Se si cerca online una definizione di ictus (stroke in inglese), per esempio sul sito del ministero della Salute, si scopre tra le altre cose che “è più frequente dopo i 55 anni; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni“. Quello che la rete non dice è che può colpire anche il feto nel grembo della mamma o il neonato: studi recenti, infatti, stimano fino a 3 casi di ictus perinatale ogni mille nati. Nel 2011 uno di questi bimbi era Mario. Inizia così, con una diagnosi infausta, la seconda vita dei suoi genitori, Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo, cofondatori di FightTheStroke.org, fondazione che supporta la causa dei giovani sopravvissuti all’ictus e con una disabilità di paralisi cerebrale infantile. Informazione, ricerca, divulgazione (come le giornate Call4Brain) e anche iniziative sul campo, come l’ultima: la Palestra dei Fighters. Ma andiamo con ordine.
La storia di Mario e di Fight The Stroke
“Nel 2011, dopo aborti precoci e una gravidanza difficile, è arrivato Mario con un mese d’anticipo”, racconta Francesca. A dieci giorni dal parto, nell’ambito di una sperimentazione sui bimbi prematuri, il piccolo fa un’ecografia cerebrale e si scopre che ha avuto un ictus. In grembo, nel momento del parto, dopo? Non si sa. “Non c’erano segnali -racconta Francesca -, quindi saperlo subito è stata una salvezza. Ma sul momento è stato difficilissimo, soprattutto associare al nostro bambino un evento così inaspettato come l’ictus, che ti immagini capiti a un uomo adulto e magari poco in forma”. I primi tempi sono durissimi. “È stato devastante, anche perché non trovavamo informazioni. Nonostante colpisca 17 milioni di bambini nel mondo, è una malattia poco conosciuta e ricercata, e di conseguenza è difficile lavorare sulla prevenzione”. Inizia così un viaggio intimo e familiare che dura due anni, Francesca e Roberto pensano solo a capire come ‘aggiustare’ il loro Mario. “Vedevamo solo medici, per lui l’ambiente era tutto tranne che stimolante. Poi abbiamo ripreso a fare viaggi di piacere e ci siamo accorti che Mario progrediva più così che negli ambulatori, che trattandolo da bimbo e non da malato stava meglio”. Poi nel 2013, quasi per caso, i due si ritrovano a parlare della propria storia al TED Global, il video fa un milione di visualizzazioni e lì capiscono: “Dovevamo parlare e condividere le nostre conoscenze”. Nel 2014 nasce quindi Fight The Stroke, sotto forma di associazione con l’obiettivo di studiare l’ictus infantile e la paralisi cerebrale infantile. Nasce anche un gruppo chiuso su Facebook, che oggi è seguito e usato da un migliaio di famiglie e ha anche uno spin off sui giovani adulti. “La tecnologia è un salvagente -prosegue Francesca- perché aiuta a mettere insieme ricercatori e famiglie”. L’associazione è poi diventata una fondazione “perché volevamo avere un dialogo più aperto e internazionale”.
La ricerca sull’ictus infantile
Fight The Stroke diventa sempre più grande, così Francesca lascia il lavoro e si dedica alla fondazione insieme al marito, che rimane a lavorare in Microsoft. E intanto la consapevolezza su questo fenomeno grave e poco studiato aumenta sempre di più in Italia. “Anche nel campo della ricerca sono cambiate molte cose, abbiamo contribuito ad alzare il livello della conversazione e creato una serie di protocolli e linee guida“. Nel 2017 Fight The Stroke contribuisce alla creazione del primo Centro Stroke per il neonato e il bambino all’ospedale Gaslini di Genova. “Qui le famiglie possono fare una serie di visite in day hospital per avere una diagnosi certa e un piano terapeutico. Questo è molto importante perché sanno subito qual è la direzione da prendere”. E molto importante è anche passare
da un hub centrale, il Gaslini, per poi riportare le informazioni sul territorio. “In questo modo i ricercatori stanno raccogliendo molto materiale per capire quali sono i fattori di rischio dell’ictus perinatale, che magari è legato a qualcosa che va storto nel passaggio da mamma a bimbo tramite la placenta. Ma i fattori di rischio sono tanti, un centinaio! È molto difficile capire come intervenire e prevenire”.
La Palestra dei Fighters
Se c’è un’eredità positiva lasciata dall’anno del Covid, è l’esplosione delle lezioni di fitness online. Necessarie, obbligatorie per mantenersi in movimento anche durante il lockdown. E ancora più importanti per le persone con disabilità, che già normalmente sono ‘escluse’ dall’attività sportiva e fisica in generale. Basti pensare che in Italia solo l’8,5% delle persone con disabilità pratica regolarmente attività sportiva. Da queste considerazioni – e come spin off dei Fight Camp estivi – nell’aprile di quest’anno nasce l’ultima importante iniziativa di Fight The Stroke: la Palestra dei Fighters (www.palestrafighters.com). Più di una palestra online, è un “canale di potenziamento” dedicato a tutte le persone con disabilità permanente o temporanea, di ogni età. Parole d’ordine: inclusione, valorizzazione delle diversità, prezzi democratici. Concretamente, è un luogo virtuale dove si possono acquistare lezioni di diverse discipline adattate, che magari sotto casa non si troverebbero. Le istruttrici, tutte esperte di disabilità e tutte donne, insegnano danza e para-taekwondo, fisioterapia neurologica, terapia occupazionale e musicoterapia. Ma il progetto si estenderà a logopedia, psicologia e supporto genitoriale, teatro. Gli adaptive o para-sports rappresentano un segmento di mercato ancora poco presente in Italia e un potenziale di due miliardi di consumatori di servizi adattati in tutto il mondo. In Italia le persone con disabilità sono 4 milioni. “Le attività da remoto hanno diversi vantaggi -spiega ancora Francesca-. Per esempio, si trovano professionisti che non sempre sono vicino casa. Per alcune disabilità, penso all’autismo, il video può fare da filtro verso una relazione in presenza. E poi lavorare in un ambiente domestico, di comfort, aiuta tutti, che rendono di più. E non dimentichiamo i caregiver, persone, quasi sempre mamme, che spesso lasciano il lavoro per dedicarsi a tempo pieno ai propri familiari con disabilità. Questo è un aiuto in più”.