“Beatrice, l’amata senza speranza da Dante Alighieri, è la figura ideale per disegnare nel mio film l’arazzo perfetto di un’epoca in fatto di relazioni d’amore. Un medioevo che ha finito per rovinarmi, con tutte quelle sue assurde logiche fatte di attese spesso assolutamente inutili”. Parola di Pupi Avati, un ragazzino ultraottantenne alacre di mente che non smette mai di stupirsi e di stupire. Sarà infatti presto nelle sale cinematografiche il suo attesissimo ‘Dante‘. “Un’opera che ho atteso di fare per ben diciotto anni scontrandomi con muri di indifferenza – spiega il regista -. Posso dire che mi hanno intrigato in modo speciale l’adolescenza, la gioventù di Alighieri e quell’amore mai corrisposto che ho immaginato come esempio perfetto della locuzione ‘per sempre'”.
Avati è un regista famoso non solo in Italia ma in tutto il mondo per aver commosso, coinvolto e talvolta turbato con i suoi film intere generazioni di cinefili. Ultimamente la pellicola da lui diretta ‘Lei mi parla ancora‘ ha riscosso un successo incondizionato, grazie anche alla intensa interpretazione di un inedito Renato Pozzetto. Il suo ‘regno’ romano è racchiuso in una stanza ricavata nel vasto ufficio della ‘DueA’ che condivide con il fratello Antonio. Le pareti sono tappezzate di fotografie dei grandi del cinema di tutti i tempi, immagini che raccontano storie, che parlano da sole della grandezza del regista e fanno immediatamente riaffiorare alla mente titoli di film indimenticabili.
Ha il giornale aperto sulla scrivania ingombra di libri, oggetti vari sparsi in allegro disordine, cartelle con book fotografici ed altre che sembrano contenere sceneggiature. Lo sguardo è fisso sul quotidiano che riporta le spaventose notizie di questi giorni. “Avevo solo cinque anni quando io e i miei ci eravamo trasferiti da sfollati nella campagna di San Leo per sfuggire alle bombe. Lì ho cominciato a imparare a vivere su questa terra e da quel posto, protetto dalla mia famiglia mentre stavano bombardando Bologna, mi sembrava di assistere a uno spettacolo meraviglioso di fuochi d’artificio. Paradossalmente lo ricordo come uno dei momenti più belli della mia vita. Perciò il mio cinema può considerarsi il prodotto di quei profumi, delle prime sensazioni e di quelle luci che hanno contribuito a formare la mia identità”.
Con negli occhi i ricordi delle atrocità della guerra magicamente trasfigurate da una precoce e accesa fantasia in cui si indovina la poesia degli esteti, Pupi Avati rievoca i fantasmi di ieri forse per scongiurare quelli che rendono inquieti i nostri giorni. Lo fa a suo modo, con ironia, garbo e una sana dose di rassegnata indulgenza verso il mondo che cambia troppo velocemente e nei confronti di se stesso, legato com’è a memorie divenute fatalmente patrimonio troppo intimo per non essere esclusivo.
“Quando le cose vanno male, quando i fatti del mondo mi fanno paura, mi rifugio nel ricordo delle ‘mie’ donne: quelle che hanno contato di più nella mia vita. Spazzo via così i cattivi pensieri, le ombre brutte, perché le donne sono creature d’amore nate per farci dimenticare l’odio e la violenza“. Le figure femminili sono state fondamentali nella vita di Pupi Avati, a partire da quella centrale della madre, rimasta vedova dopo un incidente stradale in cui il marito aveva perso la vita. Era il dieci agosto del 1950 e la curva in direzione Sant’Arcangelo di Romagna, esattamente la stessa in cui quasi un secolo prima il padre di Giovanni Pascoli era stato freddato da due sicari mentre tornava a casa in calesse. Da quell’istante mamma Ines dovrà essere per i suoi figli madre e padre al contempo. Dando prova di straordinaria tempra caratteriale e tanto coraggio diventerà loro consigliera, educatrice e migliore amica, disposta a difenderli in ogni occasione, appoggiandone le scelte ma anche pronta ad essere severa all’occorrenza. Un faro assoluto nella vita di Pupi e dei suoi fratelli. Un modello femminile di marcata espressività che, declinato nei modi più diversi, non mancherà di manifestarsi nel suo cinema sempre costellato da importanti attrici: nomi di grande valore come Francesca Neri, Vanessa Incontrada, Ines Sastre, Violante Placido. Con Mariangela Melato a svettare su tutte per le eccezionali qualità di metamorfosi, versatile in ogni ruolo e abile come poche nel saper indossare le maschere dei suoi personaggi con disinvoltura e in maniera perfetta .
