racconta di essere cresciuta a Tulsa e di non aver mai saputo nulla del massacro. E quando lo ha chiesto alla nonna, prima della sua morte, lei gli ha raccontato che tanti afroamericani in quel frangente erano stati uccisi senza un motivo, senza un perché. Olivia Hooker, 103 anni, un’altra degli ultimi sopravvissuti racconta addirittura che quel giorno era in casa e di essersi nascosta con sua madre e i fratelli mentre quelle persone razziavano qualsiasi cosa nell’abitazione. Ricordi di una vita, tutto cancellato.

Quest’anno ricorre il centenario dal massacro anche se poco è stato fatto in termini di giustizia come ha ricordato Viola Fletcher. Si è cominciato a indagare per poter dare almeno un nome e una dignità a quelle vittime a partire dal 1999. Quell’anno un uomo ha raccontato che il giorno del massacro stava giocando proprio vicino al cimitero e di aver notato alcuni uomini scavare una fossa. Dopo averli visti allontanarsi, avvicinandosi si era trovato davanti alcuni corpi gettati in quelle buche. La testimonianza spinse uno degli antropologi forensi più famosi, Clyde Snow, a andare a fondo. Snow era lo stesso che aveva contribuito a identificare molti criminali nazisti e a far emergere l’orrore delle fosse comuni in Jugoslavia. Utilizzando un radar particolare Snow è riuscito a captare immagini dal sottosuolo, dove alcuni elementi dimostrerebbero la presenza di una fossa comune. A febbraio dello scorso anno si era parlato del fatto che le prove fossero sufficienti per iniziare a scavare, ma la pandemia di Covid ha fermato tutto.

Sarà lunga e forse Viola Fletcher e gli altri sopravvissuti non riusciranno a vedere la fine di questa indagine su cui, purtroppo, pesa lo scarso impegno delle istituzioni. Si spera nei parenti dei sopravvissuti e in quelle poche persone come Vanessa Hall-Harper che vogliono far emergere la verità.

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  • Sono tre, per il momento, gli istituti superiori che si sono candidati ad accogliere Nina Rosa Sorrentino, la studentessa disabile di 19 anni che non può sostenere la maturità al liceo Sabin di Bologna (indirizzo Scienze umane) e che i genitori hanno per questo motivo ritirato da scuola.

La storia è nota: la studentessa ha cominciato il suo percorso di studi nel liceo di via Matteotti seguendo il programma differenziato. Già al terzo anno i genitori avevano chiesto di passare al programma degli obiettivi minimi che si può concludere con l’Esame di Stato, mentre quello differenziato ha solo la "certificazione delle competenze".

Il Consiglio di classe aveva respinto la richiesta della famiglia, anche perché passare agli obiettivi minimi avrebbe implicato esami integrativi. Da qui la decisione della famiglia, avvenuta giusto una settimana fa, di ritirare Nina da scuola – esattamente un giorno prima che i giorni di frequenza potessero essere tali da farle comunque ottenere la "certificazione delle competenze" – in modo tale che possa provare a sostenere la Maturità in un altro istituto del capoluogo emiliano.

Sulla storia di Nina, ieri, è tornata anche la ministra per la Disabilità, Alessandra Locatelli, che alla Camera ha risposto, durante il question time, a una domanda sulle iniziative volte a garantire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone con sindrome di Down presentata dal capogruppo di FdI, Tommaso Foti.

"C’è ancora un po’ di strada da fare se una ragazza con la sindrome di Down non viene ammessa all’esame di maturità – ha detto la ministra –. Se non si è stati in grado di usare tutte le strategie possibili e l’accomodamento ragionevole, come previsto dalla Convenzione Onu per i diritti delle persone disabili che in Italia è legge; se non si è stati in grado di valorizzare i punti di forza dei ragazzi che non chiedono di essere promossi automaticamente ma di avere un’occasione e un’opportunità."

#lucenews #lucelanazione #ninasorentino #disabilityinclusion #bologna
  • “Ho fatto la storia”. Con queste parole Alex Roca Campillo ha postato sul suo account Twitter il video degli ultimi, emozionanti, metri della maratona di Barcellona.

Ed effettivamente un record Alex l’ha scritto: è la prima persona al mondo con una disabilità al 76 per cento a riuscire a percorrere la distanza di 42 km e 195 metri.
Alex ha concluso la sua gara in 5 ore 50 minuti e 51 secondi, ma il cronometro in questa situazione è passato decisamente in secondo piano. “tutto questo è stato possibile grazie alle mia squadra. Grazie a tutti quelli che dal bordo della strada mi hanno spinto fino al traguardo. Non ho parole”.

