È stata una scelta condivisa con i tuoi amici/parenti? Cosa ti hanno detto?
"Tutti i miei amici e parenti sanno cosa studio e negli ultimi due anni ho decisamente passato più tempo in mare che a terra, con vari progetti universitari e non, a bordo di barche di varia natura, dunque tornare a bordo di una nave SAR è un fatto che non ha stupito nessuno. Anzi, negli ultimi mesi mi sono formata proprio per avere tutti i brevetti e certificazioni necessari per potermi imbarcare in modo ufficiale – per esempio sono ufficialmente un “mozzo” iscritta alla “gente di mare”, il registro dei marittimi in Italia. Insomma, mi stavo preparando da tempo, credo che tutti l’abbiano considerato un passaggio “ovvio” in questo momento del mio percorso.
Qual è stato il momento più toccante? E quello più drammatico?
"Ci sono due momenti di questa missione che mi hanno molto toccato. Uno è quando abbiamo assistito a un respingimento da parte della guardia costiera libica; l’altro è lo sbarco delle persone migranti con cui per una settimana abbiamo creato e condiviso un qualche tipo di comunità. Il momento dello sbarco è stato molto forte perché ha fatto emergere con violenza alcune delle asimmetrie che stavamo esperendo. Una volta arrivati al porto, ad accogliere i nostri compagni di viaggio c’erano decine di macchine della polizia, dei militari, della Croce rossa: guanti, tute, foto segnaletiche e impronte digitali. Nessuna carezza, nessun abbraccio per questi ragazzini che sono scesi singhiozzando dalla nave. “Little lion” era il sorpannome di uno di loro, 13 anni, somalo, un enorme sorriso e quasi nessun diritto, nemmeno quello di essere un bambino. “Grazie per avermi salvato la vita, ti renderò fiera di me, ti prometto che mi meriterò la possibilità che mi hai donato” – come se fosse un dono quello che gli abbiamo fatto, come se il punto fosse, come in molti sostengono, che siamo stati “buoni”, e che ci si debba meritare di avere salva la vita. E non fosse invece una questione di diritti di base, di necessità, semplicemente, di guardare fuori dal nostro orticello quando parliamo di “valori” europei".
Cosa pensi dell’atteggiamento dell’Europa e dell’italia in particolare nei confronti della questione migranti?
"L’atteggiamento italiano ed europeo è molto chiaro e poco fraintendibile. L’esternalizzazione dei confini è una pratica ormai ben consolidata, e gli accordi con la Libia sono quanto di più ovvio lo dimostri. Il tentativo di tenere “lontano dagli occhi” – cioè, al di là del mare, che ci si illude possa inghiottire tutto – le violazioni di quegli stessi diritti e valori di cui ci facciamo portavoce come europei è però un segreto di Pulcinella. La presenza delle ong in mare, come abbiamo potuto esperire sulla nostra pelle in questa missione, è però qualcosa di assolutamente insufficiente – anzi, paradossalmente rischia, ergendosi a tassello irrinunciabile per supplire alle vacanze dello Stato, di giustificarne l’assenza, finendo per perpetrare le stesse forme di disuguaglianze e asimmetrie. Le rivendicazioni identitarie e sovraniste – più o meno esplicite – sono senz’altro qualcosa che caratterizza il nostro secolo globalizzato: lo stato nazione come concetto su cui si basa la nostra identità europea, con un territorio sovrano e certo e una popolazione contenibile e quantificabile, è messo costantemente in dubbio dall’apertura dei mercati, dalla libertà di movimenti dei capitali finanziari e le idee liberali di regime istituzionale, buon governo e libera espansione dei diritti umani; le differenze diventano chimere ingestibili, i migranti corpi ambigui da espellere".
Cosa bisognerebbe fare secondo te? "Non credo ci siano risposte pratiche specifiche. Personalmente spero sempre che i miei studi possano sempre aggiungere qualche piccolo tassello nella comprensione della realtà che ci circonda; come attivista cerco di mettere il mio senso pratico dell’azione. Le due cose in realtà si compenetrano. Credo sia importante, appropriandosi di una pratica come quella del “salvare vite”, ricordarsi sempre di dare profondità di contesto - storica, sociale, geografica – a quello che si sta facendo. Avere ben chiaro di chi sono le responsabilità, quali le cause, non fermarsi all’atto di salvare vite in sé. La presunta universalità della vita umana a cui facciamo appello, attraverso l’empatia, quando parliamo di “salvare vite” è spesso solo una chimera. La nostra “umanità” occidentale l’abbiamo costruita piena di disuguaglianze, è un nostro dovere metterle a fuoco e provare a ridurle. Insomma, cerchiamo di rendere un po’ più complesso lo scenario, quando possiamo. La sola empatia rischia di assuefare molto in fretta". “Sui tubolari del gommone le strisce delle gambe e le impronte delle mani graffiano ogni ricordo. “Where are they?” mi chiede Haua, una delle donne salvate due giorni prima, fissandomi con occhi sorridenti appena risalgo a bordo dal rhib. Pugnalata, il mio sguardo basso che ammette la sconfitta trasforma ogni speranza in drastico spavento. La sensazione di non poter essere abbastanza come corollario consustanziale alla nostra stessa presenza mi divora. I “se” campeggiano i nostri pensieri silenziosi. Una questione di pochi minuti, e avremmo potuto evitare che il tremendo controllo dei confini avesse la meglio su quel troppo scontato diritto da noi tutti posseduto alla libera circolazione. Non per loro”.