“La Melato è stata l’attrice più importante in modo assoluto. Dal primo giorno che abbiamo iniziato a fare cinema insieme ho capito quanto fosse una compagna di lavoro brava ed efficiente. Mariangela non era solo bella: era la personificazione di eleganza, fascino e talento fusi insieme. Continuo a ritenerla la prima attrice ‘pensante‘ del mio cinema: aveva un bagaglio di idee proprie, idee intelligenti e stimolanti con cui era sempre interessante confrontarsi. Era unica. Poi naturalmente ce ne sono state altre: Laura Morante, ad esempio, con cui è stato bello e piacevole scambiarsi opinioni sul set. Laura è una donna di carattere che non subisce mai passivamente il ruolo del regista, anzi lo aiuta consigliandolo con perspicacia. Devo molto anche a Micaela Ramazzotti con la quale ho girato una serie molto lunga e faticosa dal titolo ‘Un Matrimonio’. Quando Micaela arrivava sapevamo che le nostre batterie si sarebbero ricaricate di energia positiva grazie alla sua overdose di ottimismo e vivacità in grado di fare bene a tutta la troupe”.
E nella vita personale di Avati, che ruolo ha avuto la figura femminile?
“La donna che ha inciso di più nella mia esistenza? Sicuramente mia madre che ho considerato ‘summa’ dell’ideale femminile. Un tipo di donna che si è colpevolizzata tutta la vita per quei suoi figli orfani, e per questo si è sacrificata in modo incondizionato. L’effetto è stato quello di obbligarmi a tarare su quell’esempio tutte le donne della mia esistenza. Mia moglie stessa con cui vivo da più di cinquant’anni è riuscita per fortuna a resistere e a difendere con decisione la propria indipendenza da certe bizzarre proiezioni psicologiche. Per il resto, lo confesso: la mia visione dell’universo femminile appartiene a criteri di un mondo vecchio in cui la bellezza di una donna era esaltata al massimo. Noi ragazzi di quell’epoca davamo esclusiva importanza all’aspetto estetico. Solo più tardi ho compreso, anche grazie ai miei figli, che le donne possono essere addirittura soltanto buone amiche…”.
Di solito i protagonisti delle sue pellicole sono timidi o tremendamente pasticcioni nelle faccende d’amore. Sono in qualche modo l’immagine di se stesso?
“È così: mi somigliano perché interpretano il personaggio che conosco meglio. Ero inadeguato e impacciato e non avevo nessuna fortuna con le donne. Ripensandoci mi brucia ancora il ricordo di quelle che mi hanno dato buca, mentre ho dimenticato completamente i pochi successi. Il pedinamento sterile di Dante nei confronti di Beatrice durato nove anni, che racconto nel film in uscita, è una situazione che ho vissuto personalmente. Mi consumavo in corteggiamenti che non portavano a nulla se non a qualche vago cenno di saluto. Ai miei tempi fare la corte a una ragazza era segnato da conquiste impercettibili: si dava peso perfino a un gesto involontario, all’espressione del volto o all’intensità di uno sguardo. Un lungo travaglio che quando non si mostrava del tutto vano portava al fidanzamento ufficiale e al matrimonio. Ogni cosa accadeva a suo tempo, diluito e spalmato in periodi lunghissimi, decisamente assurdi per il mondo accelerato di oggi”.
Cosa ne pensa del concetto di fedeltà?
“Ne ho una idea quasi dogmatica perché riguarda ogni mio rapporto con gli altri, qualunque esso sia. In realtà non concepisco derive nelle amicizie, nel lavoro, nei sentimenti: chi è con me non dovrà mai darmi l’impressione di fare il doppio gioco. La mia è una forma di gelosia e possessività che ha procurato sofferenza, di questo sono consapevole, anche se trovo difficile liberarmene. In realtà sono sempre vissuto nel timore dell’abbandono, nel perenne stato d’allarme di chi teme costantemente azioni di tradimento, tutti aspetti forse necessari per un processo di crescita”.
Ha mai tradito sua moglie?
“È ineluttabile che avvenga non appena cominci a indossare una identità che ti espone a questo tipo di esperienze. Quando da venditore di surgelati sono passato al ruolo di regista cinematografico tutto è cambiato: all’improvviso ero diventato affascinante e seducente. Gli effetti della mia nuova professione erano palesi, anche se la vanità ti fa immaginare doti inesistenti. Il ruolo è tutto. Una ubriacatura che si è tradotta in un periodo di separazione da mia moglie a causa del quale ho sofferto come mai in vita mia. Ritengo tuttavia salutare questa prova: può servire a capire che stare assieme con chi sa proprio tutto di te è la cosa più giusta da fare, ed è utile per restituire pieno e rinnovato significato a quella ormai desueta espressione che è ‘per sempre'”.