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Home » Scienze e culture » La fondazione “Fight the Stroke” aiuta le famiglie di bambini colpiti da ictus perinatale. I cofondatori: “Serve parlare e condividere le conoscenze”

La fondazione “Fight the Stroke” aiuta le famiglie di bambini colpiti da ictus perinatale. I cofondatori: “Serve parlare e condividere le conoscenze”

Francesca Fedeli e Roberto D'Angelo sono i genitori di Mario, un bambino sopravvissuto all'ictus, malattia ancora associata solo all'anzianità. Dalla loro esperienza nasce la fondazione per condividere spazi e conoscenze. L'ultimo progetto? La Palestra dei Fighters

Valentina Bertuccio D'Angelo
12 Maggio 2021
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Se si cerca online una definizione di ictus (stroke in inglese), per esempio sul sito del ministero della Salute, si scopre tra le altre cose che “è più frequente dopo i 55 anni; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni“. Quello che la rete non dice è che può colpire anche il feto nel grembo della mamma o il neonato: studi recenti, infatti, stimano fino a 3 casi di ictus perinatale ogni mille nati. Nel 2011 uno di questi bimbi era Mario. Inizia così, con una diagnosi infausta, la seconda vita dei suoi genitori, Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo, cofondatori di FightTheStroke.org, fondazione che supporta la causa dei giovani sopravvissuti all’ictus e con una disabilità di paralisi cerebrale infantile. Informazione, ricerca, divulgazione (come le giornate Call4Brain) e anche iniziative sul campo, come l’ultima: la Palestra dei Fighters. Ma andiamo con ordine.

Ph. Andrea Ruggeri

 

La storia di Mario e di Fight The Stroke

Roberto e Francesca D’Angelo, con il piccolo Mario, al TED Global nel 2013. Photo: Ryan Lash

“Nel 2011, dopo aborti precoci e una gravidanza difficile, è arrivato Mario con un mese d’anticipo”, racconta Francesca. A dieci giorni dal parto, nell’ambito di una sperimentazione sui bimbi prematuri, il piccolo fa un’ecografia cerebrale e si scopre che ha avuto un ictus. In grembo, nel momento del parto, dopo? Non si sa. “Non c’erano segnali -racconta Francesca -, quindi saperlo subito è stata una salvezza. Ma sul momento è stato difficilissimo, soprattutto associare al nostro bambino un evento così inaspettato come l’ictus, che ti immagini capiti a un uomo adulto e magari poco in forma”. I primi tempi sono durissimi. “È stato devastante, anche perché non trovavamo informazioni. Nonostante colpisca 17 milioni di bambini nel mondo, è una malattia poco conosciuta e ricercata, e di conseguenza è difficile lavorare sulla prevenzione”. Inizia così un viaggio intimo e familiare che dura due anni, Francesca e Roberto pensano solo a capire come ‘aggiustare’ il loro Mario. “Vedevamo solo medici, per lui l’ambiente era tutto tranne che stimolante. Poi abbiamo ripreso a fare viaggi di piacere e ci siamo accorti che Mario progrediva più così che negli ambulatori, che trattandolo da bimbo e non da malato stava meglio”. Poi nel 2013, quasi per caso, i due si ritrovano a parlare della propria storia al TED Global, il video fa un milione di visualizzazioni e lì capiscono: “Dovevamo parlare e condividere le nostre conoscenze”. Nel 2014 nasce quindi Fight The Stroke, sotto forma di associazione con l’obiettivo di studiare l’ictus infantile e la paralisi cerebrale infantile. Nasce anche un gruppo chiuso su Facebook, che oggi è seguito e usato da un migliaio di famiglie e ha anche uno spin off sui giovani adulti. “La tecnologia è un salvagente -prosegue Francesca- perché aiuta a mettere insieme ricercatori e famiglie”. L’associazione è poi diventata una fondazione “perché volevamo avere un dialogo più aperto e internazionale”.

 

La ricerca sull’ictus infantile

Mario durante uno dei viaggi insieme ai suoi genitori. Ph. Andrea Ruggeri

Fight The Stroke diventa sempre più grande, così Francesca lascia il lavoro e si dedica alla fondazione insieme al marito, che rimane a lavorare in Microsoft. E intanto la consapevolezza su questo fenomeno grave e poco studiato aumenta sempre di più in Italia. “Anche nel campo della ricerca sono cambiate molte cose, abbiamo contribuito ad alzare il livello della conversazione e creato una serie di protocolli e linee guida“. Nel 2017 Fight The Stroke contribuisce alla creazione del primo Centro Stroke per il neonato e il bambino all’ospedale Gaslini di Genova. “Qui le famiglie possono fare una serie di visite in day hospital per avere una diagnosi certa e un piano terapeutico. Questo è molto importante perché sanno subito qual è la direzione da prendere”. E molto importante è anche passare
da un hub centrale, il Gaslini, per poi riportare le informazioni sul territorio. “In questo modo i ricercatori stanno raccogliendo molto materiale per capire quali sono i fattori di rischio dell’ictus perinatale, che magari è legato a qualcosa che va storto nel passaggio da mamma a bimbo tramite la placenta. Ma i fattori di rischio sono tanti, un centinaio! È molto difficile capire come intervenire e prevenire”.