#lucenews #alexrocacampillo #maratonadibarcellona #barcellona
  • In Uganda dirsi gay potrà costare l’ergastolo. Il Parlamento dell’Uganda ha appena approvato una legge che propone nuove e severe sanzioni per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Al termine di una sessione molto movimentata e caotica, la speaker del Parlamento Annet Anita Among, dopo il voto finale ha detto: “È stata approvata a tempo record”. La legge, che passa ora nelle mani del presidente Yoweri Museveni, che potrà scegliere se porre il veto o firmarla, propone nuove e molto dure sanzioni per le relazioni omosessuali in un Paese in cui l’omosessualità è già illegale.

La versione finale non è ancora stata pubblicata ufficialmente, ma gli elementi discussi in Parlamento includono che una persona condannata per adescamento o traffico di bambini allo scopo di coinvolgerli in attività omosessuali, rischia l’ergastolo; individui o istituzioni che sostengono o finanziano attività o organizzazioni per i diritti Lgbt, oppure pubblicano, trasmettono e distribuiscono materiale mediatico e testuale a favore degli omosessuali, rischiano di essere perseguiti e incarcerati. 

“Questa proposta di legge – ha detto Asuman Basalirwa, membro del Parlamento che l’ha presentata – è stata concepita per proteggere la nostra cultura, i valori legali, religiosi e familiari tradizionali degli ugandesi e gli atti che possono promuovere la promiscuità sessuale in questo Paese”. Il parlamentare ha poi aggiunto: “Mira anche a proteggere i nostri bambini e giovani che sono resi vulnerabili agli abusi sessuali attraverso l’omosessualità e gli atti correlati”.

Secondo la legge amici, familiari e membri della comunità avrebbero il dovere di denunciare alle autorità le persone omosessuali. Nello stesso disegno di legge, tra l’altro, si introduce la pena di morte per chi abusa dei bambini o delle persone vulnerabili. 

#lucenews #lucelanazione #uganda #lgbtrights
  • Un’altra pagina di storia del calcio femminile è stata scritta. Non tanto per il risultato della partita ma per il record di spettatori presenti. All’Olimpico di Roma andava in scena il match di andata dei quarti di finale di Champions League tra Roma e Barcellona quando si è stabilito un nuovo record: sono state 39.454 infatti le persone che hanno incoraggiato le ragazze fin dal primo minuto superando il precedente di 39.027 stabilito in Juventus-Fiorentina del 24 marzo 2019.

Era l’andata dei quarti di finale che la Roma ha raggiunto alla sua prima partecipazione alla Champions League, ottenuta grazie al secondo posto nell’ultimo campionato. Il Barcellona, campione di Spagna e d’Europa due anni fa, era favorito e in campo lo ha dimostrato, soprattutto nel primo tempo, riuscendo a vincere 1-0. La squadra di casa è stata tenuta a galla dalle parate di Ceasar, migliore in campo, ma ha provato a impensierire la corazzata spagnola nella ripresa dove più a volte ha sfiorato la rete con le conclusioni di Haavi, Giacinti e Giugliano, il primo “numero 10” a giocare all’Olimpico per la Roma dopo il ritiro di Francesco Totti.

✍ Edoardo Martini

#lucenews #lucelanazione #calciofemminile #championsleague

Viola Fletcher ha voce forte e chiara, nonostante due settimane fa abbia compiuto ben 107 anni. Accenna un mezzo sorriso quando in Commissione Giustizia alla Camera, nel Congresso degli Stati Uniti, le fanno l’applauso. Poi continua spiegando il perché lei si trovi lì insieme a Lessie Randle e Hughes Van Ellis, 100 e 106 anni rispettivamente. «Sono una dei sopravvissuti del massacro di Tulsa, è la prima volta in vita mia che vengo a Washington e vorrei chiedere al governo di far luce su quanto è avvenuto nel 1921».

L’antefatto

Siamo nello Stato dell’Oklahoma, a Tulsa, e più precisamente a Greenwood, zona nota per essere abitata prevalentemente da afroamericani, circa 11.000, e soprattutto per essere un quartiere ricco. Chi ci vive sono in gran parte uomini d’affari di colore con le loro famiglie che conducono uno stile di vita agiato. Per questo Greenwood è stato soprannominato ‘Black Wall Street’ o ‘Negro Wall Street’, con una ironia non troppo velata visto che il resto della popolazione di Tulsa, quella bianca per intenderci, secondo alcune testimonianze soffre un po' la concorrenza del quartiere emergente, in particolare quella delle sue attività commerciali. Un clima reso ancora più incandescente dal fatto che negli Stati Uniti sono ancora in vigore le leggi di segregazione razziale.

