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"Un bimbo somalo mi ha detto: 'Grazie, cercherò di meritare il dono che mi hai fatto'. Ma essere salvati in mare non è un dono. È un diritto"

di DOMENICO GUARINO -
18 ottobre 2021
Apertura

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"Le piattaforme petrolifere che sputano fuoco a largo della Libia hanno un che di distopico e terrificante, tremendi macchinari che si stagliano nel pozzo nero della notte in mezzo al mare. La luna crescente illumina flebilmente un tratto di acqua, ossimorica bellezza nel dramma che ci avvolgeva. Disperata è la ricerca – una corsa contro il tempo. Romba il motore di questo vecchio rimorchiatore. Invano. Davanti ai nostri occhi, un punto nero nel binocolo è la guardia costiera libica che con efferata arroganza si riprende ciò che considera suo. Un bambino nato in mezzo al mare, una tanica vuota la sua culla: vita e morte si confondono nella schiuma delle onde. Le braccia dolgono per lo sforzo di tenere il binocolo fisso sull’orizzonte. Un gommone nero con settanta persone a bordo: ci illudiamo di vederlo nel tremolio del mare mosso al crepuscolo, ogni onda è una speranza e una disillusione. Il rhib (la lancia veloce che viene calata dalla nave per effettuare i salvataggi) corre veloce e scattoso, la torcia buca l’acqua troppo vasta. Cambiamo direzione, come un cane impazzito che non sa fidarsi del suo fiuto. Battiti che salgono, la mascherina troppo stretta, il vento fende i nostri corpi e trafigge i nostri occhi stanchi. Quando la carcassa appare in lontananza, qualche ingenuo cuore si riaccende: magari qualcuno è riuscito a salvarsi, nascondersi, tuffarsi, sfuggire. Ma solo oggetti inerti e un pungente odore di benzina si palesano ai nostri sensi. Vuoto, nessuno a bordo. Bottiglie, panni, taniche non fanno che sottolineare l’assenza di vita fino a pochi istanti prima presente". Salvare vite. Accarezzando l’acqua con l’attenzione che merita il dovere di non lasciare nessuno in balia del proprio destino. Essere parte dell’umanità migrante, sapendo che si è dalla parte giusta della storia. E’ quello che fanno centinaia di giovani (e meno giovani) che, nel disinteresse, talvolta, e nell’ostilità, spesso, dei governi e delle opinioni pubbliche, si sobbarcano il fardello di non girarsi dall’altra parte. Di pescare tra i flutti il senso della vita, restituendo una speranza a chi sta naufragando. E’ nel Mediterraneo, come lungo le frontiere caucasiche e balcaniche che si costruisce o si distrugge l’Europa. E’ nel Mediterraneo, con le sue decine di migliaia di vittime della speranza che si rifondano le ragioni dello stare insieme, in quella che chiamiamo umanità.

Migranti sbarcati a Lampedusa

Ed è qui che opera Jasmine Iozzelli, 27 anni,  dottorato in Antropologia all’Università di Torino sul tema delle migrazioni nel Mediterraneo da completare, con una tesi su l’antropologia del mare e l’antropologia delle migrazioni. Jasmine -che partecipa anche al progetto di ricerca “Ermenautica-Saperi in Rotta” dell’Università di Roma La Sapienza che indaga il Mediterraneo come campo etnografico- dal 2018 ha iniziato un percorso “marittimo” che l’ha portata a fare la soccorritrice sulle navi SAR di Mediterranea Saving humans e ResqPeople. Le righe, dense si commozione vivida, che riportiamo in apertura e che riporteremo in chiusura, sono tratte dal suo diario. Come mai la decisione di imbarcarti? "E' sorta vari mesi fa, quando ho vinto il dottorato a Torino. Il mio progetto prevede infatti anche una parte di ricerca sul campo a bordo delle navi di attivisti nel Mediterraneo. Questa idea sorge dalla mia precedente esperienza a bordo di Mediterranea, l’associazione italiana attiva dal 2018 con la nave Mare Jonio. Da allora, le mie riflessioni accademiche sono state volte principalmente all’odierna situazione del Mediterraneo, letta alla luce dell’antropologia delle migrazioni, dell’umanitario, del mare. Insomma, una partecipazione immersiva è richiesta dal mio tipo di studi, ma la scelta del campo è dipesa da un mio coinvolgimento personale nella dimensione politica del fenomeno stesso".

È stata una scelta condivisa con i tuoi amici/parenti? Cosa ti hanno detto?

Una imbarcazione Resq people impegnata nel Mediterraneo

"Tutti i miei amici e parenti sanno cosa studio e negli ultimi due anni ho decisamente passato più tempo in mare che a terra, con vari progetti universitari e non, a bordo di barche di varia natura, dunque tornare a bordo di una nave SAR  è un fatto che non ha stupito nessuno. Anzi, negli ultimi mesi mi sono formata proprio per avere tutti i brevetti e certificazioni necessari per potermi imbarcare in modo ufficiale – per esempio sono ufficialmente un “mozzo” iscritta alla “gente di mare”, il registro dei marittimi in Italia. Insomma, mi stavo preparando da tempo, credo che tutti l’abbiano considerato un passaggio “ovvio” in questo momento del mio percorso.