 

La Palestra dei Fighters

I bambini e le istruttrici in un momento di pausa durante le attività della Palestra dei Fighters

Se c’è un’eredità positiva lasciata dall’anno del Covid, è l’esplosione delle lezioni di fitness online. Necessarie, obbligatorie per mantenersi in movimento anche durante il lockdown. E ancora più importanti per le persone con disabilità, che già normalmente sono ‘escluse’ dall’attività sportiva e fisica in generale. Basti pensare che in Italia solo l’8,5% delle persone con disabilità pratica regolarmente attività sportiva. Da queste considerazioni – e come spin off dei Fight Camp estivi – nell’aprile di quest’anno nasce l’ultima importante iniziativa di Fight The Stroke: la Palestra dei Fighters (www.palestrafighters.com). Più di una palestra online, è un “canale di potenziamento” dedicato a tutte le persone con disabilità permanente o temporanea, di ogni età. Parole d’ordine: inclusione, valorizzazione delle diversità, prezzi democratici. Concretamente, è un luogo virtuale dove si possono acquistare lezioni di diverse discipline adattate, che magari sotto casa non si troverebbero. Le istruttrici, tutte esperte di disabilità e tutte donne, insegnano danza e para-taekwondo, fisioterapia neurologica, terapia occupazionale e musicoterapia. Ma il progetto si estenderà a logopedia, psicologia e supporto genitoriale, teatro. Gli adaptive o para-sports rappresentano un segmento di mercato ancora poco presente in Italia e un potenziale di due miliardi di consumatori di servizi adattati in tutto il mondo. In Italia le persone con disabilità sono 4 milioni. “Le attività da remoto hanno diversi vantaggi -spiega ancora Francesca-. Per esempio, si trovano professionisti che non sempre sono vicino casa. Per alcune disabilità, penso all’autismo, il video può fare da filtro verso una relazione in presenza. E poi lavorare in un ambiente domestico, di comfort, aiuta tutti, che rendono di più. E non dimentichiamo i caregiver, persone, quasi sempre mamme, che spesso lasciano il lavoro per dedicarsi a tempo pieno ai propri familiari con disabilità. Questo è un aiuto in più”.

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

#lucenews #lucelanazione #secondhand #vintage
  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

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Se si cerca online una definizione di ictus (stroke in inglese), per esempio sul sito del ministero della Salute, si scopre tra le altre cose che "è più frequente dopo i 55 anni; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni". Quello che la rete non dice è che può colpire anche il feto nel grembo della mamma o il neonato: studi recenti, infatti, stimano fino a 3 casi di ictus perinatale ogni mille nati. Nel 2011 uno di questi bimbi era Mario. Inizia così, con una diagnosi infausta, la seconda vita dei suoi genitori, Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo, cofondatori di FightTheStroke.org, fondazione che supporta la causa dei giovani sopravvissuti all’ictus e con una disabilità di paralisi cerebrale infantile. Informazione, ricerca, divulgazione (come le giornate Call4Brain) e anche iniziative sul campo, come l’ultima: la Palestra dei Fighters. Ma andiamo con ordine.
Ph. Andrea Ruggeri
 