Ed ecco che basta un niente per scatenare l’inferno. Quel ‘niente’ è un ragazzo afroamericano, che lavora come lustrascarpe, e che il 30 maggio entra nell’ edificio dove c’è l’unico bagno pubblico a cui possono accedere le persone di colore. Per salire prende l’ascensore dove c’è una ragazza bianca che fa l’operatrice, una figura lavorativa esistente all’epoca per far funzionare gli ascensori. Forse il ragazzo per sbaglio la urta o le pesta un piede. Fatto sta che poco dopo si sente la donna lanciare un grido. Accorrono delle persone e il ragazzo viene arrestato. Da qui è tutto un crescendo.

Prima il titolo di un giornale locale, ‘Negro aggredisce una ragazza’, alza il polverone e sull’onda di questo si scatena la violenza. Alcuni gruppi di bianchi decidono di radunarsi davanti al tribunale per linciare il ragazzo che nel frattempo è rinchiuso nell’edificio. Dall’altra parte ci sono poi gruppi di persone di colore che invece vogliono difenderlo. Quello che succede dopo è ancora avvolto nella nebbia, anche se è trapelato attraverso le testimonianze dei sopravvissuti e dei loro parenti.

Il massacro

Sappiamo che a Greenwood più di 300 persone di colore furono uccise e almeno 10.000 rimasero senza casa, perché le loro furono bruciate o rase al suolo. Dagli scontri davanti al tribunale si arriva a massacrare, distruggere e incendiare, entrando nelle abitazioni e nei negozi e uccidendo, come raccontano molti "ogni persona nera che capita sotto tiro". Viene dato l’allarme che a Greenwood è scoppiata una rivolta organizzata dai neri e vengono inviati aerei che sganciano bombe incendiarie sulla popolazione. Sono aerei che appartengono alla polizia, ma anche a privati che partecipano al massacro. La distruzione è totale. Case, hotel, chiese, tutte rase al suolo o date alle fiamme. Ma lo strazio prosegue anche sui cadaveri. Molti corpi vengono ammassati e sepolti insieme in alcune fosse comuni o bruciati negli inceneritori. Alcuni sono caricati su camion e gettati nel fiume. Per molti una parte di questi cadaveri è tutt’ora sepolta in un’area del cimitero della città.

Viene accettata la ricostruzione delle autorità locali, per niente veritiera, della rivolta e questa fu anche la scusa per le agenzie di assicurazione per rifiutare eventuali richieste di danni. I sopravvissuti lasciarono il quartiere, molti avevano perso casa e lavoro.

Le conseguenze

Di quello che è avvenuto a Greenwood non se n’è mai parlato neanche nei libri di storia. Vanessa Hall-Harper, afroamericana e membro del consiglio cittadino di Tulsa racconta di essere cresciuta a Tulsa e di non aver mai saputo nulla del massacro. E quando lo ha chiesto alla nonna, prima della sua morte, lei gli ha raccontato che tanti afroamericani in quel frangente erano stati uccisi senza un motivo, senza un perché. Olivia Hooker, 103 anni, un’altra degli ultimi sopravvissuti racconta addirittura che quel giorno era in casa e di essersi nascosta con sua madre e i fratelli mentre quelle persone razziavano qualsiasi cosa nell’abitazione. Ricordi di una vita, tutto cancellato.

Quest’anno ricorre il centenario dal massacro anche se poco è stato fatto in termini di giustizia come ha ricordato Viola Fletcher. Si è cominciato a indagare per poter dare almeno un nome e una dignità a quelle vittime a partire dal 1999. Quell’anno un uomo ha raccontato che il giorno del massacro stava giocando proprio vicino al cimitero e di aver notato alcuni uomini scavare una fossa. Dopo averli visti allontanarsi, avvicinandosi si era trovato davanti alcuni corpi gettati in quelle buche. La testimonianza spinse uno degli antropologi forensi più famosi, Clyde Snow, a andare a fondo. Snow era lo stesso che aveva contribuito a identificare molti criminali nazisti e a far emergere l’orrore delle fosse comuni in Jugoslavia. Utilizzando un radar particolare Snow è riuscito a captare immagini dal sottosuolo, dove alcuni elementi dimostrerebbero la presenza di una fossa comune. A febbraio dello scorso anno si era parlato del fatto che le prove fossero sufficienti per iniziare a scavare, ma la pandemia di Covid ha fermato tutto.

Sarà lunga e forse Viola Fletcher e gli altri sopravvissuti non riusciranno a vedere la fine di questa indagine su cui, purtroppo, pesa lo scarso impegno delle istituzioni. Si spera nei parenti dei sopravvissuti e in quelle poche persone come Vanessa Hall-Harper che vogliono far emergere la verità.

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