 

Qual è stato il momento più toccante? E quello più drammatico?

"Ci sono due momenti di questa missione che mi hanno molto toccato. Uno è quando abbiamo assistito a un respingimento da parte della guardia costiera libica; l’altro è lo sbarco delle persone migranti con cui per una settimana abbiamo creato e condiviso un qualche tipo di comunità. Il momento dello sbarco è stato molto forte perché ha fatto emergere con violenza alcune delle asimmetrie che stavamo esperendo. Una volta arrivati al porto, ad accogliere i nostri compagni di viaggio c’erano decine di macchine della polizia, dei militari, della Croce rossa: guanti, tute, foto segnaletiche e impronte digitali. Nessuna carezza, nessun abbraccio per questi ragazzini che sono scesi singhiozzando dalla nave. “Little lion” era il sorpannome di uno di loro, 13 anni, somalo, un enorme sorriso e quasi nessun diritto, nemmeno quello di essere un bambino. “Grazie per avermi salvato la vita, ti renderò fiera di me, ti prometto che mi meriterò la possibilità che mi hai donato” – come se fosse un dono quello che gli abbiamo fatto, come se il punto fosse, come in molti sostengono, che siamo stati “buoni”, e che ci si debba meritare di avere salva la vita. E non fosse invece una questione di diritti di base, di necessità, semplicemente, di guardare fuori dal nostro orticello quando parliamo di “valori” europei".

Cosa pensi dell’atteggiamento dell’Europa e dell’italia in particolare nei confronti della questione migranti?

Salvataggio in mare di migranti su un barcone

"L’atteggiamento italiano ed europeo è molto chiaro e poco fraintendibile. L’esternalizzazione dei confini è una pratica ormai ben consolidata, e gli accordi con la Libia sono quanto di più ovvio lo dimostri. Il tentativo di tenere “lontano dagli occhi” – cioè, al di là del mare, che ci si illude possa inghiottire tutto – le violazioni di quegli stessi diritti e valori di cui ci facciamo portavoce come europei è però un segreto di Pulcinella. La presenza delle ong in mare, come abbiamo potuto esperire sulla nostra pelle in questa missione, è però qualcosa di assolutamente insufficiente – anzi, paradossalmente rischia, ergendosi a tassello irrinunciabile per supplire alle vacanze dello Stato, di giustificarne l’assenza, finendo per perpetrare le stesse forme di disuguaglianze e asimmetrie. Le rivendicazioni identitarie e sovraniste – più o meno esplicite – sono senz’altro qualcosa che caratterizza il nostro secolo globalizzato: lo stato nazione come concetto su cui si basa la nostra identità europea, con un territorio sovrano e certo e una popolazione contenibile e quantificabile, è messo costantemente in dubbio dall’apertura dei mercati, dalla libertà di movimenti dei capitali finanziari e le idee liberali di regime istituzionale, buon governo e libera espansione dei diritti umani; le differenze diventano chimere ingestibili, i migranti corpi ambigui da espellere".

Cosa bisognerebbe fare secondo te? "Non credo ci siano risposte pratiche specifiche. Personalmente spero sempre che i miei studi possano sempre aggiungere qualche piccolo tassello nella comprensione della realtà che ci circonda; come attivista cerco di mettere il mio senso pratico dell’azione. Le due cose in realtà si compenetrano. Credo sia importante, appropriandosi di una pratica come quella del “salvare vite”, ricordarsi sempre di dare profondità di contesto - storica, sociale, geografica – a quello che si sta facendo. Avere ben chiaro di chi sono le responsabilità, quali le cause, non fermarsi all’atto di salvare vite in sé. La presunta universalità della vita umana a cui facciamo appello, attraverso l’empatia, quando parliamo di “salvare vite” è spesso solo una chimera. La nostra “umanità” occidentale l’abbiamo costruita piena di disuguaglianze, è un nostro dovere metterle a fuoco e provare a ridurle. Insomma, cerchiamo di rendere un po’ più complesso lo scenario, quando possiamo. La sola empatia rischia di assuefare molto in fretta".

L'imarcazione Sea Watch 4

“Sui tubolari del gommone le strisce delle gambe e le impronte delle mani graffiano ogni ricordo. “Where are they?” mi chiede Haua, una delle donne salvate due giorni prima, fissandomi con occhi sorridenti appena risalgo a bordo dal rhib. Pugnalata, il mio sguardo basso che ammette la sconfitta trasforma ogni speranza in drastico spavento. La sensazione di non poter essere abbastanza come corollario consustanziale alla nostra stessa presenza mi divora. I “se” campeggiano i nostri pensieri silenziosi. Una questione di pochi minuti, e avremmo potuto evitare che il tremendo controllo dei confini avesse la meglio su quel troppo scontato diritto da noi tutti posseduto alla libera circolazione. Non per loro”.