La storia di Mario e di Fight The Stroke

Roberto e Francesca D'Angelo, con il piccolo Mario, al TED Global nel 2013. Photo: Ryan Lash
"Nel 2011, dopo aborti precoci e una gravidanza difficile, è arrivato Mario con un mese d’anticipo", racconta Francesca. A dieci giorni dal parto, nell’ambito di una sperimentazione sui bimbi prematuri, il piccolo fa un'ecografia cerebrale e si scopre che ha avuto un ictus. In grembo, nel momento del parto, dopo? Non si sa. "Non c’erano segnali -racconta Francesca -, quindi saperlo subito è stata una salvezza. Ma sul momento è stato difficilissimo, soprattutto associare al nostro bambino un evento così inaspettato come l’ictus, che ti immagini capiti a un uomo adulto e magari poco in forma". I primi tempi sono durissimi. "È stato devastante, anche perché non trovavamo informazioni. Nonostante colpisca 17 milioni di bambini nel mondo, è una malattia poco conosciuta e ricercata, e di conseguenza è difficile lavorare sulla prevenzione". Inizia così un viaggio intimo e familiare che dura due anni, Francesca e Roberto pensano solo a capire come 'aggiustare' il loro Mario. "Vedevamo solo medici, per lui l’ambiente era tutto tranne che stimolante. Poi abbiamo ripreso a fare viaggi di piacere e ci siamo accorti che Mario progrediva più così che negli ambulatori, che trattandolo da bimbo e non da malato stava meglio". Poi nel 2013, quasi per caso, i due si ritrovano a parlare della propria storia al TED Global, il video fa un milione di visualizzazioni e lì capiscono: "Dovevamo parlare e condividere le nostre conoscenze". Nel 2014 nasce quindi Fight The Stroke, sotto forma di associazione con l’obiettivo di studiare l’ictus infantile e la paralisi cerebrale infantile. Nasce anche un gruppo chiuso su Facebook, che oggi è seguito e usato da un migliaio di famiglie e ha anche uno spin off sui giovani adulti. "La tecnologia è un salvagente -prosegue Francesca- perché aiuta a mettere insieme ricercatori e famiglie". L'associazione è poi diventata una fondazione "perché volevamo avere un dialogo più aperto e internazionale".  

La ricerca sull’ictus infantile

Mario durante uno dei viaggi insieme ai suoi genitori. Ph. Andrea Ruggeri
Fight The Stroke diventa sempre più grande, così Francesca lascia il lavoro e si dedica alla fondazione insieme al marito, che rimane a lavorare in Microsoft. E intanto la consapevolezza su questo fenomeno grave e poco studiato aumenta sempre di più in Italia. "Anche nel campo della ricerca sono cambiate molte cose, abbiamo contribuito ad alzare il livello della conversazione e creato una serie di protocolli e linee guida". Nel 2017 Fight The Stroke contribuisce alla creazione del primo Centro Stroke per il neonato e il bambino all’ospedale Gaslini di Genova. "Qui le famiglie possono fare una serie di visite in day hospital per avere una diagnosi certa e un piano terapeutico. Questo è molto importante perché sanno subito qual è la direzione da prendere". E molto importante è anche passare da un hub centrale, il Gaslini, per poi riportare le informazioni sul territorio. "In questo modo i ricercatori stanno raccogliendo molto materiale per capire quali sono i fattori di rischio dell’ictus perinatale, che magari è legato a qualcosa che va storto nel passaggio da mamma a bimbo tramite la placenta. Ma i fattori di rischio sono tanti, un centinaio! È molto difficile capire come intervenire e prevenire".  

La Palestra dei Fighters

I bambini e le istruttrici in un momento di pausa durante le attività della Palestra dei Fighters
Se c'è un'eredità positiva lasciata dall'anno del Covid, è l'esplosione delle lezioni di fitness online. Necessarie, obbligatorie per mantenersi in movimento anche durante il lockdown. E ancora più importanti per le persone con disabilità, che già normalmente sono 'escluse' dall’attività sportiva e fisica in generale. Basti pensare che in Italia solo l’8,5% delle persone con disabilità pratica regolarmente attività sportiva. Da queste considerazioni - e come spin off dei Fight Camp estivi - nell’aprile di quest'anno nasce l’ultima importante iniziativa di Fight The Stroke: la Palestra dei Fighters (www.palestrafighters.com). Più di una palestra online, è un "canale di potenziamento" dedicato a tutte le persone con disabilità permanente o temporanea, di ogni età. Parole d’ordine: inclusione, valorizzazione delle diversità, prezzi democratici. Concretamente, è un luogo virtuale dove si possono acquistare lezioni di diverse discipline adattate, che magari sotto casa non si troverebbero. Le istruttrici, tutte esperte di disabilità e tutte donne, insegnano danza e para-taekwondo, fisioterapia neurologica, terapia occupazionale e musicoterapia. Ma il progetto si estenderà a logopedia, psicologia e supporto genitoriale, teatro. Gli adaptive o para-sports rappresentano un segmento di mercato ancora poco presente in Italia e un potenziale di due miliardi di consumatori di servizi adattati in tutto il mondo. In Italia le persone con disabilità sono 4 milioni. "Le attività da remoto hanno diversi vantaggi -spiega ancora Francesca-. Per esempio, si trovano professionisti che non sempre sono vicino casa. Per alcune disabilità, penso all’autismo, il video può fare da filtro verso una relazione in presenza. E poi lavorare in un ambiente domestico, di comfort, aiuta tutti, che rendono di più. E non dimentichiamo i caregiver, persone, quasi sempre mamme, che spesso lasciano il lavoro per dedicarsi a tempo pieno ai propri familiari con disabilità. Questo è un aiuto in più".
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